C
om’è stata la tua prima volta?”
“È stata con la mia babysitter.”
“Anche la mia…”
Questo breve scambio tra i protagonisti di Bones and all di Luca Guadagnino occorre poco oltre la metà del film, quando Maureen/Taylor Russel e Lee/Timothée Chalamet stanno cominciando a conoscersi più intimamente. Sembrerebbe solo il preludio a una timida conversazione tra due adolescenti se ci dimenticassimo per un momento come si sono incrociate le loro vite. Maureen e Lee si conoscono in un supermercato nel mezzo del nulla. Lee scorge Maureen rubare del cibo e decide di distrarre uno degli uomini che le avrebbe potuto dare del filo da torcere. Maureen riesce a cavarsela senza problemi e uscita dal supermercato intravede la sagoma di Lee in lontananza avvicinarsi sempre più verso di lei. Il passo del giovane è deciso e fermo, come se non avesse paura di essere scoperto da una persona di cui ha sentito “l’odore”, di cui si può fidare; gli spazi lasciati vuoti dal jeans e dalla t-shirt strappati sul corpo esile e bianchissimo mostrano i segni di quella che potrebbe essere stata una lite violenta, un confronto finito male. Ma dalla bocca cola del sangue e tutto il suo volto ne è macchiato. Lee intima a Maureen di seguirla al tendone dove si trova il corpo dell’uomo assassinato poco prima per cibarsene.
È un incontro, quello tra i due adolescenti, che si manifesta prima con i sensi e poi con la comunicazione verbale: Lee sente l’odore di Maureen e si sente riconosciuto. Lo stesso è accaduto a Maureen e fin da subito tra i due si stabilisce un contatto. All’inizio è come se Lee si sentisse quasi in dovere di proteggere la ragazza per la sua giovane età e inesperienza in quella che entrambi vedono come una condanna a vita. Essere visceralmente attratti dal sangue dalla pelle e dal corpo umani, volersene nutrire “fino all’osso”, sacrificare una vita normale, l’amore, gli affetti per una pulsione di questo genere: sarebbe stato meglio morire, si dicono spesso. E tuttavia non riescono a farne a meno. Il padre di Maureen – perfettamente consapevole della devianza della figlia, anche perché ereditata dalla madre, internata in una clinica psichiatrica – decide di abbandonarla in seguito all’ennesimo episodio di “crisi”; la parola cannibalismo non viene pronunciata quasi mai.
È un incontro, quello tra i due adolescenti, che si manifesta prima con i sensi e poi con la comunicazione verbale: Lee sente l’odore di Maureen e si sente riconosciuto.
Invitata a una festa a casa di amiche, a un certo punto Maureen avverte l’odore di una delle ragazze che ha intorno. È una delle primissime scene del film e qui Guadagnino è bravo a giocare con le aspettative di chi guarda: le due ragazze cominciano a toccarsi, le dita dell’una scorrono lentamente sul corpo dell’altra e la macchina da presa è fluida e sinuosa nel seguirne da vicino ogni movimento finché il dito di una finisce tra i denti di Maureen che non sembra intenzionata a staccarsene. Il film è stato presentato in anteprima mondiale alla Mostra del Cinema di Venezia e tranne per poche e sporadiche anticipazioni quasi nessuno sapeva la trama di Bones and all o se ne era informato: credo che nessuno si sarebbe aspettato di vedere un coming of age inserito in un road movie con atmosfere e ambienti simili a quelli evocati da Wim Wenders in Fino alla fine del mondo (1991), unito a una storia d’amore alla Near Dark di Kathryn Bigelow (1987) e Badlands (1973) di Terrence Malick, soltanto alcuni dei riferimenti visivi e narrativi di Guadagnino.
