S ono passati 2550 anni dal giorno in cui Siddhārtha Gautama raggiunse l’illuminazione mentre meditava sotto un albero di fico a Bodh Gaya, nell’India nordorientale. Cos’ha da dirci, oggi, la pubblicazione di un libro come L’insegnamento del Buddha di Walpola Rahula, recentemente riproposto da Adelphi?
Pubblicato nel 1959, L’insegnamento del Buddha viene considerato un’introduzione classica al pensiero buddhista e fu scritto come risposta alla (nelle parole di Rahula) “grande crescita di interesse per il Buddhismo” che stava investendo l’Occidente. Il suo autore fu il primo monaco a occupare, nel 1964, una cattedra occidentale, quella di storia e religione alla Northwestern University in Illinois.
Rahula era tuttavia anche un esponente della scuola Theravāda, la più fedele agli insegnamenti di Siddhārtha, e il suo libro può essere considerato una traduzione per occidentali del corpus di testi conosciuto come Canone pāli, la più antica collezione di scritture canoniche pervenuta integralmente fino ai giorni nostri. La tensione tra volontà divulgativa (“mi sono sforzato di dare nel modo più semplice e diretto possibile un’esposizione fedele ed esatta delle parole del Buddha”) e fedeltà agli insegnamenti originali (“ho sentito che sarebbe stato un errore non riportare con precisione le parole del Buddha e le figure che utilizzava”) ne attraversano le pagine e lo rendono una risorsa preziosa per chi voglia entrare in contatto con gli insegnamenti al cuore del primo Buddhismo.
Per questo il libro di Rahula ci permette ancora oggi di sgombrare il campo dai molti equivoci che in Occidente ne circondano la dottrina, compresi quelli più recenti: se infatti solo vent’anni fa dichiararsi buddhisti significava farsi portatori di un pensiero radicalmente altro rispetto al materialismo occidentale, oggi in Occidente la pratica buddhista viene associata soprattutto alla mindfulness, quella disciplina che insegna a essere “presenti nel momento” diffusasi al punto che critici culturali come Ronald Purser sono arrivati a considerarla una delle tante maniere in cui il capitalismo privatizza la ricerca della felicità per evitare che a essere messo in discussione sia il modello socio-economico dominante.
Il fatto che da noi oggi il Buddhismo assuma principalmente le forme della mindfulness ci dice due cose: da un lato che in Occidente, attraverso un processo di sineddoche, si tende a identificare la nebulosa buddhista con la scuola Zen (Jon Kabat-Zinn, l’americano promotore della forma di mindfulness oggi diffusa ovunque, fu allievo di Philip Kapleau); e dall’altro che a risuonare in Occidente non sono più gli aspetti “mistici” del pensiero buddhista (la ricerca del nirvāṇa oltre il saṃsāra della società dei consumi, di una forma di autenticità o di spiritualità nel trionfo della materia), quanto la sua possibile integrazione nel modello scientifico che domina le iperrazionaliste società occidentali. In ogni caso cambia poco: che si parta per l’India alla ricerca di sé stessi o che si mediti per aumentare la produttività aziendale il risultato è spesso lo stesso, il perpetuarsi di un malinteso. Quando parliamo di Buddhismo parliamo quasi sempre di qualcos’altro.
Quando Schopenhauer portò il Buddhismo nella filosofia occidentale all’inizio del XIX secolo compì una straordinaria opera di appropriazione culturale e fraintendimento.
L’equivoco che Rahula lamenta nelle prime righe del suo libro (parlando degli autori “che avvicinandosi a questo argomento con pregiudizi, ne danno interpretazioni false o esposizioni non fedeli”) ha una storia lunga quanto quella della penetrazione della parola di Siddhārtha in Occidente. Quando Arthur Schopenhauer portò il Buddhismo nella filosofia occidentale all’inizio del XIX secolo compì una straordinaria opera di appropriazione culturale e fraintendimento. Due secoli più tardi, in un mondo ormai globalizzato e il cui centro geopolitico e culturale continua a spostarsi verso est, l’insegnamento del Buddha viene chiamato in causa sempre più spesso nel discorso scientifico per parlare della struttura di base della materia o della natura della coscienza. Ma ancora oggi sono rari i casi in cui il messaggio al centro del pensiero buddhista viene davvero compreso.
