o conobbi e lo vidi grazie al mai troppo lodato Fuori Orario, accompagnato dall’estasiata introduzione fuori sincrono di Enrico Ghezzi. L’ho amato fin da subito, era impossibile non farlo: un film odiato da tutti, eccessivo in ogni suo aspetto e in cui ogni singolo fotogramma contiene idee di regia che lasciano a bocca aperta. È il film maledetto per antonomasia: sforbiciato, disconosciuto, stroncato da chiunque. Una singola pellicola che è riuscita a mandare in fallimento una compagnia di produzioni vecchia più di mezzo secolo e a stroncare la carriera di un regista che sembrava destinato a regnare. Questa è più o meno la storia.
Nei primissimi anni Settanta Michael Cimino ha trent’anni e una grande reputazione come regista di spot pubblicitari. Nel decennio precedente, appena uscito da Yale, si trova quasi per caso dietro la macchina da presa di alcuni spot, e nel giro di brevissimo diventa uno dei nomi più richiesti sul mercato. I commercial di parecchi tra i più grandi brand dell’epoca portano la sua firma, ma non ha ancora alcuna esperienza nel cinema. Qualche anno prima però ha conosciuto la produttrice Joann Carelli, con cui ha fatto qualche lavoro e intrapreso una relazione sentimentale. È lei a convincerlo a trasferirsi a Los Angeles e iniziare a scrivere soggetti per il cinema.
Tra i primi soggetti realizzati da Cimino c’è una specie di western epico ambientato lungo trent’anni di storia americana. Si chiama The Johnson County War ed è incentrato su un episodio storico, una guerra tra coloni immigrati e mercenari al soldo di un cartello di allevatori, in Wyoming, negli anni della conquista del West. Il testo gira per gli Studios a partire dal 1971, ma non suscita alcun interesse. Per nulla scoraggiato, Michael infila il copione in un cassetto e si mette a scrivere altre sceneggiature. Tra le tante c’è quella di un film intitolato Thunderbolt and Lightfoot (Una calibro 20 per lo specialista) che Cimino ha pensato per Clint Eastwood. L’attore legge il testo, se ne innamora e lo compra per dirigerlo personalmente. Al primo incontro con Cimino, tuttavia, tra i due s’instaura una tale sintonia che Eastwood decide di dargli in mano la regia, e la sceneggiatura del progetto.
Il successo di cassetta di Thunderbolt, che esce nel ‘74, fa piovere addosso a Cimino parecchia attenzione e diverse offerte. Il regista però sta già lavorando a un altro progetto, un film che provvisoriamente si intitola The Man Who Came to Play.
Il successo di cassetta di Thunderbolt, che esce nel ‘74, fa piovere addosso a Cimino parecchia attenzione e diverse offerte. Il regista però sta già lavorando a un altro progetto, un film che provvisoriamente si intitola The Man Who Came to Play. Si tratta di una sceneggiatura acquistata da EMI Films e incentrata su un tizio che arriva a Las Vegas ed entra in un giro di giocatori di roulette russa. Il testo contiene buoni spunti ma va rivisto per farlo diventare un film finito: Michael Deeley, uno dei due boss di EMI Films, prende a bordo Michael Cimino per lavorarci sopra. Cimino ci rimette mano insieme a Deric Washburn, mantiene l’elemento della roulette russa ma decide di spostare lo svolgimento in Vietnam, durante la guerra. I tratti caratteriali del singolo protagonista diventano l’ossatura di tre personaggi diversi, amici e colleghi in una fabbrica, che poi vengono spediti in guerra e presi prigionieri. Anche il titolo cambia: The Deer Hunter (Il cacciatore).
La nuova sceneggiatura conquista Deeley, che mette il progetto in lavorazione per il 1977, con Cimino alla regia, Robert De Niro nel ruolo principale e un parco di caratteristi di primo livello subito dietro. Sei mesi di riprese. Michael Cimino, a cui Clint Eastwood aveva imposto un limite di tre ciak a scena per Una calibro 20 per lo specialista, si rivela tutt’altro che un regista a contratto. La sua direzione non è per nulla economica, il suo perfezionismo salta fuori ad ogni scena. Il girato però è buono, e la produzione investe nel film quasi il doppio del budget stanziato inizialmente (otto milioni e mezzo). La prima versione del film dura però tre ore e mezzo e Universal si rifiuta categoricamente di distribuirla a meno che non venga accorciata a due ore. Nel braccio di ferro che segue Cimino mostra tutti i muscoli e la dedizione di un regista alla propria opera, riuscendo a imporre il suo montaggio quasi interamente e ottenere la distribuzione di un film che supera abbondantemente le tre ore nella sua versione finale.
