C ’era una volta Hollywoodland, un’impresa immobiliare che aveva eretto un’insegna recante il proprio nome sulle colline californiane, nel 1923. Come ogni storia americana, anche questa è intrinsecamente legata alla conquista territoriale, allo spazio reale e fantastico in cui piantare la banderuola della propria immaginazione. Ovviamente a scopo di lucro. L’arte venne sempre dopo, come un bizzarro errore di fabbricazione o un incidente fortuito, che doveva comunque sapersi vendere bene. L’attrito fra denaro e creazione è il soggetto di un mastodontico saggio sulla storia del cinema statunitense, La formula perfetta, appena portato in Italia da Adelphi con la traduzione di Gilberto Tofano. Come tanti veri esegeti ed estimatori di Los Angeles e dintorni, anche l’autore del volume, David Thomson, non è un nativo.
Nato a Londra, Thomson è diventato storico e critico del cinema oltreoceano, scrivendo per testate come Film Comment e The New Republic e specializzandosi nel resoconto biografico. Il suo New Biographical Dictionary of Film è una sorta di dizionario Mereghetti organizzato per personalità, in cui la selezione dei personaggi ne include anche di marginali, tutti raccontati schiettamente. “In paradiso, spero, non ci saranno stelle – solo attori non protagonisti. E una delle grandi forze del cinema americano sono proprio loro”. Questa è anche una debolezza, ammette Thomson, poiché il sistema di riferimento continua ad insistere che ci siano persone più importanti. La sua critica al canone, come si vedrà, è più lodevole quando applicata alla narrazione e alla scrittura che quando prova a dare voce a chi canta fuori dal coro. Ma Thomson ama the movies ancora prima dei film, ed è questa fascinazione viscerale che induce a una storiografia simpatica, che predilige l’aneddotica e il commento salace al dogmatismo fattuale e alla linearità di esposizione.
Nei suoi dispacci da Hollywood, Joan Didion – che notava l’energia sublimata del luogo e che Thomson doverosamente cita nell’epigrafe – dedica anche due righe all’attività critica. “La recensione cinematografica è stata tradizionalmente anche un diversivo per scrittori il cui vero lavoro è altrove”, scrive, menzionando le molte mattine trascorse da Graham Greene alle proiezioni stampa, per lo scrittore “‘una fuga’, uno stile di vita ‘adottato di buon grado per divertimento’. Forse è proprio quando si gonfia questo senso del divertimento con ‘un rapporto continuo con l’arte’”, continua Didion citando il critico Stanley Kaufmann, “che si oltrepassa il principio di realtà con tanto entusiasmo”.
Didion suggerisce che la critica cinematografica sia una pratica intellettuale inferiore alle altre, come se l’escapismo che caratterizza molte delle opere di cui si occupa l’avesse in qualche modo intaccata. Ma se questo è opinabile, l’infantilismo che la scrittrice rintraccia in coloro che si abbandonano al piacere del cinema “con tanto entusiasmo” ha qualcosa di vero. Bisogna mettere in conto una certa ingenuità, genuina o posticcia, per lasciarsi sorprendere più e più volte dai film e dal mo(n)do in cui nascono; oppure coltivare una certa propensione al sogno, senza però farsi illudere troppo – questo mai. È con tale spirito che Thomson compone La formula perfetta. Uscito nel 2003, spontaneamente lo definirei un “adorabile saltare di palo in frasca” sulla storia di Hollywood, dove è il tono conviviale dell’autore a fare ordine nella matassa sconfinata del suo sapere. La sua conoscenza, in barba al canone e in ossequio alle origini popolari della settima arte, include e divulga tanto il sentito dire quanto l’esperienza diretta, sia l’analisi socio-economica che il giudizio personale: il tutto in un’unica, lunga bobina.
Tornando a Hollywoodland, non ci volle molto prima che la scritta smettesse di pubblicizzare speculazione edilizia e cominciasse a significare qualcos’altro. Pochi anni dopo che fu eretta, una giovane attrice di nome Peg Entwistle si arrampicò sulla lettera H e si lanciò di sotto, togliendosi la vita. Ben prima della morte di James Dean (che Thomson ricorda dettagliatamente insieme a quella di Monroe), quella di Entwistle (che invece è menzionata en-passant) getta una luce sinistra e profetica sul potere che il cinema è capace di esercitare. A ventiquattro anni Entwistle era una veterana di Broadway, già stremata da anni di soprusi inflitti dal marito alcolizzato e attaccabrighe, a cui pagava non solo i frequenti rilasci dagli arresti ma anche gli alimenti per la prima moglie e il figlio. Il comportamento di lui finì per infierire sulla carriera di lei, che nel frattempo stava cercando di passare dal teatro al cinema.
