Q uesto è l’anno in cui Charles Mingus compie cento anni. Un secolo dalla sua nascita, il 23 aprile del 1922, a Los Angeles. Un secolo, cento anni: sono tantissimi. Nello stesso anno in Italia avveniva la marcia su Roma, nasceva Pier Paolo Pasolini, automobili e televisione erano ancora un miraggio. Il senso di straniamento si acuisce smisuratamente all’ascolto di un album a caso di Mingus. Semplicemente, è difficile credere che questa musica sia stata composta da una persona che nel 2022 ha compiuto gli stessi anni dell’URSS. D’altronde come ha scritto Allen Morrison su Downbeat, “la storia del jazz è piena di personalità leggendarie – Buddy Bolden, Louis Armstrong, Charlie Parker, Duke Ellington e tanti altri – ma non c’è mai stato nessuno come Charles Mingus”.
La musica di Mingus è attualissima nello slancio compositivo e approccio intellettuale; nell’impenitenza rivendicata come cifra stilistica; nell’ostentata non-definizione della propria personalità, personale come musicale – per lui spesso due assiomi sovrapponibili. A dirla tutta, la musica di Mingus risulta ancora più strana se ascoltata contestualizzata agli anni in cui uscivano i suoi album. Insomma è mettendola a confronto con i dischi che uscivano nello stesso momento che se ne apprezza ancora più profondamente l’estetica “futurista”, rendendosi conto di quanto abbia saputo anticipare i tempi macroscopicamente (per attitudine, approccio generale e filosofia) e microscopicamente (per tecnica, esperimenti sonori e compositivi).
Un evento significativo come un centenario potrebbe dunque far venire voglia di intraprendere uno sforzo sovrumano, rendere un tributo quanto più possibile onnicomprensivo a una figura complessa come la sua. Per la stessa natura polimorfa di Mingus, questa è già in partenza un’idea fallace: un’impresa impossibile, cui lui stesso ha quasi rinunciato nella scrittura della sua incredibile autobiografia, Peggio di un Bastardo – per altro appena ristampata da SUR in edizione speciale. Il modo più coerente di rendere tributo a Mingus è forse invece la scomposizione, il focus microscopico e dal taglio magari un po’ inaspettato. Un’analisi puntinista che possa restituire, guardata da lontano, un’immagine complessiva più definita.
“Oh Yeah” è spesso considerato una stravaganza minore. Quest’anno il disco festeggia sessant’anni dalla pubblicazione per Atlantic Records e una bizzarria lo è di certo: qui Mingus infatti appare nelle “soli” vesti di compositore, pianista e addirittura anche cantante. L’onere e l’onore del contrabbasso sono lasciati a Doug Watkins: eccezionale accompagnatore hard-bop morto giovanissimo (a ventisette anni) in un incidente stradale, fece in tempo a far risuonare le sue vibrazioni basse in molti dischi fondamentali del periodo. Suonò in alcuni dei migliori album di Jazz Messengers, Yussef Lateef, Coltrane, Donald Byrd, Lee Morgan, Sonny Rollins, Horace Silver, Jackie McLean, Kenny Burrell e altri ancora. La scelta di un bassista con un curriculum e un approccio del genere è già programmatica di suo. Watkins è un contrabbassista intriso di blues, che fa dello shuffle e del groove solido la sua cifra distintiva.
La musica di Mingus è attualissima nello slancio compositivo; nell’impenitenza rivendicata come cifra stilistica; nell’ostentata non-definizione della propria personalità.
D’altronde gli oltre quaranta minuti del disco grondano groove e blues con un’insistenza esagerata, quasi bulimica. Non è la prima volta nella sua carriera che Mingus lascia trasparire con aggressiva ostentazione questa parte del suo cornucopico arsenale – il programmatico “Blues & Roots” è del 1960, echi erano già emersi in “The Clown” e “Tijuana Moods”, entrambi del ’57. Un fare polemico, contro chi lo accusava di essere troppo cerebrale e poco muscolare (implicitamente troppo poco nero), in particolare agli esordi – segnati da album concettualmente biblici e musicalmente complessi, spesso ispirati a compositori classici. La vena polemica, fumantina ed eccessiva di Mingus è d’altronde diventata forse la sua caratteristica più riconoscibile in chiave pop, anche grazie ad aneddoti leggendari tra il serio e il faceto (alimentati da lui stesso), tramandati come un piccolo bagaglio di topoi, perfetti per comporre il ritratto del genio dall’umore instabile.