United Artists è una compagnia di produzione fondata a ridosso degli anni Venti, frutto di una joint venture di autori tra cui Charlie Chaplin e DW Griffith. Dopo anni di successo finanziario e la quotazione in borsa, nel 1967 lo studio viene acquistato da una holding finanziaria statunitense di nome Transamerica. Fino alla fine degli anni Settanta continua a rimanere uno dei principali nomi di riferimento per quel che riguarda il cinema autoriale ad alto budget, quello che per capirci si porta a casa gli Oscar. Woody Allen, Un uomo da marciapiede, Qualcuno volò sul nido del cuculo, ma anche la saga di Rocky, James Bond e molto altro. Alla fine degli anni Settanta il clima in casa United Artists è turbolento: come testimonia la fuoriuscita, nel 1978, di tutto lo staff di dirigenti, a partire ovviamente dall’amministratore Arthur Krim.
La nuova dirigenza, con a capo Andy Albeck, s’insedia a stretto giro e inizia a lavorare. Si tratta di un gruppo di persone prese più che altro dal mondo della finanza, che ragionano in termini di fatturati, budget e dividendi: inizialmente, sembra un’ottima scelta. Nel 1979, con l’uscita di Rocky 2, Moonraker e Manhattan, United Artists ha una delle sue annate migliori. Michael Cimino è introdotto in UA per due motivi: il primo è Una calibro 20 per lo specialista, distribuito da United Artists; il secondo è una stesura della sceneggiatura di I mastini della guerra, un libro di Forsyth su cui lo studio sta lavorando per trarne un film. Al momento il più grosso exploit di Michael Cimino deve ancora arrivare, ma qualcuno in United Artists ha già dato un’occhiata sottobanco a Il Cacciatore e fiutato il botto.
Siamo in piena New Hollywood: il cinema americano fatto dai registi, i film che non piacciono ai produttori ma incassano bene al botteghino e fanno faville nelle pagine dei giornali, i budget faraonici in mano agli autori, un nuovo modo di fare cinema. In questi anni la New Hollywood è allo zenit della creatività: la generazione dei Coppola ha incrociato quella dei Lucas e degli Spielberg, con Scorsese un po’ tra le due. Un film come Il cacciatore non è concepibile se non nella seconda metà degli anni Settanta, ma nella seconda metà degli anni Settanta è la quintessenza del cinema americano. È ragionevole pensare che dopo l’uscita del film addosso a Michael Cimino inizieranno a piovere offerte. Per ingaggiarlo a condizioni ragionevoli, forse, è l’ultima occasione.
Siamo in piena New Hollywood: il cinema americano fatto dai registi, i film che non piacciono ai produttori ma incassano bene al botteghino e fanno faville nelle pagine dei giornali, i budget faraonici in mano agli autori, un nuovo modo di fare cinema.
Lavorare con Cimino però è complicato. È un personaggio vulcanico ma caparbio: litiga con la produzione de I mastini della guerra e li costringe a buttare nel cestino la sua sceneggiatura. Si sparge la voce che Il cacciatore sia andato parecchio fuori budget, e lui nel frattempo si ripresenta con un nuovo progetto che nessuno giudica appetibile: un remake de La fonte meravigliosa, un film con Gary Cooper di scarso successo, che lui aveva riscritto nei primissimi anni Settanta pensando a Robert Redford. Le prime chiacchierate non sono incoraggianti, e i produttori chiedono un incontro col regista per convincerlo a buttare il progetto e lavorare su qualcos’altro. Lui gioca d’anticipo, e all’incontro si presenta con Joann Carelli e un nuovo copione.