Fatte salve poche eccezioni, scienziati e filosofi sembrano ancora soffrire di “buddhafobia”, come la chiama Timothy Morton: si dimostrano cioè restii a riconoscere la portata delle convergenze tra pensiero scientifico e l’ambito della spiritualità, probabilmente scambiando l’insegnamento del Buddha con una dottrina religiosa nel senso occidentale del termine.
Viene da chiedersi allora, per superare l’equivoco, in quali aspetti del presente le parole di Siddharta dimostrino la loro rilevanza. Per farlo parto dall’inizio: non solo l’inizio della penetrazione del pensiero buddhista in Occidente ma anche da quel momento di assoluta chiarezza di cui fece esperienza Siddhārtha sotto il fico di Bodh Gaya 2550 anni fa.
Oltre le mura del palazzo
Non appena raggiunta l’illuminazione, il trentacinquenne Siddhārtha decise di comunicare ciò che aveva scoperto e, partendo da due fratelli afghani incontrati per le strade di Bodh Gaya, formò la prima saṅgha, o congregazione di monaci. A questi discepoli rivelò il primo punto del suo insegnamento, quelle che sono passate alla storia come le quattro “nobili verità” del buddhismo. La prima di esse è la più celebre e anche la più scioccante di tutte: la vita, disse Siddhārtha, è dolore.
Molti lettori occidentali conoscono la storia del Buddha dal romanzo biografico che gli dedicò Herman Hesse nel 1922. Chi l’ha letto ricorderà che Siddhārtha era un principe, passò i primi ventinove anni della sua vita nel lusso e negli agi e decise di intraprendere un percorso di crescita spirituale quando, contro la volontà della sua famiglia, lasciò per la prima volta le mura del palazzo in cui era nato e vide che il mondo era un luogo pieno di sofferenza e morte. Da quel momento, nelle parole di Rahula, “decise che doveva trovare una soluzione: la via d’uscita dalla sofferenza universale”.
Ogni volta che, apprestandomi a meditare, lancio l’app sullo smartphone che uso come timer vengo accolto dall’affermazione: “Life is good!” Non c’è fraintendimento più completo dell’intuizione alla base del pensiero buddhista. Il Buddhismo non è promotore di una visione del mondo pessimista (“non è né pessimista né ottimista”, scrive Rahula, “se occorre definirlo esso è realista”) ma indubbiamente affonda le radici nella presa di coscienza dell’orrore intrinseco alla condizione di essere vivi.
Lo strano mondo che le scienze rivelano ogni giorno, spogliando la realtà della sua pelle familiare strato per strato, può talvolta sembrare terrificante.
La lettura di Schopenhauer della prima nobile verità, su cui si basa una parte considerevole del Mondo come volontà e rappresentazione, era tanto cupa che lo consegnò alla storia come il filosofo più pessimista di sempre. Attraverso il pessimismo schopenhaueriano, l’Occidente ha assorbito l’idea del Buddhismo come una filosofia dalle tinte tetre, che guarda al mondo come a un luogo di dolore e alla vita come a un tormentoso ciclo di sofferenza da estinguere il prima possibile.
Le cose non stanno esattamente così. Alla prima nobile verità ne seguono altre tre che delineano il percorso per sottrarsi al dolore, un orizzonte soteriologico ignorato da Schopenhauer. In secondo luogo, come precisa Rahula, il termine pāli generalmente tradotto con “sofferenza”, dukkha, ha un significato stratificato che “include idee più profonde come quelle di ‘imperfezione’, ‘impermanenza’, ‘vacuità’ e ‘insostanzialità’”, così che per il Buddhismo il problema non è tanto la vita in sé quanto l’attaccamento alla vita. E tuttavia non si può ignorare che l’intuizione di Siddhārtha nasce dalla presa di coscienza dell’orrore del mondo, pena il completo fraintendimento del suo messaggio.
