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Q uando si hanno pochi mezzi, spesso ci si accontenta di realizzare opere modeste, limitate dalle risorse disponibili. Nel cinema, ad esempio, ci si rifugia nella sicurezza di commedie dal sapore teatrale, dove una regia statica e il minimalismo scenico bastano a raccontare una storia. Si punta tutto su dialoghi sfibranti o carrellate infinite su paesaggi evocativi che nascondono la mancanza di azione. Ma non è stato questo il caso di Albert Pyun. Nonostante i pochi mezzi a disposizione, egli scelse comunque di sognare in grande. I suoi film sono stati tutto tranne che modesti: pirotecnici, visionari, ambiziosi oltre ogni contenimento. Ha creato universi futuristici, storie distopiche e violenti mondi post-apocalittici, dove il confine tra uomo e macchina, realtà e fantasia, era pressoché labile, per non dire inesistente. Ha dato vita a pellicole che avrebbero richiesto budget da kolossal, ma che ha realizzato con una determinazione ferrea e con l’audacia di chi non si lascia spaventare dai limiti. Pyun era un regista che pensava in grande, anche quando il budget era piccolo. Prendeva materiali di fortuna, assemblava effetti speciali artigianali e li trasformava in una visione coerente e vibrante. I suoi lavori erano un’ode all’ingegno creativo: film dove le ambientazioni sembravano più grandi di quanto realmente fossero, dove la luce e il colore compensavano ciò che mancava in risorse, dove il concept aveva la potenzialità di creare saghe ‒ come accaduto per alcuni casi. Nonostante le innumerevoli e scontate critiche tecniche, i suoi film avevano un cuore pulsante, e non erano semplicemente opere di intrattenimento, ma dichiarazioni di intenti. Dietro ogni pellicola c’era un rischio, un’idea, un’ostinata ricerca di creare qualcosa di unico. Albert Pyun è stato uno dei pochi a dimostrare che il cinema di genere poteva avere la stessa dignità delle grandi produzioni, anche se i mezzi erano scarsi: un regista che, pur privo di grandi risorse, ha scelto di non farsi limitare, ma di volare altissimo.
Il suo esordio, The Sword and the Sorcerer (in italiano La spada a tre lame) spicca subito tra le vette del box office, e con i suoi 39 milioni di dollari si aggiudica il premio come “most profitable independent film of 1982”. Pyun, che era cresciuto con il cinema di Godard, Buñuel, Leone e Bergman, fu aiutato da Toshiro Mifune, uno dei più grandi attori giapponesi di sempre, che vide un suo cortometraggio e decise di scrivergli e, successivamente, di prenderlo sotto la sua ala, dal momento che sapeva quanto fosse difficile per un asiatico lavorare a Hollywood in quel periodo. Avrebbe dovuto seguire l’attore per fare uno stage col maestro Akira Kurosawa e lavorare nel capolavoro Dersu Uzala (1975), da ricordare, tra le altre cose, per aver salvato la vita del regista giapponese da una fortissima depressione. Ma Mifune che sapeva cosa significava lavorare con Kurosawa, non voleva trascorrere un anno in Siberia (dove è girato il film) e decise di mollare il progetto. In questo modo Pyun si ritrovò a lavorare a una serie TV insieme a Mifune e al direttore della fotografia di Kurosawa, Takao Saito.
Nonostante le innumerevoli e scontate critiche tecniche, i suoi film avevano un cuore pulsante, e non erano semplicemente opere di intrattenimento, ma dichiarazioni di intenti.
