

L’ ultimo film di Céline Sciamma, Petite Maman, è il suo primo film fantasy. Una bambina, Nelly (Joséphine Sanz) e i suoi genitori si recano nella vecchia casa di famiglia, in campagna, dopo la morte della nonna di Nelly. La visita intristisce la madre di Nelly (Nina Meurisse), in parte legata all’intervento chirurgico a cui era stata sottoposta all’età di otto anni, e in parte legata all’ambiguità con cui ancora vede il suo essere diventata madre in giovane età. Quando Nelly si avventura nel bosco, incontra un’altra ragazza, Marion (Gabriella Sanz), che si chiama come sua mamma. Le bambine cominciano ad avvicinarsi sempre di più e Nelly si rende conto – o immagina, questo non lo sapremo mai – che Marion è l’incarnazione di sua madre da bambina.
Nel fantastico, l’architettura del mondo raccontato si articola in livelli ontologici separati (mondo onirico e mondo reale, regno dei vivi e dei morti ecc.), che interagiscono variamente l’uno con l’altro. Il racconto fantasy esprime tutta la sua forza nel passaggio di soglia tra il mondo familiare e quello “inquietante” in cui dobbiamo cadere: due mondi distinti che vanno rappresentati diversamente anche da un punto di vista linguistico, demarcati da un confine individuabile. Accade talvolta che l’esistenza di un livello ulteriore non sia reale ma possibile, illusoria; o che questo livello sia incluso nel mondo finzionale solo a livello allegorico, oppure ancora, che il confine tra i due può collassare.
In Petite Maman non ci sono portali che aprono lo spazio-tempo, macchine del tempo o magia nel modo tradizionale in cui siamo abituati a pensarla, né tantomeno quello che nella teoria del fantastico si chiama “oggetto mediatore”, un qualcosa fisico e concreto che attraversa il limen con il viaggiatore e finisce nel mondo normale: ricordo perturbante del passaggio compiuto. Nel film di Sciamma non c’è nulla di tutto questo; soltanto uno stacco di montaggio e diverse transizioni di luci e carrellate che ci fanno entrare in un’altra dimensione, così che i due mondi si compenetrino e il racconto rimanga fluido e scorrevole.
La trasfigurazione di un altro mondo passa sempre per un’attività di immaginazione e creazione continua, nei film di Sciamma. In Petite Maman, vediamo le due bambine intente a costruire, che si tratti di torte o capanne, avventurandosi in esperienze personali e intime. Sciamma le mostra come sole creatrici all’interno del proprio universo. Anche qui, come in Ritratto della giovane in fiamme, o Tomboy, la costante resta il racconto di formazione alternativo, dove è possibile circoscrivere un luogo altro e antitetico rispetto a una narrazione e storia predeterminate. Un laboratorio utopico, di vita, simboleggiato, ad esempio, in Ritratto della giovane in fiamme, dal canto intonato intorno al fuoco dalle donne, nel cui presente (oscuro, per le donne: siamo nel tardo Settecento) si cerca di far avanzare un’istanza di futuro. In in una delle sequenze finali di Petite Maman vediamo le due ragazzine in barca avanzare su un lago verso una piramide per poi salutarsi definitivamente: una sequenza più onirica che reale – non a caso l’unico momento del film contraddistinto dalla colonna sonora, così come quello di Ritratto della giovane in fiamme – con cui esplorano le potenzialità infinite del loro mondo.
In Petite Maman emerge uno dei temi fondamentali del cinema di Céline Sciamma. L’idea di sorellanza e cooperazione tra donne è il punto di partenza per ogni riflessione sul genere e sull’identità.