Questo nucleo oscuro al cuore del Buddhismo risuona potentemente con i nostri tempi cupi, nei quali, come scrive Eugene Thacker, l’orrore è diventata la categoria filosofica attraverso cui possiamo interpretare il presente. Oggi l’umanità vive qualcosa simile a ciò di cui fece esperienza Siddhārtha: anche noi abbiamo lasciato le mura protette del nostro palazzo regale per confrontarci con una realtà spaventosa. E grazie all’opera di disincanto del mondo operata dalle scienze abbiamo scoperto che nulla è essenziale o permanente, ma al contrario tutto è destinato a finire. Il che ci porta al secondo punto.
Antropocene
In un libro intitolato Learning to Die in the Anthropocene, lo scrittore americano e veterano di guerra Roy Scranton sostiene che il suo avvicinamento al Buddhismo lo abbia aiutato a comprendere la sfida posta dal riscaldamento globale. La paradossale constatazione per cui in tempi di riscaldamento globale “il fallimento è inevitabile” sembra risuonare con “la saggezza buddhista” secondo la quale “questo Sé, questa esistenza, questo ‘Io’, sta sempre già morendo, è sempre stato già morto, sta sempre passando di momento in momento nel flusso della coscienza, della materia e dell’energia”. Così che, continua Scranton, “se posso comprendere come il mio stesso Sé sia temporaneo, transitorio e privo di sostanza, tanto più priva di sostanza sarà una civiltà, uno ‘stile di vita’, un insieme di abitudini e strutture e pregiudizi costruiti e praticati e sostenuti da innumerevoli Sé privi di sostanza”. Questo, o meglio anche questo, è uno dei significati della altrettanto paradossale constatazione di Timothy Morton per cui la fine del mondo è già arrivata.
Ma il Buddhismo ci può aiutare a comprendere il riscaldamento globale anche da un altro punto di vista. Strappando l’essere umano dalla sua posizione privilegiata al centro del cosmo, l’Antropocene ci ha messi a confronto con le altre entità viventi con cui condividiamo il Pianeta, e la cui soggettività siamo chiamati a prendere in considerazione se non vogliamo commettere gli stessi errori del passato.
Nel pensiero buddhista il concetto di karuṇā, tradotto generalmente “compassione”, è centrale quasi tanto quanto quello di dukkha. Anzi, scuole come quella Mahāyāna (di cui fa parte anche lo Zen) vedono nella compassione l’essenza stessa dell’insegnamento di Siddhārtha, preferendo alla figura del Buddha, che raggiunge l’illuminazione privata, quella del Bodhisattva, che rifiuta di estinguere il ciclo di vita e morte per continuare a reincarnarsi ed estendere attraverso i propri atti la compassione al mondo intero.
Sarebbe un errore, però, attribuire alla compassione buddhista il significato quotidiano del termine. Un po’ come l’“amore weird” che per Mark Fisher caratterizza un film come Interstellar di Christopher Nolan, la compassione buddhista è antintuitiva e straniante, in quanto non è “riferita a nessuno in particolare, non è calda e non è nemmeno un sentimento”. Piuttosto, essa “è il risultato della consapevolezza che ciascuno di noi è parte di un tutt’uno più grande, interdipendente e connesso”.
Strappando l’essere umano dalla sua posizione privilegiata al centro del cosmo, l’Antropocene ci ha messi a confronto con le altre entità viventi con cui condividiamo il Pianeta.
Nel Buddhismo la compassione deriva dalla presa di coscienza che tutti gli esseri viventi, umani e non umani, animali e vegetali, a diversi gradi di autoconsapevolezza, sono parte dell’inarrestabile ciclo della vita e della morte, tutti sottoposti allo stesso dolore intrinseco all’esistenza. Come spiega Rahula, uno dei “quattro stati sublimi” a cui tende il praticante buddhista consiste nel “provare compassione (karuṇā) per tutti gli esseri che soffrono, sono in difficoltà o in afflizione”. Il che, soprattutto in tempi di riscaldamento globale, vale a dire tutti gli esseri viventi del Pianeta: l’apocalisse, se o quando giungerà (o l’apocalisse che è già giunta, per rimanere alla metafora di Morton), non risparmierà nessuno.