Copione che nuovo, in realtà, non è. Si tratta del film che era stato respinto otto anni prima, The Johnson County War (“ma potrei trovare un titolo migliore”, dice). Nel frattempo ci ha rimesso mano insieme al suo agente e alla sua produttrice, fino a renderlo un progetto organico. Il ruolo del protagonista ha già suscitato l’interesse di Kris Kristofferson, una star del country prestata al cinema e reduce dall’insperato successo di Convoy – Trincea d’asfalto. Quello dell’amico e rivale Nate Champion è stato già assegnato d’ufficio a Christopher Walken, ancora un nome piccolo, ma di cui pare già certa una nomination per The Deer Hunter. Il pacchetto costa un paio di milioni scarsi: 250.000 per la sceneggiatura, 500.000 per la regia, 100.000 a Carelli, 850.000 (più il 10% degli incassi) a Kristofferson, 85.000 a Walken. Per la parte di Ella Watson le più serie candidate sono Diane Keaton e Jane Fonda. A questi si aggiungono i fondi per girare il film, che secondo le stime dell’autore stanno intorno ai sette milioni e mezzo.
United Artists accetta l’accordo e mette in pista il film, il cui titolo definitivo è diventato Heaven’s Gate (I cancelli del cielo). I due responsabili delegati alla produzione si chiamano David Field e Steven Bach. Nel momento in cui Il cacciatore esce al cinema (è pianificata una piccola distribuzione per la fine del 1978, per renderlo candidabile agli Oscar; seguirà una distribuzione su larga scala a cavallo della cerimonia), Cimino è in giro a selezionare le location per il suo lavoro successivo, a lavorare coi costumisti, a scegliere personalmente tutti i cavalli. Le prime recensioni de Il cacciatore sono entusiastiche, e parlano già di uno dei più grandi film della storia: le nomination arrivano puntuali.
Quando Christopher Walken sale sul palco a ritirare il suo Oscar, l’attore fa sfoggio di un paio di baffoni spioventi, quelli di Nate Champion. Tra il trionfo de Il cacciatore agli Academy Awards e l’inizio delle riprese di Heaven’s Gate non passano nemmeno dieci giorni, con un budget iniziale che è già schizzato a 12 milioni di dollari e la prima grossa contesa tra il regista e i produttori. Dopo che il ruolo della protagonista è stato rifiutato da Diane Keaton e Jane Fonda, Cimino si è fissato con Isabelle Huppert, una stella nascente del cinema francese che non ha mai messo piede a Hollywood. La produzione non è convinta della scelta, ma Cimino chiede di provinarla prima di porre il veto. I provini, tuttavia, vanno malissimo: Huppert parla un inglese incomprensibile e non dimostra la minima personalità. Bach e Field decidono di non dare l’ok; il regista richiama Field dopo un paio di giorni e dice chiaro e tondo che senza Isabelle Huppert il film non si fa.
Da qui in poi, inizia la vera storia de I cancelli del cielo: una battaglia senza quartiere tra il regista di un film e lo studio che lo finanzia. La Huppert ottiene la parte, ma il braccio di ferro ha fatto nascere un clima di aperta ostilità tra i rappresentanti di United Artists e Cimino. E le notizie che trapelano dal set non sono per nulla incoraggianti. Alla fine dei primi sei giorni di lavorazione il diario registra un ritardo di cinque giorni sulla tabella di marcia: Cimino ha speso quasi un milione di dollari e ha prodotto un minuto e mezzo di pellicola utilizzabile. Ogni giorno si gira una scena minuscola per cui le riprese vengono ripetute anche cinquanta volte, con microscopiche variazioni di ogni elemento che va a comporre l’inquadratura – le singole comparse ricevono continue istruzioni, i panni stesi sui fili ad asciugare vengono spostati di mezzo metro o cambiati di ordine, agli attori vengono richieste riprese con stati d’animo opposti. La mania perfezionista di Michael Cimino lo porta a far costruire case e pezzi di strada secondo istruzioni puntualissime; ma una volta iniziato a girare gli capita di rendersi conto che “non vanno bene” e dà istruzioni di distruggerle e ricostruirle in modo diverso. Tutto dev’essere assolutamente perfetto.
