Fantasmagoriche, ipermoderne, sperimentali: l'architettura delle trecento nuove chiese sorte tra il 1945 e il 1993.
Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di "Figli delle stelle" (Baldini e Castoldi, 2014), "Macao" (Feltrinelli digital, 2012), "Teneri violenti" (Einaudi Stile Libero, 2016) e "L'età della tigre" (Il Saggiatore, 2019).
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li esterni piastrellati di condomìni anni Cinquanta, le aule con gli infissi in alluminio di una scuola elementare, ovviamente i binari del tram, l’erba splendidamente viva tra i binari del tram in via Mac Mahon o in viale Regina Giovanna, i grattacieli, i bassorilievi della caserma Pastrengo e poi lo scivolo per le autorimesse sotterranee, i cordoli di calcestruzzo rotti, la forma tonda o aguzza di un terrazzo in una villetta anni Settanta, i cippi commemorativi della guerra partigiana, la polvere lugubre su una siepe in viale Giovanni da Cermenate, il rosa salmone del portoncino di uno studio odontotecnico, i balconcini liberty, i cancelli automatici, i dissuasori di sosta, le insegne del piccolo commercio artigiano, dei bar, dei punto Snai, dei supermercati, dei parrucchieri, delle banche, dei centri di assistenza fiscale, infine una rotonda spartitraffico con al centro una fontana o la sagoma in bronzo di una scultura astratta.
Incarnato nei frutti dell’edilizia e dell’architettura, Milano fa un racconto irregolare e tutto spigoli del Novecento. In questo paesaggio, non troppo lontano da quello descritto in un vecchio sito internet come Padania Classics, hanno un ruolo non marginale le nuove chiese, spesso dalle forme fantasmagoriche e ipermoderne. Avete mai sostato, per esempio, sotto la folle “mensola sospesa” della chiesa di San Giovanni Battista alla Creta, nel quartiere Assisi, che si solleva in aria come la falda di un cappello colpita dal vento e nel cui interno è inciso Ego Vox Clamantis in Deserto, parate viam Domini? A partire dal 1945, e per tutto il periodo del grande boom economico, Milano e la diocesi ambrosiana (tra le più vaste e popolose al mondo) si sono riempite di nuove chiese. Ne sono state costruite circa 300 tra il 1945 e il 1993. A Milano se ne trovano nel Vigentino (Chiesa di Santa Maria Liberatrice), a Pioltello (Chiesa di Maria Regina), a Niguarda (Chiesa di San Carlo alla Cà Granda), al Giambellino (Chiesa di San Curato d’Ars), a Cinisello Balsamo (Chiesa di San Giuseppe Operaio), così come a Turro (Chiesa di San Gabriele Arcangelo in Mater Dei) e alla Comasina (Chiesa di San Bernardo).
Si tratta di edifici sorprendenti, a volte riusciti, a volte meno, quasi sempre portatori di un tentativo di sperimentazione. Nel complesso la gran parte delle trecento chiese non sembra invecchiare, anzi. Appaiono presenti e sospese, come un verso ermetico aperto all’interpretazione. L’astrazione aliena delle forme suggerisce un mondo futuro immaginato nel Novecento e non ancora materializzato. La chiesa di San Giovanni Bono, sorta nel mezzo di un nuovo villaggio alla Barona, è un esempio. Si tratta di una piramide in cemento armato: guerriera a prima vista; docile e francescana – diciamo pure: commovente – una volta messo piede all’interno. I cultori e i feticisti della Corea del Nord riconosceranno una curiosa e perturbante somiglianza con il famigerato Rugyong Hotel di Pyongyang.
Questa delle nuove chiese di Milano è, in ogni caso, una storia da riraccontare (e possibilmente rifotografare). Nel 1994, col titolo Le nuove chiese della diocesi di Milano, usciva per l’editore Vita e pensiero, che ha appena festeggiato cento anni di attività, la prima e unica mappatura sistematica delle chiese costruite nel dopoguerra nel territorio della diocesi ambrosiana. Il volume raccoglieva una serie d’interventi sul rapporto tra architettura e liturgia, sulla progettazione e sui meccanismi di committenza, ed era curato da Cecilia De Carli Sciumè, oggi ordinario di Storia dell’arte contemporanea presso l’Università Cattolica di Milano.
Professoressa De Carli, a cosa si deve questa grande esplosione dell’architettura ecclesiale nel dopoguerra?