L’infantilismo che Joan Didion rintraccia in coloro che si abbandonano al piacere del cinema “con tanto entusiasmo” ha qualcosa di vero.
Il primo e unico film a cui lavorò si intitolava Thirteen Women, un thrillerazzo dalle implicazioni saffiche che infatti non passò il vaglio della censura. Le scene di Entwistle furono tagliate, la sua presenza sullo schermo ridotta a quattro minuti e il suo contratto con la casa di produzione non rinnovato. L’attrice era morta da un mese quando, nel 1932, il film fu distribuito in poche sale. A produrlo era stato David O. Selznik nel suo breve periodo presso la RKO, una casa di produzione che all’epoca era piccola – non aveva ancora realizzato Quarto Potere – e solo più tardi venne considerata una major come la Metro-Goldwyn-Mayer, dove Selznik aveva cominciato la sua carriera. Il nostro “era schiavo delle sigarette, del gioco d’azzardo e del lusso esagerato, ed era anche un donnaiolo impenitente,” scrive Thomson; aveva anche sposato Irene, la figlia di Louis B. Mayer, un immigrato ebreo polacco, che aveva fatto i danè con i nickelodeons, i primi cine-vaudeville, ed era poi diventato fondatore della MGM nonché alchimista cruciale della “formula perfetta”.
Il segreto della miscela non è mai interamente svelato, perché questa cambia in base ai tempi e alle risorse, al matrimonio più o meno casuale tra corsa al guadagno e ingegno creativo. Ma Mayer, come Selznik, sembra l’avesse capita. Quest’ultimo la realizzò appieno in Via col vento (1939), avendo comprato quasi per caso i diritti del libro prima che uscisse, su consiglio dello staff femminile della recentemente fondata Selznik International. La storia della realizzazione è ben più interessante del melodramma in sé: le complicate negoziazioni stipulate con le major, che avevano l’esclusiva su certi attori e gli immensi costi di produzione a partire dalla stesura della sceneggiatura segnarono un precedente che cambiarono le regole del gioco. Nata come una produzione indipendente, di fatto Via col vento si fuse con la MGM, che scucì a Selznik la metà dei profitti in cambio di Clark Gable e un po’ di finanziamenti. Per la protagonista femminile si trattava con la Warner, che spingeva Bette Davis. Thomson scrive che Selznik non firmò alcun contratto fino al giorno d’inizio delle riprese, quando – tramite il fratello agente – intercettò un’allora sconosciuta Vivien Leigh. Magnetica era magnetica, ma soprattutto un affare: per 16 settimane di riprese costò molto meno degli occasionali ritocchi alla sceneggiatura richiesti a F. Scott Fitzgerald. La spesa totale fu di quasi un milione di dollari; solo nel primo anno e solo negli Stati Uniti se ne fatturarono 14. Ma Via col vento, scrive Thomson in una delle poche ammissioni del genere,
non è arte, non ci si avvicina nemmeno; (…) Selznick aveva finito per identificarsi con Scarlett O’Hara. Questo è degno di nota perché Hollywood, allora come oggi, era orribilmente maschilista e ostinatamente cieca al fatto assodato che sono le donne la maggioranza del pubblico, e decidono loro quale film andare a vedere; il deliberato rifiuto di considerare questo dato reale dimostra in modo inconfutabile il vero e proprio orrore che la fabbrica del cinema nutre per la sensibilità femminile. Infatti la sua brama voyeuristica resta maschile, e la percentuale di donne nelle posizioni chiave dell’industria è ancora ridicolmente bassa.