È chiaro fin da subito che il budget di produzione verrà polverizzato. Lo scenario peggiore, secondo le prime stime, si aggira sui venti milioni di dollari. In una situazione di normalità, e in un’altra epoca storica, la corsa del film si interromperebbe qui, con lo studio che cerca di capire quale scappatoia usare: chiudere il film e pagare lo scotto o spendere tutti i soldi che vanno spesi per trovarsi in mano il capolavoro che tutti s’aspettano. Per Andy Albeck, che ragiona in termini di numeri puri, venti milioni di dollari per un kolossal firmato dal nome più caldo in circolazione sono un buon affare. Ci sono ragioni di orgoglio che si profilano all’orizzonte: I cancelli del cielo è infatti la carta più sicura, tra quelle nel mazzo della nuova United Artists, per vincere qualche Oscar (la specialità della gestione Arthur Krim). Così le riprese vanno avanti. Ciò che United Artists sta sottovalutando, in questo momento, è la dedizione del regista. La reazione di Cimino alla sfiducia dello studio, reale o percepita, è rocambolesca: per nulla disposto a mettere in discussione i dettagli, e spalleggiato da Joann Carelli, decide di blindare il set del film alla produzione. Il divieto è esteso anche alla stampa, un po’ per strategia di marketing e un po’ per evitare che qualche naso scomodo inizi ad annusare il clima di tensione.
Per qualche settimana va avanti così, come in uno stallo alla messicana – tutti immobili con le pistole puntate. I venti milioni si sono già rivelati una previsione ottimistica, e hanno lasciato il passo a cifre ben più spaventose. Mantenendo il ritmo attuale, il film costerà infatti più di cinquanta milioni: più di qualunque altro film nella storia. Licenziare Michael Cimino sarebbe una mossa suicida dal punto di vista delle PR, ma United Artists non può permettersi di spendere tanti soldi. La soluzione di compromesso è il licenziamento di Joan Carelli, con Bach che assume il ruolo di produttore in prima persona e costringe Cimino a una nuova tabella di marcia. Le proteste del regista servono a poco: la scelta è se adeguarsi o perdere il final cut del film. Per la prima volta Michael Cimino abbassa le pretese e si mette a lavorare a un ritmo più spedito.
La reazione di Cimino alla sfiducia dello studio è rocambolesca: decide di blindare il set del film alla produzione. Il divieto è esteso anche alla stampa, un po’ per strategia di marketing e un po’ per evitare che qualche naso scomodo inizi ad annusare il clima di tensione.
Paradossalmente, proprio mentre il regista e lo studio firmano l’armistizio, inizia la sfortuna de I cancelli del cielo. Nel settembre del ‘79 esce un articolo sul Los Angeles Times firmato da un certo Les Gapay, che racconta cosa sta succedendo sul set del film. Gapay è un freelance che vive in Montana ed è riuscito, dopo essere stato rimbalzato alla porta come giornalista, a farsi assumere come comparsa. In sostanza si è fatto pagare per demolire il film: nelle settimane di lavoro sul set ha raccolto voci di ogni tipo: tensioni tra Michael Cimino e i residenti del Glacier Park, sospetti di maltrattamenti degli animali, voci secondo cui gli attori vengono deliberatamente costretti a recitare in condizioni di assoluta insicurezza e infiniti aneddoti che si burlano della pretenziosità e del perfezionismo del regista.
È una storia perfetta. Altro che genio: il regista de Il Cacciatore è un megalomane lunatico che ha soggiogato centinaia di tecnici e attori al limite dello schiavismo. Si tratta di una storia troppo invitante per non buttarcisi a capofitto, e del resto a che altro dovrebbe servire l’embargo della stampa, se non a nascondere il disastro che si profila? Ogni giorno che passa la tesi di un kolossal-farsa viene sposata da sempre più quotidiani e riviste; qualcuno si mette a speculare su quanti soldi perderà United Artists al botteghino, qualcun altro ipotizza che a queste condizioni è probabile che il film non esca mai. Pian piano, a nemmeno sei mesi dal trionfo del suo ultimo film, Michael Cimino inizia a diventare l’Howard Hughes della sua epoca, l’esempio vivente di tutto ciò che non va nella New Hollywood.