La scrittrice newyorkese Fran Lebowitz, amica di Mingus quando lei era una giovane neo-newyorkese e lui un uomo già maturo e compromesso dalla vita, ne ha parlato spesso. Ad esempio di quella volta che si sparò su un piede da solo essendo stato lasciato da quella che sarebbe poi diventata sua moglie; il contrabbassista si mise a camminare sanguinando fino all’appartamento di quest’ultima, per farle vedere cosa aveva fatto. O di quando abbandonò il palco al Village Vanguard per inseguire la stessa Lebowitz lungo la Seventh Avenue a Manhattan, fin su a Canal Street. La scrittrice ha detto che non ricorda più per cosa fosse arrabbiato Mingus. In ogni caso i due dopo una corsa infinita a un certo punto crollarono sul marciapiede; vedendo che erano ormai nei pressi di Chinatown, Mingus suggerì di andare a mangiare qualcosa. La Lebowitz dovette ricordargli che aveva abbandonato il palco nel bel mezzo di un’esibizione.
Mingus insomma era sospinto tanto dall’ambizione artistica cui lo condannava il suo genio innato, tanto dalla rabbia cieca cui lo condannava la sua condizione esistenziale “peggio di un bastardo” – nero, bianco, asiatico, ciccione, malaticcio. In questo “Oh Yeah” è veramente un disco emblematico. La musica è furiosa e arrembante ma anche arrangiata finemente. A tratti possiede la stessa energia caotica di certe orchestrazioni di beat astratti contemporanei, progetti newyorkesi e losangelini come Standing On The Corner, Sam Gendel, Earl Sweatshirt, Pink Siifu, Nick Hakim. Quello del “caos controllato” è uno dei sortilegi più iconici di Mingus: la sensazione di operare fuori da ogni schema deriva in realtà da una conoscenza intima degli stessi, dalla capacità di farli sparire o nasconderli a proprio piacimento, rimanendoci dentro. Il contrabbassista Christian McBride ha detto che “Miles Davis usava un termine simile quando ha descritto quello che ora è conosciuto come il suo secondo grande quintetto, ed era ‘libertà controllata’. Mingus aveva un termine simile: significava che si andava quasi completamente fuori controllo, ma mai veramente. Sai, come l’adrenalina che ti possiede quando sei quasi caduto da una scogliera”.
D’altronde, nonostante oggi venga spesso indicato come uno dei suoi anticipatori, Mingus fu sempre molto critico con il free jazz. In una bellissima intervista per il New Yorker del 1971, firmata Whitney Balliet, Mingus si lanciava in giudizi tranchant, nel suo stile esilarante e brutale:
«Mi dispiace per il jazz. Si è persa la verità nella musica. Tutti i diversi stili e le fazioni sono entrati in guerra tra loro, e non è servito a nulla. Prendi Ornette Coleman.» Mingus si mise a cantare mezzo ritornello di “Body and Soul” a voce alta e stonata, sovrastando il jukebox che andava nel locale. Era un’imitazione inquietante. «Questo è tutto ciò che fa [Coleman]. Spinge la melodia fuori un po’ qua e un po’ là. Il problema alla base è che non sa suonarla in modo corretto. In quel piccolo festival che io e Max Roach abbiamo tenuto a Newport nel 1960, Kenny Dorham e io abbiamo cercato di convincere Ornette a suonare “All the Things You Are”, ma lui non ci è riuscito».