In Petite Maman emerge uno dei temi fondamentali del cinema di Céline Sciamma. L’idea di sorellanza e cooperazione tra donne è il punto di partenza per ogni riflessione sul genere e sull’identità: in Naissance des pieuvres (2007), è un tema che si evince dalla relazione dapprima controversa e sofferta tra le due protagoniste, che, pur in maniera inconsapevole, collaborano per il bene l’una dell’altra; in Bande des filles (2014), Sciamma filma le giovani protagoniste a partire dalla loro prospettiva, “obbedendo esclusivamente al loro sguardo”, così ha scritto Elisa Cuter, in modo tale che ogni sequenza restituisca loro un’individualità e uno statuto di esistenza che le allontani da una narrazione stigmatizzante, abituata a privarle della loro storia.
La cooperazione vigente tra Marion e Nelly è di un genere diverso e inaspettato, perché riguarda donne di generazioni diverse. “È un po’ questa l’idea”, mi dice Céline durante la nostra conversazione dello scorso autunno alla Festa del Cinema di Roma: “combinare l’aspetto gioioso e politico che vanno di pari passo” eliminando qualsiasi forma di gerarchia e creando un equilibrio tra quella che era la madre e quella che era la figlia. Che è la ragione per cui ha scelto due sorelle. “Ho pensato”, continua sorridendo “che se incontrassi mia madre a otto anni potrebbe essere mia sorella”. Si è quindi passati da una genealogia verticale a una orizzontale, ciò che ha portato, infatti, a quest’idea di sorellanza: superata la concezione dualistica madre-figlia, Sciamma arriva a far convivere nel film un vero e proprio trio, focalizzandosi su di esso a livello estetico e narrativo.
Non hai creato tu la mia tristezza, dice Marion, la “piccola madre” a sua figlia Nelly. In una delle ultime scene del film, le due bambine si confrontano e si domandano perché non si sarebbero più riviste. La partenza di Nelly era ormai imminente. Decidono quindi di salutarsi con una promessa ben precisa. Nelly è spaventata dalla tristezza che avrebbe causato alla madre negli anni successivi e le rende manifesto questo suo timore. Con una fermezza e decisione insoliti per una bambina, Marion le dice che non sarebbe mai stata lei la causa del suo malessere. Tutte le complicazioni, i caratteri meno illuminati dell’esperienza della maternità sono qui condensate nel giro di uno scambio di battute minimo e avvolto da una sospensione spazio-temporale misteriosa e inquietante. Ed è forse il momento più perturbante del film se unheimlich “è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”, dal momento che, con quella frase pronunciata da Marion, le due dimensioni raccontate da Sciamma hanno finalmente modo di incontrarsi.
Nonostante il film sia interamente costruito intorno alla fisionomia e ai corpi delle due bambine, collocando le loro azioni, i loro andirivieni, punti di vista e movimenti sempre al centro dell’inquadratura, Sciamma lascia trapelare una riflessione sulla maternità, o meglio, su una sua ridefinizione.
L’esplorazione dei tratti più contraddittori del materno si legge in filigrana in Petite Maman, celandosi dietro gli sguardi silenziosi e colmi di nostalgia di Marion. Nonostante il film sia interamente costruito intorno alla fisionomia e ai corpi delle due bambine, collocando le loro azioni, i loro andirivieni, punti di vista e movimenti sempre al centro dell’inquadratura, Sciamma lascia trapelare una riflessione sulla maternità, o meglio, su una sua ridefinizione. Proprio questo ultimo aspetto la avvicina all’esperienza di alcune cineaste contemporanee che si stanno ponendo molti più dubbi e domande sulle modalità di rappresentazione del materno, per lo più attraverso l’horror, ma non solo. Un film come The Lost Daughter (2021) di Maggie Gyllenhall, ad esempio, ci accompagna, in maniera sottesa e delicata, in una dimensione non idilliaca e lontana dalla retorica dell’accudimento e della maternità come impegno, dedizione, come passo necessario per arrivare a una completezza.