Raccontare queste storie sulla base di un canovaccio fa perdere parecchi dettagli per strada, ma il cliché del regista geniale che esclude chiunque dalla sua opera si adatta a Cimino come a nessun altro. Finite con fatica le riprese, anche per il montaggio del film l’autore lavora a porte chiuse. Ci vogliono più di tre mesi: dobbiamo arrivare al giugno del 1980 perché il regista si senta preparato a mostrare I cancelli del cielo a coloro che hanno pagato il conto. Non è ancora il final cut: il regista non è del tutto convinto di alcune scene, e medita seriamente di tagliare una quindicina di minuti.
Il film, in questa versione, dura cinque ore e mezzo.
Lo staff di UA è infuriato. Bach e gli altri costringono Cimino a rispettare il contratto, rinchiudersi in cabina di montaggio e arrivare a una versione di tre ore. Il regista è costretto a obbedire (o così, o sarà qualcun altro a montare il film), si rimette al lavoro per tre mesi e arriva all’anteprima di fine anno con un film di tre ore e mezzo. Il debutto è nel novembre del 1980 a New York.
Forse non ha molto senso mettere a confronto i Cahiers con le pagine critiche dei grossi quotidiani statunitensi, ma la critica americana tende ad andarci giù pesante. Lo fa in un senso e nell’altro: le recensioni positive sono ai limiti del sensazionalismo, le stroncature sono spesso vittime di una frenesia distruttiva inspiegabile. E rispetto alla media mondiale, la critica americana ama molto gli slogan e le frasi ad effetto. Il più delle volte l’equilibrio è garantito dalla pluralità di voci, dal fatto che per ogni stroncatura ci sia un commento estatico. Le poche volte che non è così, ci si trova davanti ad un film davvero inqualificabile. Oppure a I cancelli del cielo.
“È un film così sbagliato da far sospettare che Michael Cimino abbia venduto l’anima al diavolo per ottenere il successo de Il Cacciatore, e che ora il diavolo sia venuto ad incassare”. La recensione firmata da Vincent Canby sul New York Times esce il giorno della prima newyorkese. La catena di eventi che ne consegue la rende una delle più famose stroncature della storia del cinema: l’autore dell’articolo distrugge il film dalla prima all’ultima scena, con un astio spietato e ferocissimo. Personaggi odiosi, linea narrativa inesistente. Huppert debolissima, gli altri attori s’impegnano ma non hanno molto con cui lavorare, e comunque i loro sforzi sono fatti a brandelli dalle scelte di regia e montaggio. Chiusura: “I cancelli del cielo è qualcosa di molto raro nel cinema di oggi: un inqualificabile disastro.”
La catena di eventi che ne consegue la rende una delle più famose stroncature della storia del cinema: l’autore dell’articolo distrugge il film dalla prima all’ultima scena, con un astio spietato e ferocissimo. Personaggi odiosi, linea narrativa inesistente.
Il destino del film ormai è segnato. Anche le anteprime vanno male: la gente odia il film, si annoia, non applaude. Una volta arrivato in sala, non c’è più dubbio sul fatto che sarà un fallimento. Si tratta solo di capire quanto farà male.
Per la prima volta dall’inizio del progetto, anche Michael Cimino va in panico. Qualche giorno dopo la proiezione scrive una lettera a United Artists per chiedere di congelare momentaneamente il film, toglierlo dalle sale e ridistribuirlo in una versione più soddisfacente. United Artists accetta, e Cimino torna in cabina di montaggio. Ma il coro di voci negative non ha la minima intenzione di ammutolirsi: il ritiro del film, anzi, suona come un’ammissione del disastro artistico: I cancelli del cielo non piace nemmeno a quelli che l’hanno fatto. La stampa americana, che aveva già fatto a pezzi la boria di Michael Cimino, ora mette in croce United Artists per il ritiro e la sforbiciatura. Una volta arrivato in sala, nella versione “definitiva” di due ore e quaranta, il film viene massacrato dalla critica e disertato dal pubblico. Conto finale, quaranta milioni di dollari di perdita.