Amante di registi come Kingh Hu e Tsui Hark, tra i suoi film preferiti spiccano classici nipponici come I 3 dell’Operazione Drago (1973) di Robert Clouse, 18 Bronzemen (1975) di Joseph Kuo e la saga Lone Wolf and Cub, nonché il lavoro di Raymond Chow, il produttore che ha reso le arti marziali e il cinema di Hong Kong famoso in tutto il mondo. A lui si deve il successo di Bruce Lee, Tsui Hark e Jackie Chan. Un tipo di cinema che spingeva gli attori oltre ogni limite della loro fisicità. Basti pensare proprio a Jackie Chan, nato come stunt professionista, non volle mai usare controfigure per i suoi film, tanto da restare ferito innumerevoli volte durante la lavorazione di scene pericolose ‒ e nei suoi film ce ne sono: in Police Story (1985), un uomo viene trascinato dal muso di una moto mentre sfascia vetrine e banconi di un centro commerciale. Purtroppo, in La spada a tre lame ci scappò addirittura il morto. Durante le riprese lo stuntman Jack Tyree mancò il centro del cuscino d’aria che serviva ad attutire il suo atterraggio da un volo di circa 24 metri di altezza, e non sopravvisse.
Tra gli attori del cast, è doveroso segnalare Richard Lynch, forse il villain per eccellenza della storia del cinema, e Lee Horsley, che prima di essere rispolverato da Quentin Tarantino per i suoi Django Unchained e The Hateful Eight, tornerà a collaborare con Pyun per il proseguimento di La spada a tre lame, intitolato Tales of an Ancient Empire (2010). Dirà Pyun di lui: “Sfortunatamente, la parrucca che indossava gli causò un’infezione al cuoio capelluto. C’era troppo sangue nel film e odiava essere messo su quella croce. Quando gli ho chiesto di partecipare a Tales of an Ancient Empire, ha detto che avrebbe accettato solo se non lo avessi crocifisso di nuovo”. Il grande successo del film lo portò all’attenzione di grandi produttori cinematografici, come Dino De Laurentiis, che aveva in mente un progetto basato sulla storia breve di Philip K. Dick, We Can Remember It for You Wholesale, con William Hurt nel ruolo del protagonista. Pare che Pyun volesse concentrarsi sull’aspetto psicologico della trama, mantenendo comunque l’ambientazione futuristica dickiana, diversamente dalla sceneggiatura che invece aveva una verve più spettacolare e virtuosistica. Queste divergenze, legate a problemi finanziari, fecero in modo che i diritti passassero a Carolco Pictures, che affidò la regia a Paul Verhoeven e il ruolo principale ad Arnold Schwarzenegger, portando alla realizzazione del film nel 1990 ‒ se ci fosse bisogno di dirlo, uno dei capolavori della fantascienza nel cinema: Atto di forza. Il giovane Pyun ripiega verso un progetto follemente ambizioso: Radioactive Dreams (1985). Un film che avrebbe dovuto avere lo stesso budget di I cancelli del cielo di Michael Cimino, per essere realizzato adeguatamente:
Ho raccolto il budget da solo da un singolo investitore. Era un promotore immobiliare di San Bernardino, California. Penso che l’abbia fatto perché alla fine ha ceduto alla mia tenace insistenza per oltre un anno. Ha detto ‘no’ molte volte, ma io continuavo a sentirmi dire ‘sì’. Sono un ottimista, credo. Credevo nel film e sapevo che sarebbe stato un film unico, il seguito di The Sword and the Sorcerer. Comunque a metà della produzione i finanziamenti sono scomparsi.
Radioactive Dreams è un’opera che mescola generi in modo inusuale, con una trama poliziesca post-apocalittica che si intreccia a riferimenti stilistici e narrativi di altre epoche, creando una sorta di omaggio nostalgico al cinema noir e alla cultura pop.
Down Twisted (1987) è un thriller ad alta presenza femminile, uno dei film preferiti dallo stesso Pyun. Alien from L.A. (1988) è invece un titolo a suo modo iconico, quantomeno nella sua filmografia. È una sorta di Alice nel paese delle meraviglie in versione distopica, steampunk, con l’ironia anni Ottanta americana. È la storia di Wanda, una nerd occhialuta con una voce “pitchata” su toni altissimi, impersonata dalla top model Kathy Ireland, che diventa adulta mettendosi alla ricerca di suo padre, un archeologo scomparso. Un viaggio che la porterà al centro della terra e alla scoperta di Atlantide. Un mix tra Radioactive Dreams e Brazil. Sulla carta un capolavoro, purtroppo realizzato non all’altezza delle sue ambizioni. In ogni caso, basta arrivare ai titoli di testa per capire che resta a suo modo imperdibile.