Difficile non pensare, infatti, guardando Bones and all, alla famiglia di vampiri vagabondi raccontati dalla regista americana. Le note taglienti e aliene dei Tangerine Dream nel film di Bigelow portano a quelle altrettanto potenti di Trent Reznor e Atticus Ross nell’opera di Guadagnino: la musica conduce entrambe le visioni e il viaggio compiuto da questi “altri”, veri e propri freak, tra le strade e praterie deserte di un imprecisato entroterra statunitense. In questi film dall’afflato quasi post-apocalittico, Bigelow e Guadagnino lasciano collimare immaginario western e mitologia vampiresca da un lato, e road movie e coming of age horror dall’altro. Inoltre, a unire questi due film, c’è una particolare maniera di raccontare l’emarginazione e ciò che viene considerato distante dalle normali consuetudini socio-culturali durante l’era Reagan. Anziché raffigurare i vampiri come ricchi aristocratici o grottesche figure isolate in sontuosi e labirintici castelli, rovesciando i tradizionali connotati con cui la figura del vampiro è stata da sempre descritta e raccontata, Bigelow prova a umanizzarne la fisionomia psico-fisica: l’elemento di novità nella caratterizzazione del personaggio riguarda, infatti, il suo inserimento in una vera e propria comunità che nel film è il riflesso dell’insieme di “emarginati” delle classi sociali e operaie ai margini della società normativa statunitense di quel periodo storico. Bones and all sembra muoversi seguendo un percorso simile. Maureen e Lee, così come altre figure di cannibali che costellano la narrazione, appartengono una classe sociale non benestante e agiata e si muovono alla ricerca di cibo in quartieri popolati perlopiù da ricchi dove le case sono gigantesche e i viali infiniti; non è un caso che una delle prime vittime di Maureen una volta sola nel mondo e dopo aver incontrato Sully/Mark Rylance, personaggio che di lì a poco si sarebbe rivelato ambiguo oltre che pericoloso, sia stata una vecchia signora abbandonata in fin di vita in una casa dove il suo respiro affannoso si sentiva a stento.
Guadagnino lascia collimare immaginario western e mitologia vampiresca da un lato, e road movie e coming of age horror dall’altro.
Rifacendoci alla riflessione della teorica del cinema francese Martine Beugnet a proposito del cinema di Claire Denis, in relazione a un film dalla cui estetica e immaginario Guadagnino ha tratto non poco – mi riferisco a Trouble Every Day (2001) – potremmo dire che Bones and all incarni due lati di un medesimo malessere contemporaneo: da un lato, il sentimento di insensatezza che affligge le società occidentali lasciate prive di valori diversi da quelli dell’era tardo-capitalistica; dall’altro, è evidente che al regista prema riflettere, e in questo è molto vicino a Denis, e in generale a tutta una corrente cinematografica francese, ovvero la “New French Extremity”, sulle paure e i desideri primordiali che i sistemi sociali tentano in ogni modo di reprimere.
I film della New French Extremity (ne citiamo soltanto alcuni, tra i tanti che si sono succeduti nel corso delle ondate della corrente cinematografica: Trouble Every Day di Claire Denis, Dans ma peau (2002) di Marina De Van, A l’interieur (2007) di Alexander Bustillo e Julien Maury) si collocano in spazi di confine e di intrusioni inumane, dai cui interstizi si riverbera la forza brutale delle identità e dei corpi coinvolti: filmare questo processo trasformativo è per gli autori e le autrici di questo movimento – così come per Guadagnino – fondamentale. Le figure devianti di Trouble Every Day, Dans ma peau e Bones and all, sono afflitte da pulsioni cannibaliche e autolesioniste. Il desiderio estremo di Coré/Beatrice Dalle in Trouble Every Day è dovuto a un esperimento sul controllo della libido finito non bene e quello di Esther in Dans ma peau a un incidente che l’aveva vista scorticarsi parte della gamba con dei fili di metallo in cui era inciampata. Per Esther, a differenza di Coré e in maniera molto simile a Maureen, il bisogno psico-fisico di “assorbire” e inglobare l’altro si riverbera tutto su di sé. Esther non fa mai del male a nessuno tranne che a sé stessa; nasconde i segni chiari della sua pulsione autolesionista e fa di tutto perché gli altri e la società continuino ad avere un’immagine di lei inappuntabile e solida. Verso la fine del film c’è una sequenza molto lunga in cui, in seguito a un efficacissimo montaggio incrociato, si vede la donna intenta a scuoiarsi parte della pelle, per poi dichiarare a un farmacista, a cui deve chiedere degli antidolorifici, di volerla conservare.