Dalla prospettiva buddhista, la condizione umana è privilegiata per il semplice motivo che gli uomini, attraverso la pratica, possono spezzare il ciclo della nascita e della morte. Ma la stragrande maggioranza che non entra nel nirvāṇa in questa vita si potrà reincarnare domani in animali o piante: portare all’estinzione una specie di coleotteri o di pesci, quindi, è la stessa cosa che portare all’estinzione noi stessi.
Tutto è relazione e cambiamento
La constatazione che tutto esiste solo in relazione a tutto il resto non è solo la base della compassione, ma anche un punto di grande importanza filosofica. Nel pensiero buddhista, infatti, niente ha una sostanza in sé. Come scrive Rahula, “quella che chiamiamo vita […] è una combinazione di forze fisiche e mentali”. Ogni cosa è definita dall’esistenza di tutte le altre cose che la circondano nella grande rete del mondo, un principio espresso in maniera succinta dal celebre koan Zen che chiede “qual è il rumore di una sola mano nell’applauso?”. Così non è possibile definire il caldo se non in relazione all’esperienza del freddo, né definire l’alto se non in relazione al concetto di basso e così via. Le cose non sono in quanto tali, ma soltanto nella loro relazione reciproca.
Le scienze hanno scoperto l’interconnessione dei sistemi naturali all’inizio del XIX secolo, e su questa intuizione hanno fondato l’idea di ecologia. Secondo la storica Andrea Wulf, questa intuizione arrivò quando Alexander Von Humboldt, dalla cima del vulcano Chimborazo in Ecuador, scoprì che “la natura è una rete di vita e una forza globale” e che “tutto è intrecciato come migliaia di fili”. Alterando un elemento del sistema si alterano anche tutti gli altri, perché ogni cosa (un lichene o un continente) esiste solo perché esistono tutte le cose a cui è legata e che la definiscono.
Duecento anni più tardi, la fisica quantistica si è spinta molto oltre Humboldt, confermando che l’interdipendenza è una caratteristica fondamentale della materia. Come scrive Carlo Rovelli ne L’ordine del tempo, “più lo abbiamo studiato, meno il mondo sembra comprensibile in termini di qualcosa che è. Sembra essere molto meglio comprensibile in termini di relazioni fra accadimenti”.
Se nel Buddhismo le cose non sono è anche perché continuano a cambiare, sono transitorie (aniccā): esse, scrive Rahula, “sono in continuo mutamento, non rimangono uguali neanche per due istanti consecutivi. In ogni momento nascono e muoiono”. Anche questo punto è ormai uno dei capisaldi della fisica contemporanea, poiché, come spiega ancora Rovelli, “tutta l’evoluzione della scienza indica che la migliore grammatica per pensare il mondo sia quella del cambiamento, non quella della permanenza. Dell’accadere, non dell’essere”. E che “a ben guardare […] anche le ‘cose’ che più sembrano ‘cose’ non sono in fondo che lunghi eventi”. Ma a non essere in quanto tale non è solo il mondo che ci circonda: siamo anche noi.
Essere nessuno
In uno dei momenti più celebri de La cospirazione contro la razza umana, lo scrittore di horror soprannaturale Thomas Ligotti recupera le teorie esposte dal neuroscienziato Thomas Metzinger nel suo libro del 2003 Being No One: The Self-Model Theory of Subjectivity. Per Ligotti/Metzinger, l’Io non è altro che un’illusione prodotta dai nostri cervelli di momento in momento per fornire l’apparenza di una continuità coerente. Scavando sotto questa complessa fiction fatta di ricordi, aspettative e modelli del mondo, però, si arriva alla constatazione che dietro il “sogno di essere una persona” (per citare il ligottiano “Rust” Cohle della serie TV True Detective) non si trova nulla: noi non siamo nessuno.