Nella costruzione dell’architettura di “Oh Yeah” il già citato contrabbasso di Watkins e la batteria del collaboratore di lunga data Dannie Richmond sono le fondamenta solide. Al trombone (Jimmy Knepper) e il sax tenore (Booker Ervin) possiamo attribuire il ruolo di pareti, affidabili ma con licenza di stupire tra affreschi e quadri. Se immaginiamo l’edificio come una reggia rinascimentale, il pianoforte (e voce) di Mingus e il sax, flauto e “rumori” di Rahsaan Roland Kirk sono i due nobili proprietari debosciati che animano il tutto: in un angolo stanno con le cortigiane, in un altro dipingono quadri o si concedono il diletto di gareggiare in sonetti, in un altro ancora gozzovigliano rumorosamente attorno a una tavolata. Schegge impazzite delle quali è impossibile prevedere la prossima mossa. Lo stile pianistico di Mingus è viscerale: sembra quasi che le sue ditone non entrino sulla tastiera, non possano fare a meno di cozzare violentemente con i tasti o acciaccarne contemporaneamente più d’uno, come se avesse a che fare con un piano giocattolo. Troviamo echi dello stile claudicante di Thelonious Monk e un’apparente sciatteria che ha dell’irresistibile. L’esuberanza di Kirk è ugualmente intossicante: mercurio vivo sonico che si insinua nell’orecchio destro, sale su fin nel cervello facendolo vibrare di piacere, terrore e sorpresa e uscendo immediatamente da quello sinistro. Tutto a ripetizione.
A tratti la musica di Mingus possiede la stessa energia caotica di certe orchestrazioni di beat astratti contemporanei, progetti newyorkesi e losangelini come Standing On The Corner, Sam Gendel, Earl Sweatshirt, Pink Siifu, Nick Hakim.
La voce di Mingus, i suoi mugugni, le sue parole stentate e accennate, trasportano l’ascoltatore da un pezzo all’altro. La sua voce è roca, meravigliosamente abrasiva, impegnata in un costante botta e risposta con i musicisti. Insomma anche qui: blues. “Hog Calling Blues” (letteralmente: “il blues del richiamo dei maiali”), “Eat That Chicken”, “Devil Woman”, “Passions Of a Man”, “Oh Lord, Don’t Let Them Drop That Atomic Bob On Me”. Già solo i divertenti titoli dei brani danno idea di una musica carnale, materica, così volutamente spoetizzata da fare tutto il giro e diventare poetica più di tanti pseudo-intellettualismi. Anche impegnata politicamente, visto che nella sua amara ironia “Oh Lord, Don’t Let Them Drop That Atomic Bob On Me” è un chiaro riferimento alla paura nucleare diffusa in quegli anni di guerra fredda (Mingus non è nuovo a commenti diretti di avvenimenti del suo tempo: “Fables Of Faubus” dello stesso anno è un brano durissimo, denunciante la segregazione razziale anche attraverso l’uso esplicito del cognome di un governatore: Faubus appunto).
Insomma nonostante Mingus neanche ci suoni il suo strumento d’elezione, “Oh Yeah” è manifesto di diverse facce di quel prisma infinito e multicolore che è stato il musicista. È la manifestazione di quello che sosteneva lui stesso, in una polemica con il sempre simpatico Miles Davis, al quale scrisse una piccata open-letter in risposta a un’intervista del trombettista – che aveva definito la sua musica “stanchi dipinti moderni”. Senza entrare nel merito della querelle, parte della lettera spiega meglio di chiunque la filosofia di Mingus:
Penso a modo mio. Non penso come te e la mia musica non è pensata solo per accarezzare i piedi e andare giù per la schiena [ndr. per essere facilmente digeribile]. Quando e se mi sento leggero e spensierato, scrivo o suono in quel modo. Quando mi sento arrabbiato scrivo o suono in quel modo, o anche quando sono felice, o depresso. Solo perché suono jazz non mi dimentico di me. Suono e scrivo me stesso, come mi sento, attraverso il jazz o qualsiasi altra cosa. La musica è, o era, un linguaggio fatto di emozioni. Se qualcuno cerca di fuggire dalla realtà, non mi aspetto che apprezzi la mia musica, e inizierei a preoccuparmi della mia scrittura se una persona del genere iniziasse ad apprezzarla davvero. La mia musica è viva e parla dei vivi e dei morti, del bene e del male. È arrabbiata e reale perché sa di essere arrabbiata.