La complessità del vissuto materno e femminile è al centro di Petite Maman, declinato attraverso due prospettive differenti, quella di una madre e di una figlia che si incontrano in un mondo sospeso dove possono rinvenire le radici dell’identità di ognuna. “Le donne protagoniste dei tuoi film, anche di generazioni diverse” chiedo, quindi, a Céline “rivendicano sempre una posizione di osservanti, oltre che di osservate. E quindi una posizione nel mondo, una propria agency. In che modo pensi che il cinema stia portando avanti questa riflessione? C’è un genere cinematografico che mette in luce più di altri questo aspetto?”.
Credo di averla colta di sorpresa perché mi guarda abbastanza perplessa. Faccio per ripetere la domanda ma mi ferma subito dicendo: “E tu cosa ne pensi?” Dopo un breve tentennamento, decido di ricorrere al cinema l’horror, parlandole di come mi sembra stia andando a tematizzare molte inquietudini e ansie che le donne conoscono bene, citandole The Invisible Man (2020) di Leigh Whannel, che rilegge la storia dell’uomo invisibile in chiave femminista, restituendo lo spazio alla vittima, e Titane (2022) di Julia Ducournau, l’ultima Palma d’oro. Intanto la vedo annuire soddisfatta, come se già si aspettasse questa risposta e fosse contenta sia arrivata proprio da me. Mi risponde entusiasta, dicendo che “i cambiamenti arrivano dove sono più forti i movimenti di resistenza”. “Dove c’è più repressione” mi dice guardandomi fissa negli occhi “lì c’è resistenza”. Le dico che secondo me i suoi film definiscono uno spazio di riappropriazione identitaria anche ripensando l’immaginario del coming of age, come nel caso di Naissance des pioeuvres, Tomboy (2011) e Bandes des filles, costruiti intorno alla cura e a uno sguardo particolare verso la dimensione giovanile.
‘Dove c’è più repressione’ mi dice guardandomi fissa negli occhi ‘lì c’è resistenza’.
I tre film raccontano di una scoperta, o meglio, raccontano il processo che avrebbe condotto le protagoniste a una diversa consapevolezza di loro stesse, ed è evidente che a Sciamma interessi filmare proprio questo momento di passaggio. Le transizioni da una fase all’altra – che si tratti della scoperta del desiderio erotico, in Naissance des pioeuvres o di quella identitaria, come in Tomboy e Bandes des filles – non vengono quasi mai comunicate allo spettatore, quantomeno non verbalmente: non ci sono scambi di battute rivelatori né coming out dichiarati a gran voce, dal momento che sono i corpi delle protagoniste e i loro moti a indirizzare la narrazione. Sciamma li lascia così parlare ed esprimersi davanti alla macchina da presa, intenta a coglierne il disagio, l’eccitazione, la paura. Tutti sentimenti che costellano il microcosmo adolescenziale di ognuno e che caratterizzano le forme che i nostri corpi assumono in quei precisi anni.
La regia di Sciamma insiste, infatti, sui modi in cui i corpi delle protagoniste esprimono loro stessi con tutte le fattezze, i contorni e lineamenti indecisi che li caratterizzano. A trasmettere la sensazione di disagio provata da Marie (Pauline Acquart) nei confronti della sua splendida compagna di scuola Floriane (Adèle Haenel) è proprio la mimica del suo corpo quando si guarda allo specchio o quando cammina: le spalle chiuse, lo sguardo sempre rivolto verso il basso e impaurito e, nello stesso tempo, un desiderio dalla natura ancora debole ma pulsante che sembra voler esplodere dalle pieghe del suo volto corrugato e triste. Un desiderio avvolgente di cui Marie può fare esperienza soltanto quando riesce a imbucarsi alle lezioni di nuoto sincronizzato di Floriane: memorabile la ripresa sott’acqua delle gambe delle nuotatrici che si dibattono con forza tanto da creare una specie di mulinello, un vortice in cui il corpo gracile ed esile di Marie viene risucchiato, nel breve giro di una dissolvenza. Una sequenza che trova dei corrispettivi nella scena in cui in Bandes des filles la protagonista Marieme danza con le sue amiche in una stanza d’albergo, con sottofondo Diamonds di Rihanna, o in quella dove, in Tomboy, vediamo Laurie danzare nella camera da letto di Lisa: sequenze che generano come una sospensione nel ritmo narrativo, da cui si evince l’idea di Sciamma che il movimento dei corpi sia il simbolo di un’intensa energia, che libera il corpo dalla dualità maschile-femminile, rappresentandolo così libero dal voyeurismo.