Cyborg (1989) è probabilmente il film più conosciuto della sua filmografia. Un film post-apocalittico in cui un mercenario, Gibson, interpretato da Jean-Claude Van Damme, deve salvare un cyborg che porta al suo interno dati informatici che serviranno per l’antidoto contro la peste. La sua impresa sarà ostacolata da Fender, il capo di un branco di pirati che vuole che il mondo rimanga nel caos. Un villain cattivissimo, impersonato dal surfista neozelandese Vincent Klyn, al suo primo ruolo di successo. Gibson contro Fender, esattamente. Per l’esattezza Gibson Rickenbacker contro Fender Tremolo, poi ci sono altri personaggi con altri nomi di chitarre, come Marshall Strat, per esempio. “Un film d’avventura di headbanger heavy metal. Molto dark. Molto pessimista”, ma di Cyborg esistono diverse versioni, tra cui il director’s cut del 2011, intitolato Slinger, il nome originariamente previsto per il film, decisamente più cupo e lungo, più cattivo e con una colonna sonora diversa, riscritta per l’occasione da Tony Riparetti e Jim Saad. Fu girato con un budget limitato di circa 500.000 dollari e in un periodo relativamente breve. “Cyborg è stato il prodotto di quello che avrebbe potuto essere un periodo di svolta della mia carriera. Sapevo che la Cannon aveva i diritti di Spider-Man e i diritti del sequel di Masters of the Universe. Sapevo anche che i diritti di Spider-Man stavano per scadere. Ho proposto a Menahem Golan e Yoram Globus di girare entrambi i film uno dopo l’altro nel North Carolina (nello studio di De Laurentiis a Wilmington). Cannon ha accettato. E ho scelto il cast per entrambi i film”. Ma purtroppo Cannon fece sfumare l’accordo con Marvel e Mattel, ritrovandosi in un brutto guaio finanziario:
Dopo aver speso ben oltre 2 milioni di dollari in set, costumi e preparazione, Cannon era disperata e voleva trovare un modo per recuperare la spesa. Ho suggerito di fare un film che potesse utilizzare il più possibile ciò che era stato costruito e preparato e che sarebbe costato molto poco in più. Ho scritto una prima bozza di quello che è diventato Cyborg in un weekend e ho coinvolto un giovane attore, che voleva diventare sceneggiatore, per fare delle rifiniture. Il suo nome era Don Michael Paul e ha continuato a scrivere e dirigere Half Past Dead e Harley Davidson and the Marlboro Man.
Ero così infelice per quello che stava succedendo che concepii l’idea di fare un piccolo film. Usai le riprese aggiuntive per montare questo piccolo film. Selezionai le location delle riprese di Cyborg in modo che corrispondessero a ciò di cui avevo bisogno per girare Deceit. Poi mi accordai con la troupe per pre-installare e pre-illuminare le riprese di Cyborg in modo che potessero essere utilizzate in seguito per Deceit. La troupe rimase in silenzio, così come le aziende di attrezzature. Ci furono momenti in cui Van Damme e il suo compare Lettich si interrogarono sulla strana scelta della location e dell’attrezzatura delle riprese. Fortunatamente, nessuno indovinò che stavamo preparando e girando un altro intero film. La sera dopo aver terminato le riprese di Cyborg (opportunamente di giovedì), iniziammo a girare Deceit nel weekend. La telecamera, le luci, ecc. sono state impacchettate e restituite lunedì e nessuno se n’è accorto. Il film è costato 22.000 dollari. È stato girato con una sola ripresa per ogni inquadratura perché avevo meno di 13.000 piedi di pellicola e il film finale era lungo 10.000 piedi. Nessun margine di errore e gli attori erano perfetti. In seguito ho venduto Deceit a Menahem Golan e l’ho trovato nei videonoleggi dalla Svizzera a Hong Kong.
I critici sbeffeggiarono Captain America. Un classico Pyun stroncato malamente all’epoca per poi essere rivalutato negli anni a oggetto cult.