“Ho sempre pensato che per lui sia stato come se gli avessero ammazzato un figlio e poi gli avessero imputato l’omicidio.” (Kris Kristofferson)
È difficile fare una classifica dei fallimenti di Hollywood su una base puramente numerica: alcuni costano di più, altri incassano meno, altri ancora vanno male parlando in percentuale. Su quale sia il più grosso, invece, sono tutti d’accordo: I cancelli del cielo. Lo è per convenzione, perché è diventato un modo di dire, uno slogan. IL disastro. La parola inglese è infamous e non ha una vera e propria traduzione – ci sono i film che vanno male, quelli che vanno malissimo, e poi c’è questo. Il titolo del film diventa una citazione stronza, il nome che fai quando vuoi andarci pesante.
Michael Cimino è salito sul gradino più alto del podio, ha dato una sbirciata al panorama e ha deciso di buttarsi di testa. L’annuncio della liquidazione di United Artists arriva proprio mentre il film, presentato a Cannes, incontra per la prima volta uno stuolo di ammiratori estasiati: l’ultima grande botta di sfortuna capitata al film. Dopo essere diventato “il film che da solo ha affondato un intero studio”, non ha molta importanza che I cancelli del cielo sia riuscito a trovare un suo pubblico favorevole oltreoceano. Michael Cimino, di lì a breve, si chiude a riccio.
Diverse teorie complottiste hanno affondato i denti sulla vicenda. Una delle più discusse dipinge il film come il capro espiatorio posto sull’altare di un sacrificio che era previsto da anni: quello di United Artists, di cui l’holding Transamerica si voleva liberare. La principale prova a sostegno di questa teoria è legata all’entità del disastro: dal punto di vista di una holding finanziaria come Transamerica, vale poco più del segno meno alla fine di una giornata di scambi un po’ sfortunata. Se solo la compagnia avesse voluto continuare con la United Artists l’avrebbe fatto. Questo non riduce il valore assoluto del flop de I cancelli del cielo, ma segnala una macroscopica discordanza tra la vox populi e il modo in cui sono andate le cose: non è stato I cancelli del cielo a far chiudere UA, o non è stato solo lui. È un terreno abbastanza spinoso in cui addentrarsi: in passato mi è capitato di confrontarmi con teorie anche più ardite, sul fatto che la megalomania di Cimino sia stata assecondata dolosamente, e anzi incoraggiata, allo scopo di gonfiare artificiosamente il budget, così da poter costruire ad arte un disastro impressionante – e creare in maniera posticcia una scappatoia per chiudere con la New Hollywood. Forse è un’interpretazione fantasiosa, che credo abbia un suo pubblico per questioni puramente poetiche – anche perché si tratta di trasporre la trama del film, un massacro pianificato per ragioni economiche, alle vicissitudini del film.
Una seconda controversia riguarda il dibattito su quale sia da considerare la versione “definitiva” de I cancelli del cielo, e ha generato una specie di trauma irrisolto che si spinge oltre la pellicola in sé. Mentre il film veniva definitivamente sepolto dal disinteresse del pubblico, nasceva un seguito di appassionati a caccia della versione trasmessa alle anteprime, prima del mega-taglio. Già nel 1982 Z Channel (un canale di pay TV americano specializzato in cinema) mette in programmazione la versione di 219 minuti del film e la promuove coniando l’espressione “director’s cut” (un concetto che di lì a poco farà la fortuna di molte riedizioni). Per anni, mentre chi ha lavorato al film si sta ancora leccando le ferite, le due versioni coesisteranno nell’immaginario collettivo, fino a generare un paradosso (un film senza pubblico disponibile in due versioni molto diverse) e un’interpretazione popolare, largamente condivisa, secondo cui quella da 219 minuti è la versione definitiva de I cancelli del cielo così come pensata da Michael Cimino, e la versione da 149 minuti è un assurdo sfregio della pellicola commissionato da United Artists per questioni puramente commerciali.
Cimino ha un rapporto molto duro con I cancelli del cielo: dopo la fine del film ha sofferto di depressione post-traumatica e non ha più voluto averci a che fare. Le poche volte in cui ha concesso un’intervista, ha liquidato la questione assumendosi le responsabilità che di fatto gli erano state imputate.