Restituire spazio e rilevanza storica a una categoria sociale marginalizzata, perché resa invisibile dalla Storia, non significa parteggiare per una tesi e costruire la propria disamina a partire esclusivamente da quest’ultima.
Sciamma non ci induce a guardarli o contemplarli, questi corpi; al contrario, come in Bandes des filles, il punto di vista che sceglie di adottare ce li fa seguire, avvicinandoglisi in maniera cauta e circospetta, concedendogli spazio. Uno spazio di cui le donne nere protagoniste del film sono state da sempre private dal cinema. Soggettività poste al margine e che, in questo caso, vengono risituate al centro della narrazione, dell’immagine, dell’inquadratura, fatte affiorare dal fuori campo con uno specifico obiettivo politico. Scegliere di partire “dal margine”, infatti, restituendo spazio e rilevanza storica a una categoria sociale marginalizzata, perché resa invisibile dalla Storia, non significa parteggiare per una tesi e costruire la propria disamina a partire esclusivamente da quest’ultima. Al contrario, per Sciamma, ridefinire le prospettive e gli sguardi, riprendendo le parole di Elisa Cuter, vuol dire “insinuare il dubbio che i privilegi su cui si fondava l’ordine precedente stiano via via scomparendo, e che la subalternità riguardi tutti”. In Bandes des filles, il personaggio di Marieme smette di esistere solo in relazione a un unico sguardo – occidentale e fallocentrico – gravitando così intorno a un centro costituito dalla propria soggettività, dal fatto di coincidere con sé stessa e con la propria presenza. E in questo film – forse più degli altri – lo studio sui comportamenti e sull’interazione assume maggiore compiutezza, tanto più se inserita all’interno di un contesto “ad altezza di bambino”, di giovane, dove l’assenza della dimensione familiare, e degli adulti, concorre a sviscerarne contraddizioni e problematiche, delle verità, appunto.
Fin dal suo primo film, Sciamma ha cercato di rappresentare la giovinezza come un momento in cui si è liberi di sperimentare il genere e le identità e in cui le norme culturali sono sia riprodotte che sovvertite, provocando una tensione che crea deliberatamente confusione nel pubblico. Ciò che si avverte in Tomboy. Tomboy, il cosiddetto “maschiaccio”, è una figura che offre un’alternativa al codice di condotta femminile dominante e Sciamma se ne serve per mettere in discussione e complicare quella che Judith Butler definiva “performance di genere”: per la studiosa, il genere non è predeterminato dalla natura o dalla biologia, né è semplicemente costituito dalla cultura. Butler ha sottolineato che il genere risiede in parole e azioni ripetute, che formano e sono modellate dai corpi di esseri umani reali, fatti di carne e ossa.