Il periodo Full Moon Features, storica casa cinematografica out guidata dal mitico Charles Band (autore di pellicole come Trancers, Evil Bong e Corona Zombie), dura giusto il tempo di un paio di film. Dollman (1991) parla di un poliziotto spaziale, rimpicciolito e grande 13 pollici (33 cm), che si ritrova nella pericolosissima New York con la sua Kruger Blaster, la pistola più potente dell’universo. “Charlie originariamente immaginava Dollman come uno scienziato rimpicciolito che combatte gli insetti come il film Disney con Rick Moranis. Io avevo un’opinione diversa. Una commedia noir più grintosa costruita su un poliziotto duro e rimpicciolito. È stato il mio slogan a convincere Charlie: ‘13 inches… with an attitude!’”. Ovviamente c’erano gli onnipresenti problemi di budget, ma attraverso l’uso della fotografia in prospettiva forzata e oggetti di scena in grandi dimensioni, il risultato è gustoso. Poi c’è Tim Thomerson, un attore che è uno stile di vita, pyuniano doc. La critica, continuando a guardare il dito e non la luna, sbeffeggiò Dollman, deridendo i suoi effetti speciali. L’altro Full Moon è Arcade (1993), pioneristico nel suo uso della CGI (Computer Generated Imagery), sebbene Walt Disney minacciasse azioni legali per via di scene, a loro dire, troppo simili ad alcune contenute in Tron. Pyun dovette quindi modificare parti del film, anche se la versione originale fu comunque distribuita in alcuni Paesi come Argentina, Germania, Polonia e Italia. Più o meno lo stesso budget di Dollman, ma qui si puntava verso il futuro. Il risultato agli occhi di quei tempi non convinse minimamente: oggi è un must vaporwave, impossibile non restare affascinati.
Pyun inizia a ricevere appellativi non proprio incoraggianti, come “l’Ed Wood di questa generazione” o “il peggior regista del mondo”.
La trama di Nemesis si snoda tra combattimenti e sparatorie ai limiti della performatività umana e anche qui abbiamo dei feriti.
Hong Kong ’97 (1994) è da vedere assieme a Crazy Six (1997). Due film stavolta ben realizzati, date le pretese più basse dei contenuti, che esplorano, a suo modo, le possibili conseguenze geopolitche di quei tempi. Il primo è incentrato sulla transizione politica dalla sovranità britannica di Hong Kong a quella cinese, in un action teso, in alcuni momenti anche raffinato. Crazy Six, più fantapolitico, si svolge in una zona dell’Europa orientale post-comunista pornograficamente soprannominata Crimeland. Scritto da Galen Yuen, un ex-membro di gang, poi divenuto attore. Non è necessario aggiungere altro, a parte la splendida fotografia che ricorda David Lynch e l’oscurità di Abel Ferrara. Il merito è del direttore della fotografia George Mooradian, storico collaboratore di Pyun, con il quale ha firmato ben 24 pellicole, contribuendo moltissimo a codificare il colore, l’atmosfera e il look vero e proprio di questa filmografia. Albert Pyun, schernito dai critici, non è mai stato preso sul serio. Considerato un regista “da battaglia”, votato al più mero intrattenimento. La sua opera è un muro scalcinato, formato da blocchi disomogenei. Sicuramente non verrà ricordato come un maestro, ma se è vero che il cinema è fatto di immagini che scolpiscono l’immaginario, allora non si può dire che non abbia svolto il suo lavoro adeguatamente. In coppia con Mooradian ha saputo creare atmosfere che fanno vibrare corde molto nascoste. Tutti i suoi film sono discontinui, altalenanti, pieni di vistosi rattoppi e fatti con mezzi di fortuna. Ma come non innamorarsi delle sue immagini davanti al combattimento iniziale dell’alba post-apocalittica di Omega Doom? Per non parlare della “fabbricazione”, durante i titoli di testa, del cattivissimo e inespressivo cyborg metà umano, Xao, di Heatseeker. Altre due gemme rare. Omega Doom (1996) è la new wave del distopico, Heatseeker (1995) non sfigura minimamente tra ai classici delle arti marziali.