Come ogni segmento de La formula perfetta, molti sono i punti nevralgici e svariate le sovrapposizioni biografiche. Per cominciare con quello che credo stia più a cuore a Thomson, per il ruolo che svolge nel libro e l’affinità con la professione del critico, ecco la figura dello scrittore. Fitzgerald, che confermando l’opinione della Didion viveva gli ingaggi a Hollywood come un’occupazione avvilente, nell’incompiuto Gli ultimi fuochi si inspirò anche a Selznick per il personaggio di Monroe Stahr: “notate il nome: un misto di epopea americana e immigrazione ebraica, con in più un tocco di luce celeste”, chiosa perfettamente Thomson. È proprio da un passaggio del romanzo inconcluso che Thomson trae il titolo del suo libro. La formula accennata da Fitzgerald si riverbera nel volume in vari modi: una visione del cinema che è una piccola storia del capitalismo occidentale, e casi specifici in cui tale visione si esemplifica con vari gradi di magia – poca o nessuna se si tratta di un prodotto commerciale, molta se capita un’opera d’arte.
In una breve raccolta che Baudrillard ha dedicato all’America, il filosofo francese sostiene che la cultura americana vive nel paradosso di un’utopia compiuta, in quanto si basa sull’idea che libertà, giustizia, abbondanza, e tutte le cose che gli altri sognano, siano state realizzate negli Stati Uniti. “Qui in America solo ciò che è prodotto o manifesto ha significato”, scrive. Pure il materialismo si realizza “nella trasformazione di un modo di pensare in uno stile di vita, nella ‘azione’ della vita (‘azione’ nel senso cinematografico, quello che succede quando la camera comincia a girare). Poiché la materialità delle cose è, ovviamente, la loro cinematografia”. Il paradosso su cui riflette Baudrillard si ritrova nell’emblematico Nascita di una nazione di G.W. Griffith, del 1915. Thomson spende più di due parole sul soggetto profondamente razzista del film – quello capovolto da Spike Lee in BlacKkKlansman (2018) o storicizzato da Raoul Peck nella serie Exterminate all the brutes (2021). Però Griffith merita pagine non solo perché è “inventore di un linguaggio sequenziale, che trasforma il film da fenomeno da fiera a narrazione autonoma”, ma anche perché creando il primo blockbuster della storia inventò un nuovo modo di fare un sacco di quattrini.
Il film si faceva vedere e rivedere perché la sintassi cinematografica scorreva meglio di prima e inoltre venne trattato quasi come una pièce teatrale, con proiezioni itineranti prima, contratti stipulati direttamente con gli esercenti su base regionale poi, e gadget in vendita a lato. Così si scoprì non solo il marketing, ma il concetto di un prodotto unico acquistabile tantissime volte. In seguito a quest’esperienza Griffith fu tra i fondatori della United Artists, in cui confluì anche la slot-machine vincente che era Charlie Chaplin e che diventò una delle 5 big five di Hollywood finché I cancelli del cielo di Michael Cimino non la portò sul lastrico nel 1980 (una vicenda che ancora oggi è tramandata come l’unico, vero terribile incubo dell’industria – altro che maccartismo o #metoo). È una formula complessa: “Marx e Benjamin ci aiutano a metterla a fuoco” glissa Thomson, mentre la crisi del ‘29 e l’uso propagandistico che ne fecero i regimi totalitari ne costituiranno la perdita d’innocenza. Parafrasando Baudrillard, Thomson nota come “il cinema americano di quegli anni, mentre metteva a punto uno stile di ripresa narrativo, definisse al tempo stesso il rapporto economico tra produzione, distribuzione e sale di proiezione. (…) Se nei libri è sempre questione di significato, possibile o potenziale, i film sono fatti di scoperte, di immagini, sono fatti del mondo visibile e della feticizzazione dell’apparenza.” Il cinema, scrive alcune pagine dopo, “è una bugia che reclama una spiegazione”.
C’è poi una storia in cui la visione del libro si manifesta in modo più poetico rispetto al caso D.W. Griffith. Ancora una volta la miccia l’accende uno scrittore, anche se a questo giro è qualcuno che scrive per il cinema per passione e lavoro. Nel 1971, Robert Towne, uno sceneggiatore già noto per la sua abilità di rammendare copioni altrui, si imbatté nel saggio di Carey McWilliams, Southern California: an Island on the Land. Il testo menzionava il sistema idrico implementato da William Mulholland, ingegnere senza scrupoli a cui è dedicata la tortuosa statale che si arrampica sopra la San Fernando Valley e che Lynch, tra gli altri, omaggia nel film omonimo. “Mulholland Dr., con quelle due lettere che lasciano spazio al dream,” mitizza Thomson. Nello stesso periodo Towne vide un servizio fotografico sulla Los Angeles raccontata da Raymond Chandler, quella del detective Philip Marlowe che ebbe tanti volti cinematografici, da Humphrey Bogart a Robert Mitchum a Elliott Gould (quest’ultima forse è la trasformazione più intrigante, nell’adattamento del 1978 di Robert Altman de Il lungo addio, peraltro ora in riedizione sempre da Adelphi).