Qualcosa che ricorda moltissimo il programmatico inizio del documentario Normal (2017) di Adele Tulli. La macchina da presa è fissa sul volto inquieto di una bambina che non desidera affatto bucarsi le orecchie, ma deve perché ci si aspetta che faccia così per coprire quei tratti del volto ancora indefiniti, incerti, quasi gli orecchini costituiscano una specie di suggello identitario. Fin da bambini, quindi, identità di genere e sesso biologico non possono che coincidere, altrimenti si è fuori dalla norma. C’è poi una panoramica sulle varie tipologie di giocattoli: ferri da stiro e cucinotti per “bambine” raffigurate sognanti e in attesa di “bambini” a cui invece spettano strumenti di caccia e lavoro. Partendo da simili presupposti, dal canto suo, Céline Sciamma li stravolge. Mostra come l’identità del suo “tomboy” sia definita da un susseguirsi di performance femminili e maschili insieme con un particolare gioco di mise en abyme. Ad esempio, quando un’amica di Laurie – che ai suoi occhi si era finto maschio, quindi Michael – la invita a casa sua, assistiamo a un’esibizione all’interno di una performance: Laurie, una ragazza, interpreta un ragazzo che a sua volta interpreta una ragazza, diventando così un’unica entità, fatta di imitazioni e identità multiple.
Lo spazio di bambine, adolescenti, artiste non verrà più estirpato come ogni volta che si nega importanza alla loro storia sociale e culturale; verrà invece ampliato, esplorato, investigato fino a riportare in superficie i caratteri taciuti e silenziati del loro vissuto.
“Lo spazio delle donne è anche tutto quello che non ricordiamo perché è lo spazio che non hanno mai avuto nelle storie scritte dagli uomini” (D. Brogi, Lo spazio delle donne). Se dovessi descrivere con poche parole e immediatezza il cinema di Céline Sciamma, partirei proprio da queste parole di Daniela Brogi, cioè che, come pure abbiamo visto parlando di Tomboy e Naissance des pioeuvres, la cineasta francese costruisce uno spazio estetico e narrativo dedicato alle donne che rappresenta un vero e proprio campo di espressione e verifica delle identità, restituendo profondità di campo alla loro esperienza: bambine, adolescenti, artiste, il loro spazio non verrà più estirpato come ogni volta che si nega importanza alla loro storia sociale e culturale; verrà invece ampliato, esplorato, investigato fino a riportare in superficie i caratteri taciuti e silenziati del loro vissuto. Penso quindi di domandarle in che modo riusciva sempre a conciliare la necessità di trasmettere un messaggio politico con la libertà interpretativa lasciata allo spettatore, dal momento che i suoi film, come detto all’inizio, non dicono mai nulla esplicitamente, alludendo e accompagnando lo spettatore tramite suggestioni. “Probabilmente perché mi baso sulle sensazioni” mi dice lei “cercando di unire delle idee che possono poi danzare insieme, in maniera sensuale, di una sensualità che si lega a una concezione precisa del desiderio. Più idee ci sono più il film diventa politico”. A quel punto non potevamo non cominciare a parlare del suo film-manifesto: Ritratto della giovane in fiamme, che a me piace sempre ricordare dalla fine.
Secondo il mito, durante il tragitto che li avrebbe condotti lontano dall’Ade, Orfeo si sarebbe voltato soltanto sulla soglia del mondo dei vivi, convinto che anche Euridice fosse ormai del tutto fuori. Dimenticandoci per un attimo del racconto di Ovidio, anziché voltarsi subito, Orfeo si sarebbe potuto fermare lì per un momento, ancora in piedi e timoroso, le viscere che gli si contorcevano per l’impazienza, la felicità per le prove d’amore superate, con lo sguardo e il pensiero rivolti all’imminente incontro con Euridice, così tanto atteso. Avrebbe potuto attendere un suo cenno, ancora qualche secondo prima di voltarsi, un suo gesto concreto che gli avrebbe dimostrato la realtà della presenza, o meglio, dell’esistenza di Euridice. E non soltanto l’illusione. Ma Orfeo ha “egoisticamente” scelto per sé e per l’altra, decretandone il destino e, come afferma Marianne (Noémie Merleant) – la pittrice – in Ritratto della giovane in fiamme, volendo conservare “il ricordo di un amore” che non avrebbe mai più subito i rivolgimenti del tempo.