Metzinger porta alle estreme conseguenze una teoria molto diffusa nelle neuroscienze, figlia di quello che taluni (ad esempio David Chalmers) considerano una forma di riduzionismo che affligge gli studi sul cervello: l’idea che la coscienza non sia altro che la risultante dell’insieme dei processi biologici operata dall’“hardware” del tessuto neurale.
Il pensiero buddhista ci è utile non per aumentare la produttività e risolverci in casa i problemi politici, né per fuggire verso una dimensione “altra”, ma per convivere con quella presente.
Nella Cospirazione Ligotti cita l’esperienza buddhista solo per liquidarla in poche righe. Ed è un peccato, perché, almeno ad un certo livello, l’insegnamento del Buddha dà ragione a Metizinger: come spiega Rahula, infatti, secondo la dottrina buddhista dell’ anattā, “l’idea di una sostanza permanente e immortale presente nell’uomo o fuori di esso e che noi chiamiamo atman, io, anima, sé o ego, è ritenuta soltanto una falsa credenza, una proiezione mentale”, così che “non c’è una sostanza immutabile, non c’è nulla dietro le cose che possa definirsi un ‘sé’permanente (ātman), un’individualità, niente che possa realmente chiamarsi ‘io’. Per il Buddhismo, la cui pratica meditativa consiste in gran parte nel riconoscere la non-coincidenza tra colui che medita e i suoi stati fisici e mentali (io non sono il mio corpo e non sono i miei pensieri, che mi attraversano e scompaiono), noi non siamo nessuno.
Non stupisce quindi che in anni recenti il campo in cui la teoria e la pratica buddhista hanno penetrato maggiormente le scienze occidentali sia quello delle neuroscienze. Ma a differenza degli esiti nichilisti a cui giungono Ligotti e Metzinger (e in maniera meno affascinante anche i “normali” riduzionisti), anche in questo caso l’insegnamento del Buddha non è intrinsecamente pessimista proprio come non è ottimista. Non essere niente non è per il Buddhismo una forma di perdita di qualcosa, ma semplicemente una manifestazione della natura transitoria del mondo.
Dharma oggi
Lo strano mondo che le scienze rivelano ogni giorno, spogliando la realtà della sua pelle familiare strato per strato, può talvolta sembrare terrificante. Può farci paura scoprire che non siamo al centro dell’universo, o che come ogni altra specie siamo destinati all’estinzione, o che non ci sia un Io stabile al centro della nostra identità. Il weberiano disincanto del mondo può sembrarci una caduta negli inferi del nonsenso, e trasformarsi rapidamente in nichilismo. Sono certo che proprio questo è ciò che ha provato Siddhārtha lasciando il suo palazzo: la perdita di senso derivante dallo scontrarsi con un mondo pieno di angoscia e dolore.
Ma se la perdita dell’essenza ci appare come una catastrofe, questo deriva dal fatto che al cuore della filosofia occidentale, che è platonico-cristiana, c’è una fonte originaria di senso (l’Idea, il Dio) dal quale ci sembra sempre di essere stati separati. Tutto questo non esiste nelle filosofie orientali, e specialmente nel Buddhismo, che da questo punto di vista si sono dimostrate alla prova dei fatti essere molto più accurate nel descrivere il mondo.
Per questo oggi il pensiero buddhista ci è utile non per aumentare la produttività e risolverci in casa i problemi politici, né per fuggire verso una dimensione “altra”, ma per comprendere (e per convivere) meglio con quella presente, con il mondo di tutti i giorni. Attraverso uno sguardo antico di millenni possiamo scoprire che il mondo vertiginoso rivelato dalle scienze non fa paura, o non solo, ma è anche fonte di un incanto infinito. Perché in fondo, come insegna il Buddha, il nirvāṇa non è un mondo diverso dal nostro, ma semplicemente una maniera nuova di guardare al saṃsāra.