Era il momento della ricostruzione e dell’inurbamento, che si accompagnava a una crescita esponenziale della popolazione, anche dovuta ai grandi fenomeni migratori dell’epoca e all’arrivo di masse di lavoratori dal sud. La città era molto coesa e i corpi intermedi erano dei veri interlocutori dell’azione politica. La preoccupazione pastorale era quella di agganciare la costruzione delle nuove chiese al Piano Regolatore della città, in modo che la Chiesa fosse luogo di fede e di cultura e accompagnasse la vita delle persone. Sicuramente a Milano il fenomeno fu di grande rilievo, ma un caso analogo riguardò anche Bologna, soprattutto grazie a Giacomo Lercaro, cardinale e arcivescovo.
Tra le prime pagine del libro, prima ancora di entrare nel vivo dell’argomento e delle architetture compiute, incontriamo la foto di una “chiesa provvisoria”, immersa nel proverbiale grigiore della periferia milanese.
In alcuni casi l’edificio chiesa visse una provvisorietà, nel senso che la necessità e l’urgenza suggerirono soluzioni in legno, che poi si protrassero anche per decenni, prima di diventare edifici permanenti (la Chiesa di Santa Bernadetta, nel quartiere della Barona, è rimasta provvisoria addirittura per 25 anni, Nda).
Chi furono i professionisti reclutati per questo grande sforzo architettonico e pastorale messo in campo dalla chiesa?
Contestualmente agli anni della ricostruzione, si formava una scuola milanese di architetti, invitati da Giovanni Battista Montini (arcivescovo di Milano e futuro Paolo VI, Nda). Subito all’inizio dell’episcopato, questi architetti diedero forma a una sperimentazione, molto interessante, che affrontò il tema chiesa rispondendo alle necessità dei singoli luoghi, senza rinunciare alla contemporaneità della ricerca architettonica. L’organo attraverso cui passavano i progetti della committenza ecclesiale era la Commissione diocesana per l’arte sacra. Istituita già nel 1927 dal cardinale Eugenio Tosi, si consolidò nel 1931, ma conobbe un radicale rinnovamento negli anni Settanta, all’indomani del Concilio Vaticano II. Una particolare attenzione venne data agli aspetti riguardanti la liturgia, di cui il concilio era stato riformatore.
Esisteva anche un ’“Ufficio Nuove Chiese”.
Si trattò di un organismo istituito dal cardinale Ildefonso Schuster nel 1948, con la denominazione di “Ufficio Nuovi Templi”, e venne poi rifondato da Montini nel 1955, ritrovandosi effettivamente alle dirette dipendenze dell’arcivescovo. L’“Ufficio Nuove Chiese” s’interessava delle nuove chiese da costruire nella città di Milano, affiancando il Comitato per le nuove Chiese che era stato diretto, fin dal 1954, da Enrico Mattei, presidente dell’ENI, il quale lo porterà avanti fino al ’62, anno della morte di Mattei nel famigerato incidente aereo di Bascapè. L’Ufficio per le Nuove Chiese svolgeva in pratica tutti i compiti del committente: reperimento e acquisto delle aree, scelta del progettista, finanziamento, appalto e controllo dei lavori. Alla prima fase di sperimentazione, che ebbe luogo nel corso dell’episcopato di Montini, presero parte nomi molto importanti: Gio Ponti, Fritz Metzger, Justus Dahinden, Giovanni Muzio…
Un edificio che si colloca al principio di questa vicenda è la Chiesa di Santa Maria Nascente, nel quartiere QT8, disegnata nel 1947 da Vico Magistretti e Mario Tedeschi.
Il QT8 è il quartiere costruito dall’ottava Triennale di Milano, all’indomani della guerra, per rispondere concretamente, e non in modo effimero come compete a una mostra, al bisogno dell’abitare. Commissario di quella intera realizzazione fu l’architetto Piero Bottoni. Santa Maria Nascente, a pianta centrale, anticipò le indicazioni del Concilio Vaticano II, ovvero favorire la partecipazione dell’assemblea dei fedeli attorno al sacrificio eucaristico, con l’altare rivolto verso il popolo. Un raggiungimento che derivava già dall’azione del teologo Romano Guardini, all’epoca in cui, a Rothenfels, era a capo del centro nazionale della gioventù cattolica tedesca, tra il 1920-27. Di lì ebbe inizio la sperimentazione nata dall’incontro del Movimento Liturgico con l’architettura contemporanea. Non bisogna neppure dimenticare che nella liturgia ambrosiana, come dimostra la basilica di S. Ambrogio, l’altare era già rivolto verso i fedeli. Oltre a S. Maria Nascente, vennero edificate altre chiese, sempre a pianta centrale, che anticipavano la riforma liturgica del Concilio e vennero influenzate dalla sperimentazione, in Germania e in Svizzera, di maestri come Rudolf Schwarz, Hermann Baur e Fritz Metzger.