Céline Sciamma opera uno stacco rispetto al mito, poiché è finalmente Euridice, incarnata dalla turbinosa Heloise (Adèle Haenel), a prendere la parola, in una delle ultime sequenze che ricalca il mito riscrivendolo al contempo, attraverso un semplice rivolgimento di ruoli. Richiamando l’attenzione di Marianne poco prima di salutarsi per sempre, con addosso quel funereo abito bianco che abitava le sue allucinazioni, Heloise/Euridice le ordinerà di voltarsi, scegliendo, lei stessa, il suo destino. Nel ritrarre Heloise, i primi tentativi di Marianne risultano fallimentari: non riesce a coglierne il sorriso né a marcarne i lineamenti. Tutto le sembra una menzogna, una maniera di osservare fredda e distaccata, e alla fine, nonostante la riuscita del dipinto, il più autentico sarà quello che si vede all’inizio del film, che chiamerà Portrait de la jeune fille en feu, con Heloise minuta, al centro del dipinto e con le pieghe del vestito che bruciano, colta nella sua verità, inquietudine e indefinitezza, e intorno il buio, il cielo e mare bretoni, complementari al disvelarsi del sentimento.
La scrittura di Céline Sciamma si configura come una pratica politica di creazione di un universo alternativo, o di un cinema alternativo che apre possibilità di coalizioni e alleanze inaspettate.
Partendo dalla ridefinizione del mito, passando poi per un’efficace decostruzione di un immaginario, la scrittura di Céline Sciamma si configura come una pratica politica di creazione di un universo alternativo, o di un cinema alternativo che apre possibilità di coalizioni e alleanze inaspettate, come lei stessa spesso dichiara, creando a partire dalla propria soggettività di donna, dalla differenza della propria esperienza; o ancora, da una sostanziale unicità nel modo di guardare ed essere guardate, risultando, in un certo senso, il contraltare di un altro film costruito sull’atto contemplativo, Mademoiselle di Park Chan-wook.
Il regista sudcoreano, ricontestualizzando nella Corea negli anni Trenta la novella di Sarah Walters, La ladra, costruisce un polittico in cui la presenza totemica del Conte Fuijwara e dello zio Kouzuki si contrappone a quella di Hideko e Sookhee, l’una il contraltare dell’altra, i cui corpi appaiono fin dall’inizio come oggetti del potere e dell’autorità maschili. La forza di quest’autorità è data non tanto dalla prestanza fisica, poiché non c’è quasi mai violenza, carnale, se non alla fine, nell’atteggiamento del Conte e dello zio nei confronti delle due donne; il potere è invece attestato dalla capacità di suggellare modelli femminili ideali e perfetti tramite un sistema di indottrinamento spietato: il Conte prevede infatti che Sook-hee viva una vita da abile calcolatrice, mentre lo zio Kouzuki che il corpo di Hideko si trovi imbrigliato fin dall’adolescenza nelle mura del seminterrato di casa, dove viene obbligata a intrattenere degli uomini leggendo e simulando dei racconti erotici.
Se nel film di Chan-Wook l’atto del guardare viene filtrato una prospettiva interamente maschile (sia dal punto di vista dei personaggi che del regista) e da uno sguardo tentacolare, in Ritratto della giovane in fiamme si assiste invece a una situazione inversa: il soggetto del ritratto, chi si sta spogliando nei più intimi caratteri, diviene co-creatore, co-creatrice, in questo caso, dell’opera stessa, musa attiva nella riappropriazione e rimodulazione del processo creativo che non è più unilaterale, anzi partecipato attivamente da entrambi le parti. Viene in mente il quadro Pygmalion del surrealista Paul Delvaux, per un’altra variazione operata sul mito: non è il pittore che, innamoratosi della sua statua l’abbraccia, dandole vita, ma è una donna che circuisce una statua maschile striminzita. Non è più la donna a fungere da musa né oggetto su cui plasmare le fantasie di un qualsiasi Pigmalione. La donna è questa volta il soggetto creante, unico riverbero di desideri e volontà.