Chinatown uscì nel 1974 e fu un successo totale; costato 6 milioni di dollari ne incassò 30, fu nominato a undici Oscar e ne vinse uno, per la miglior sceneggiatura.
Ecco insomma alcuni ingredienti per la formula perfetta, a cui si aggiunge l’abilità di Towne di vendere la propria idea al produttore della Paramount che invece voleva riscrivesse Il grande Gatsby. Sarebbe bello riassumere, “ed è così che nacque Chinatown”, ma c’è di più: fare un film è un lavoro collettivo, non basta un’idea geniale (ed è per questo – nota a lato – che le pagine dedicate ai movimenti sindacali nell’era d’oro degli studios sono tra le più appassionanti del libro). Jack Nicholson aveva studiato con Towne e non fu difficile da tirare in ballo; per la regia si puntò su Roman Polanski. Eppure la prima stesura della sceneggiatura era strana, e a Robert Evans della Paramount spettava ancora una volta l’ultima parola. Così intervenne Polanski, appena reduce dal massacro di Sharon Tate e già segnato dall’olocausto, insistendo su un finale tragico – che infine prevalse. “Scrittori e registi non sempre si somigliano: è una delle ragioni per cui si invidiano a vicenda”, nota Thomson, senza però (e curiosamente) concedere che la biografia traumatizzata del regista polacco potesse inspessire la trama del film: “non è il caso di piangere sulle sfortune di Roman Polanski: non gli farebbe né caldo né freddo. Diciamo che è un cinico, laddove Towne è un romantico.”
Superati i retroscena, Chinatown uscì nel 1974 e fu un successo totale; costato 6 milioni di dollari ne incassò 30, fu nominato a undici Oscar e ne vinse uno, per la miglior sceneggiatura. Siccome era formalmente attribuita solo a Towne, questo si prese il merito (e le percentuali) di una vittoria non completamente sua. Un finale paradossale ma anche unico, considerando che “un tipico tratto hollywoodiano è la non assunzione di responsabilità”. La storia della creazione degli Academy Awards – una lobby a cielo aperto per spremere al massimo prodotti già molto redditizi – è raccontata in un altro capitolo; qui basti il commento sibillino di Thomson per dovere di contesto: “ecco la ragion d’essere della Academy of Motion Picture Arts and Sciences: imbrogliare la formula trasformando il successo e i soldi in arte”. Tuttavia qui si intravede un luccichio più nobile: “Robert Towne aveva concepito Chinatown da creatore, ovvero da scrittore che ti mette a parte del suo mondo segreto, anche se questo mondo segreto verrà poi proiettato in luoghi pubblici e condiviso da milioni di persone”.
La scelta di Chinatown come perno per La formula perfetta non è casuale, perché la protagonista indiscussa del film è Los Angeles, immortalata negli anni Trenta, quando sta diventando se stessa anche grazie allo sviluppo dell’industria cinematografica. Impossibile qui omettere Reyner Banham, eccentrico teorico dell’architettura, inglese come Thomson, amante della metropoli che molti invece guardavano con superiorità e disprezzo. “Non voglio trasferirmi in una città in cui l’unico vantaggio culturale è poter a svoltare a destra con il semaforo rosso”, sentenziava Alvy Singer aka Woody Allen in Annie Hall (1977). Però l’idea di movimento è cruciale, sia quello invisibile delle falde acquifere di Chinatown che quello in piena vista del traffico stradale, spesso immobile e che infatti faceva uscire di testa Michael Douglas in Un giorno di ordinaria follia (1993). Un flusso ancora più importante lo identifica Banham in apertura del suo Los Angeles. L’architettura di quattro ecologie: “Los Angeles si rivolge naturalmente verso il tramonto, che può essere di una bellezza straordinaria, e ha chiamato uno dei suoi grandi viali proprio come quella prediletta veduta serale. Ma se l’occhio segue il sole, le migrazioni dirette a ovest si fermano prima”.