Il film incarna il sentimento di insensatezza che affligge le società occidentali e i desideri primordiali che i sistemi sociali tentano di reprimere.
Una scena, questa, che ricorda moltissimo quella in cui in Trouble Every Day, Coré divora il volto di un ragazzo che era venuto a trovarla; ricorda pure la lunghissima sequenza finale di Bones and all, dove assistiamo all’ultimo e terrificante amplesso tra Maureen e Lee, consumatosi letteralmente tra la vita e la morte: in entrambi i casi, alla fine, i baci e le effusioni finiscono col tramutarsi in morsi profondi e urla disperate. Lo stile gore è evidente nell’approccio audace e plastico alle scene degli omicidi privilegiando l’aspetto visuale rispetto al dialogo. Non per caso gli scambi di battute tra i protagonisti nei due film sono scarni e quando ci sono hanno una funzione, per così dire, quasi “riempitiva” dal momento che è con una determinata costruzione dell’immagine e non con la parola che vengono chiariti caratteri e aspetti dei conflitti. Un lavoro di ripresa, dunque, che gioca su quello che lo scrittore e critico francese Pascal Bonitzer ha definito “effetto décadrage”: concentrarsi su spazi vuoti creando un vuoto nell’inquadratura che sovverte le dinamiche dello sguardo. In entrambe le sequenze, infatti, l’effetto dei movimenti di macchina sensuali e ravvicinati e la destabilizzazione lampante delle strategie convenzionali della percezione e del punto di vista si traducono nella costruzione di un’atmosfera piena di ansia e inquietudine.
Guadagnino non è nuovo a una simile esplorazione degli spazi e dei confini della corporeità, che nega allo spettatore il piacere di riflettersi nei corpi rappresentati. I corpi divengono alieni, perversi e spaventosi. Già in Suspiria (2018), ad esempio, la danza non è, come nel film di Dario Argento, solo elemento di contorno, che forgiava il film di un’estetica ancora più ricercata e preziosa per il genere horror; per Guadagnino, la danza diventa un elemento centrale e necessario con una precisa valenza estetica e politica, incarnata da una delle coreografie del film, Volk, nata da Les Médusés, piéce che il coreografo del film Damien Jalet ha svolto nel 2013 con altri danzatori al Louvre in una stanza piena di statue femminili realizzate da uomini. La sintassi convulsa e spezzata del movimento dei danzatori e delle danzatrici, che si sarebbe poi riprodotta nelle danzatrici del film, ha una specifica ragione: è come se gli attori di Les Médusés e le attrici di Volk si muovessero per rompere gli incantesimi da cui sono circondati, andando a colpire con il loro movimento brutale l’immobilità delle figure intorno a cui i loro corpi danzano.
Lo stile gore è evidente nell’approccio audace e plastico alle scene degli omicidi privilegiando l’aspetto visuale rispetto al dialogo.
Volk è quindi una danza di ricerca identitaria, e di smascheramento, attraverso l’energia collettiva (volk è il “popolo”) femminile, e il corpo, così, ne assume tutta la portata e forza divellente. E non è un caso che la maggior parte dei movimenti, anche quelli improvvisati, o quei primi durante il contatto tra Susie Bannion\Dakota Johnson e la strega madre Helena Markos, abbiano origine dal ventre e dal grembo (“what it must be like to fuck…”), dal bisogno di restare ancorata al suolo, alla materia: il moto dei corpi cangianti e mostruosi delle danzatrici come una forza che a poco a poco estrinseca la natura del piacere sessuale, come in una specie di beatitudine, un’estasi psicofisica che si procura da sé. Ed è attraverso la maieutica esercitata da Madame Blanc\Tilda Swinton su Susie, come nel Blaubart, il processo creativo di cui Pina Bausch – Madame Blanc è una sua evidente reminiscenza – si serviva con i suoi attori, che questa natura, quest’origine de-strutturata e libera, fuoriesce, nella sua duplice essenza creativa e distruttiva.