Il direttore della fotografia George Mooradian, storico collaboratore di Pyun, con il quale ha firmato ben 24 pellicole, ha contribuito moltissimo a codificare il colore, l’atmosfera e il look vero e proprio della sua filmografia.
Postmortem (1998) è il film soglia pyuniano. Un buon thriller, con Charlie Sheen nei panni di un ex detective e autore di best seller, che si trasferisce a Glasgow per dimenticare il passato e combattere l’alcoolismo. Cupo e sulla scia dei vari Il silenzio degli innocenti, ultimo film insieme a George Mooradian. Per la prima e ultima volta suona un’orchestra in un film di Pyun. Girato in nove giorni: “Charlie ha davvero reso Postmortem il successo che è stato con il suo talento e il suo eroismo. Ha lavorato solo sei giorni e ha dovuto fare 18-20 pagine e 15-16 scene al giorno!”. Pare, inoltre, che lo stesso Sheen, in quel periodo vivace della sua vita, fregandosene del parere della produzione, avesse visitato zone pericolose di Glasgow, pregando per farsi rimediare una pistola, al solo scopo di procurarsi droghe.
Raven Hawk è un film clamoroso, con una violenza che viene espressa senza mezzi termini, ma che ha al suo interno momenti esilaranti.
Ticker (2001) è il Dune jodorowskyano di Albert Pyun: pare fossero stati stanziati 6 o 7 milioni di dollari, ma “All’ultimo minuto il nostro budget è stato tagliato del 50%. Non il budget per le star, ma quello per le riprese del film. Quindi abbiamo dovuto tagliare il programma e abbiamo perso la maggior parte delle scene d’azione più grandi”. Alcune scene furono rimpiazzate con girati di altri film, tra cui The Peacekeeper di Frederic Forestier. 600.000 dollari, girato in 10 giorni. Un cast incredibile: Dennis Hopper, Steven Seagal, Tom Sizemore e alcuni rapper come Ice-T, Nas e Chilli delle TLC. Un disastro, una delle più grandi delusioni della sua carriera.
“Uno dei miei peggiori film. Devo dire che gli attori, incluso Seagal, ci hanno provato molto. Ma il film era semplicemente destinato al fallimento fin dall’inizio a causa dei litigi tra il distributore statunitense e quello estero. Hopper è stato fantastico l’unico giorno in cui ha lavorato. Anche Sizemore è stato un vero professionista. Seagal ha lavorato sei giorni dei dieci giorni di riprese. Ed era in quel periodo di transizione dall’essere una star teatrale al cadere direttamente nei video dei cestoni dei supermarket. Un duro colpo per qualsiasi attore, ma lo è stato ancora di più per qualcuno come Steven che è stato perseguitato dalle insicurezze, credo”.
Max Havoc: Curse of the Dragon (2005) è l’ultimo film di Albert Pyun con una grande crew. Il film, neanche a dirlo fu stroncato dalla critica, tanto da divenire un cult ed essere considerato “così brutto da essere bello”. Può sembrare impossibile difenderlo, è vero, ma posso assicurare che dopo aver visto molti suoi film, un personaggio come Max Havoc (tra l’altro, esisteva un gruppo metal con questo nome, non so quanto sia voluto il riferimento) è oro nella carineria di plastica della quasi totalità del cinema contemporaneo. A pensarla in questo modo però, devono essere stati in pochi. Oltre al suo status di cult discutibile, il film è tristemente famoso per le controversie legali legate al suo finanziamento. La GEDCA (Guam Economic Development and Commerce Authority) aveva concesso un prestito di 800.000 dollari al produttore John F.S. Laing, con l’idea di incentivare il cinema sull’isola (Guam, per l’appunto) e rilanciare la sua economia locale. Tuttavia, il disastroso rendimento commerciale del film impedì la restituzione del prestito, dando origine a una battaglia legale tra la GEDCA e Laing, durata anni. La disputa si concluse con un accordo extragiudiziale, ma la vicenda rappresentò un duro colpo per l’industria cinematografica locale e contribuì a seppellire definitivamente le ambizioni di Max Havoc come potenziale franchise. Nonostante ciò, un sequel, Max Havoc: Ring of Fire, fu comunque realizzato nel 2006. A differenza del primo film, questo venne girato in Canada, con un budget ancora più ridotto e senza il coinvolgimento di Pyun. Il sequel non riuscì a rilanciare la saga e venne rilasciato direttamente in home video, chiudendo di fatto ogni possibilità di un ulteriore sviluppo del franchise.