Queste nuove chiese non sembrano più collocate in modo monumentale al centro dello spazio urbano, ma situate quasi con discrezione dentro la città e i quartieri.
Certamente la nuova architettura è antimonumentale e vuole piuttosto essere al centro della vita delle persone, facilmente raggiungibile, anche se le scelte legate alle aree disponibili e acquistabili spesso suggerirono ai progettisti soluzioni conseguenti, ma non meno geniali.
Oltre al progetto architettonico, viene rinnovato anche il cosiddetto liturgical design.
Henry Matisse a Vence, nella Cappella commissionatagli nel 1950 dai Domenicani, che avevano promosso attraverso la rivista L’Art Sacré la rinascita dell’arte sacra, non si era limitato a disegnare la chiesa, ma aveva progettato anche arredi, calici, pianete (paramento liturgico indossato durante l’eucarestia, Nda): un’opera d’arte totale. Seguendo l’esempio del Bauhaus, la città di Milano, attraverso la Triennale, fu all’avanguardia su questo settore, sia dal punto di vista teorico che attuativo, iniziando a immaginare e a produrre arredi e suppellettili, pensati da grandi architetti e designer.
Il più celebre e divulgato esempio di architettura ecclesiale del Novecento, tuttavia, resta la cappella francese di Notre-Dame du Haut, presso Ronchamp, disegnata da Le Corbusier e costruita nel 1953.
La cappella di Le Corbusier, che nasce nel colloquio con padre Cuturier e con l’ordine dei domenicani, rappresenta una svolta della contemporaneità. È la ricerca di un luogo, la meta di un percorso religioso che cambia la vita, che cambia l’architettura. In quest’opera Le Corbusier, che viene da un pensiero strettamente razionalista, esprime un sentimento quasi primitivista, espressionista, si potrebbe dire.
Subito dopo la guerra, nel 1946, uscì anche un opuscolo, firmato con lo pseudonimo di “Archias” e dal titolo Ringrazio Iddio che le cose non vanno a modo mio, una “raccolta di quindici riflessioni su religione e spiritualità cattolica in rapporto all’arte e sul nesso tra Cristianesimo Europa e Stati Uniti”
Archias è lo pseudonimo di Gio Ponti, che nel libro sostiene che non si tratta di fare aderire l’edificio allo stile di un’epoca, ma piuttosto all’espressione di fede che ogni epoca accentua. Gio Ponti insisteva poi sul fatto che i cattolici facessero arte alta, non tanto un’arte cattolica in sé e per sé.
Chi utilizzava, invece, lo pseudonimo di “Filocalo” nei suoi scritti?
È lo pseudonimo di Giovanni Battista Montini, che in effetti corrisponde fortemente al suo amore per il Bello, perseguito come in Sant’Agostino, un trascendentale, insieme al Vero e al Buono (dal greco φιλόκαλος, Nda).
Lei aveva uno zio architetto, un architetto molto importante, che costruì due chiese proprio in quegli anni.
Mio zio Carlo De Carli, che lavorò all’inizio con Gio Ponti e che poi diventerà preside della Facoltà di Architettura negli anni caldi della contestazione giovanile, è stato uno dei primi a misurarsi con il tema, progettando e realizzando prima San Ildefonso, nel 1955, in piazzale Damiano Chiesa, e poi a Cimiano la chiesa di San Gerolamo Emiliani, nel 1965, per l’opera di Don Calabria. Entrambe erano arricchite da lavori di artisti importanti, che poi andarono purtroppo dispersi.
Nel libro si cita infine una riflessione di Montini, fulminante e attualissima: “è nella periferia delle grandi città che si deciderà domani la grande lotta tra democrazia e totalitarismo”.
Studiando a fondo le carte dell’arcivescovo Montini nell’archivio diocesano, si comprende abbastanza chiaramente che già a metà degli anni Cinquanta si potevano percepire i segni di una scristianizzazione diffusa e che il massiccio inurbamento e la veloce industrializzazione del Paese rendevano necessarie un’azione pastorale capillare, specialmente nelle periferie, dove la giovane generazione operaia s’insedia in luoghi che sarebbero stati senza identità, se non ci fosse stata la presenza della Chiesa.
Ma altrettanto fondamentale, nelle periferie e nelle città del dopoguerra, fu la presenza dei partiti, dei sindacati, delle istituzioni di base, insomma di quei corpi intermedi che lei stessa citava all’inizio di questa intervista e che oggi vediamo paurosamente indeboliti. Non crede?
Si, direi che la vita della comunità poteva contare su una presenza molto più concreta di quanto non sia oggi.
Immagini tratte da Le nuove chiese della diocesi di Milano (1945-1993), Edizioni Vita e Pensiero.