Una volta preparato il terreno per sfruttarla a dovere, la California e Los Angeles – ultima tappa di pionieri e cercatori d’oro – dovettero inventarsi un altro bene su cui speculare: c’è chi dice i sogni, e chi, più pragmaticamente, il bisogno di lavorare. “In un tempo lontano”, racconta Thomson, “i Padri Fondatori del cinema erano emersi dai lunghi inverni e dalle estati afose e inclementi dell’Est, dall’esperienza storica delle scarse virtù e dei molti difetti dell’uomo, armati di un codice spietato, spartano e magnifico che metteva al di sopra di tutto la vita, la libertà e la ricerca della felicità. Dopodiché, nel giro di vent’anni o poco più, una combriccola di stranieri, in maggioranza ebrei che parlavano un inglese approssimativo, scoprirono un gioco di luci che poteva, dicevano, rimpiazzare la realtà.” Molti dei personaggi de La formula perfetta e tanti dei nuovi professionisti di Hollywood erano appena fuggiti dall’Europa o immigrati di prima e seconda generazione arrivati dalla costa orientale. Figure storiche come Meyer, Selznick e Polanski; ma anche inventori di nuovi mestieri, come quello dell’agente: Myron Selznick (fratello di), Lew Wasserman, che “che più di ogni altro scorporò il business dallo show” e Michael Ovitz, il fondatore dell’agenzia per talenti CAA, recentemente oggetto di una satira horror, The Beta Test (2021), in cui un agente viene terrorizzato da un programmatore megalomane: oggi è la Silicon che si prende la rivincita sulla Fernando Valley. Non tutti, insomma, sono paciocconi come il Jeff agente di Larry David in Curb Your Enthusiasm. All’ondata migratoria Thomson associa anche “l’invasione della psicoanalisi”, che secondo l’autore è “nefasta” perché si immischiò con le scuole di recitazione, come il Method Acting e l’Actors Studio. La dottoressa May Romm, che ebbe in cura il Selznik produttore, “fu abbastanza avveduta da intuire che si poteva guadagnare bene prestando conforto psicologico alla gente di Hollywood – l’importante era non curarla”.
Ritirando lo zoom sul contesto urbano, La formula perfetta va letto guardando il suo supplemento visivo, L.A. Plays Itself (2003). Definito malinconico da Thomson, il documentario di Thom Andersen lo è solo perché racconta – attraverso i molti film e luoghi architettonici che hanno interpretato L.A. – una città nostalgica di un passato che non ha mai avuto, fatto emblematico essendo la capitale di un’arte che, prima di tutto, è nata per registrare lo scorrere del tempo. L.A. Plays Itself aggiunge poi un termine cruciale in quella che, vent’anni dopo l’uscita del libro, si può considerare una formula molto imperfetta. Tramite estratti del cinema indipendente e d’avanguardia – The Exiles (1961) di Kent McKenzie, Killer of Sheep (1978) di Charles Burnett e altri cineasti del movimento L.A. Rebellion – Andersen mette il dito nella vera piaga (non solo di Hollywood) e cioè la discriminazione razziale. Se uscendo nel 2003 a La Formula Perfetta non può essere rimproverata l’assenza di temi come l’avvento dei franchise, la disgregazione delle sale e l’introduzione dello streaming, è grave mancanza tracciare (e continuare a divulgare) una storia di Hollywood che misconosce il contributo, l’esclusione e in alcuni casi la rimozione violenta di persone queer, di colore e di sesso femminile.
Lungi da voler leggere la storia del cinema statunitense solo tramite il binomio assenza/presenza di queste categorie tutt’altro che finite, non posso però che rabbrividire quando in chiusura mi imbatto nel profilo di chi è diventato simbolo di un altro gran male di Hollywood: “Su Harvey Weinstein si raccontano tante storie quante sono le sceneggiature che gli vengono proposte, e alcune sono memorabili”. Già, davvero indimenticabili. Forse pure David Thomson ha faticato a scordare certe storie, e le ha riconosciute senza dirle, come almeno spero: “nei film americani la cinepresa racconta una certa verità – registra l’apparenza – ma poi la manipola fino a farne una versione migliore di sé stessa: un ideale, spesso, ma a volte anche un incubo”.