Quando tutto sembra andare sempre verso il peggio, Pyun firma il suo film più sperimentale, che farà da apripista per alcune altre sue pellicole di questo genere, più tese e quasi claustrofobiche, che chiuderanno la parte finale della sua carriera, che vanta qualcosa come più di 50 film. Invasion (2005, conosciuto anche col titolo Infection) torna sul tema pandemico e alieno. Girato attraverso un interessante prospettiva unica che simula una dashcam della polizia, è un film che mantiene una sua atmosfera particolare. Cool Air del 2006 è tratto dall’omonimo racconto di Lovecraft e parla di un tizio che sviluppa una fobia per l’aria fredda. Il successivo Left for the Dead (2007) è un western horror girato in Argentina in 12 giorni: un violento film di vendette femminili, a metà tra il suo Raven Hawk e l’eastwoodiano Gli spietati, ma con l’horror. Road To Hell (2008) è un sequel non ufficiale di un film che ha sempre amato, cercando di ricrearne le atmosfere in alcuni suoi lavori, Streets of Fire (1984) di Walter Hill, un regista con il quale condivide molto.
Quando tutto sembra andare verso il peggio, Pyun firma il suo film più sperimentale, Invasion, che farà da apripista per alcune altre sue pellicole di questo genere, più tese e quasi claustrofobiche.
Pyun, con i mezzi sempre più limitati a sua disposizione, ha continuato a fare ciò che amava, costruendo mondi distopici e raccontando storie pulp e violente che, nonostante le imperfezioni, hanno mantenuto una loro coerenza stilistica e narrativa.
Entrambi hanno subito pressioni dagli studios, ma mentre Lynch ha preferito ritirarsi dal sistema e finanziare i suoi progetti più recenti in modo indipendente, Pyun ha accettato ogni opportunità di girare, anche con budget irrisori. Dove Lynch costruiva mondi onirici e stratificati, Pyun inseguiva il movimento, il ritmo e la pura energia visiva, senza troppi calcoli cerebrali. Due approcci opposti, ma una stessa, incrollabile dedizione al cinema, al di là del successo o del riconoscimento. Difficile dire che Quentin Tarantino non sia un grande regista. Con i suoi Grindhouse e Planet Terror (di Robert Rodriguez, ma prodotto da Tarantino), ma anche più in generale con tutta la sua filmografia, egli ha celebrato il cinema di genere e i B-movie, ridando dignità a pellicole sfortunate, dimenticate, spesso relegate ai margini della distribuzione. Ma cosa sono i film di Pyun, se non questo? Se c’è un autore che incarna davvero questa attitudine, è proprio lui. Non come omaggio postmoderno o citazionismo consapevole: più semplicemente il suo cinema è sempre stato parte integrante di quel mondo. Pyun non ha mai giocato a imitare o a riabilitare il cinema di serie B: lo ha vissuto, lo ha attraversato, lo ha costruito film dopo film, con ogni budget e in ogni condizione possibile. Il cinema di Pyun non è da accostare a quello di registi che hanno fatto della provocazione e del rifiuto del sistema una dichiarazione di intenti. Pensiamo a cineasti come Lloyd Kaufman, che ha trasformato la sua Troma Entertainment in un baluardo dell’indipendenza radicale, o a figure come Jim Wynorski o Fred Olen Ray, che hanno sempre operato ai margini, spesso con spirito apertamente ironico e dissacrante. Pyun, invece, non si è mai messo contro Hollywood. Non ha mai ripudiato il mainstream, né ha cercato di distinguersi come un autore volutamente antagonista. Semplicemente, non è mai stato accettato.
Dove Lynch costruiva mondi onirici e stratificati, Pyun inseguiva il movimento, il ritmo e la pura energia visiva, senza troppi calcoli cerebrali.