Nessuna delle due cose è vera: per prima cosa, come abbiamo visto, è stato lo stesso Cimino a chiedere la possibilità di tagliare il film a due ore e mezzo. L’equivoco però ha impiegato decenni a venir chiarito. Neanche la versione da 319 minuti, tuttavia, si può considerare davvero fedele all’idea dell’autore. È stato lo stesso Michael Cimino a dissociarsi da essa, a più riprese, una volta realizzata la sua popolarità nel circuito delle cineteche e delle riviste. Il fatto è che Cimino ha un rapporto molto duro con I cancelli del cielo: dopo la fine del film ha sofferto di depressione post-traumatica e non ha più voluto averci a che fare. Le poche volte in cui ha concesso un’intervista, ha liquidato la questione assumendosi le responsabilità che di fatto gli erano state imputate.
Ci sono anche altre versioni del film. La più pittoresca è un montaggio casereccio caricato da Steven Soderbergh su Vimeo. Si chiama The butcher’s cut ed è una versione del film ulteriormente tagliata sotto le due ore. Si apre con una dichiarazione del regista: “riconosco che quello che ho fatto è sia illegale che immorale”, e poi parte il film – senza le scene di Harvard, direttamente con l’omicidio in controluce. Ma ci sono altri cut, diciamo legali: un’altra versione uscita negli anni Duemila, per esempio. Una specie di versione estesa, restaurata e rimessa in circolo da MGM, il tutto a cura di un archivista di nome John Kirk, che pare contenga cambiamenti sostanziali. L’intenzione intorno a questo nuovo montaggio è di organizzare qualche proiezione e farlo uscire in DVD come edizione speciale; anche questo montaggio, però, è finito vittima degli eventi. Il dirigente di MGM che ha avallato l’operazione viene licenziato di lì a breve, e quindi cancellata l’uscita dell’edizione speciale del film, in DVD, insieme a un documentario (ispirato al libro di Bach e anch’esso intitolato Final Cut) che raccoglie interviste ai realizzatori e spezzoni del film. È diretto da Michael Epstein, che aveva lavorato anche al bellissimo The Battle Over Citizen Kane; il cambio al vertice di MGM, tuttavia, non solo fa saltare il progetto di una release del documentario in DVD assieme alla versione restaurata da John Kirk, ma fa nascere una questione legale per l’eccessivo uso di scene, che di fatto ne farà saltare la distribuzione al di fuori del circuito dei festival.
Il documentario Final Cut è un prodotto piuttosto interessante. Al di là del racconto da insider, e comunque abbastanza incentrato su fatti piuttosto noti, il suo principale punto di forza è che lascia in sospeso il giudizio finale sul film in sé. Paradossalmente è l’unico modo per uscirne puliti: mentre la critica europea non ha esitato a salutare I cancelli del cielo come un capolavoro assoluto del cinema tutto, gli americani hanno preferito dimenticarsi del film e non tornarci mai più sopra.
Questa è evidentemente la storia di un disastro. C’è però spazio anche per un lieto fine. Dopo decenni di rimozione, nel 2012 Michael Cimino decide di tornare a lavorare sul film per dargli una nuova veste. La spinta viene dall’ex compagna Joann Carelli, l’unica persona a non aver mai smesso di credere ne I cancelli del cielo, a finanziarne una nuova edizione e a provare a convincere Cimino a supervisionarlo. Così quindici anni dopo il suo ultimo film (Verso il sole, 1996, ennesimo capolavoro ed ennesimo insuccesso di pubblico) Cimino si rimette al lavoro. Il risultato è un nuovo montaggio, paradossalmente un po’ più corto (316 minuti contro i 319 di quello in anteprima) ma per la prima volta definito da Cimino come la versione “definitiva” del suo kolossal. È con questa versione che I cancelli del cielo torna a fare il giro dei festival europei nel 2012. Alberto Barbera la introduce a Venezia, come la riparazione di “una delle più grandi ingiustizie” mai perpetrate ai danni di un film. Di fianco a lui lo stesso Michael Cimino, dimagritissimo e reso irriconoscibile dalla chirurgia plastica. Un mese dopo sale commosso sul palco del Festival Lumière di Lione, a presentare l’ultima versione del film davanti a cinquemila persone. Accanto a lui c’è Isabelle Huppert.