La rappresentazione dell’amore, del desiderio e della sessualità da parte di Guadagnino sfugge a un’immagine convenzionale. Sia la dimensione sessuale che emotiva emergono con le contraddizioni e incertezze che ne definiscono la complessità e mentre vengono mostrati con una luce malinconica e talvolta anche morbosa – basti pensare a Call me by your name, ma soprattutto al meno recente A bigger splash, remake de La piscine di Jacques Deray (1969) – l’approccio del cineasta a questi temi rimane profondamente intimo e radicato. La raffigurazione del desiderio, esplorato nei suoi aspetti più torbidi e sovversivi, è indissociabile dall’elaborazione registica di un “cinema dei sensi” che si basa su una visione limpida e “sensuale”, citando nuovamente Beugnet, del reale e su “una combinazione di suoni e immagini che espandono il potere evocativo e visivo del cinema”. In questo senso, con Bones and all, Guadagnino non solo crea progressivamente delle corrispondenze, ma confonde anche il tradizionale processo di identificazione e punto di vista attraverso cui siamo soliti leggere una storia di questo tipo: il desiderio anormale e scomodo dei personaggi emerge nella sua ambivalenza e diversità poiché legato alla trasgressione; è un desiderio assoluto che colpisce gli individui e sfida i tabù e le gerarchie erette dagli ordini sociali che tentano di incasellarlo ed è, soprattutto, un desiderio che minaccia l’integrità del corpo e dell’io, rivelandone le fragilità. Maureen e Lee sono sempre a rischio di dissolversi l’uno nel desiderio totalizzante dell’altra, di esserne consumati, come rivela la sequenza finale. Sono delle figure trasgressive tragiche, assediate da voglie irrefrenabili e continuamente tormentate dalla natura terrificante dei loro desideri e il coming of age ha rappresentato per Guadagnino un’altra lente, oltre quella del genere horror e gore, attraverso cui leggere le modificazioni e intemperie di un’individualità e di un corpo in transizione.
Guadagnino non è nuovo a una simile esplorazione degli spazi e dei confini della corporeità, che nega allo spettatore il piacere di riflettersi nei corpi rappresentati.
Se l’identità è intesa come il riuscire ad avere un sentimento di continuità con sé stessi che si snoda tra un prima (ciò che si è stati), un adesso (ciò che si è), e un dopo (ciò che si potrà essere), l’horror è il genere cinematografico che più aiuta ad articolare la rappresentazione di questa fase così precaria, connotata da conflitti profondi che si vivono rispetto all’immagine di sé stessi e il ruolo che si va a ricoprire in rapporto al mondo esterno, con tutta la dimensione di conflitto e incertezza che ne derivano. Sono la violenza e la confusione del passaggio da un’identità a un’altra e da un livello di consapevolezza a un altro che Guadagnino ha affrontato con Bones and all e che lo avvicinano all’opera di Julia Ducournau, cineasta che fin dall’inizio della sua carriera ha lavorato sui mutamenti del corpo adolescente a partire dall’horror.
In Junior, suo primo cortometraggio, un’adolescente brufolosa e tarchiata si squama come un serpente lasciando il posto a un’“altra” pelle. Il cambiamento e la transizione da bambina a donna hanno origine da un’apparentemente banale influenza intestinale, a causa di cui il suo corpo piccolo e gracile rilascia liquidi strani e non specificati, divenendo all’improvviso quasi prorompente e, soprattutto, oggetto di inaspettato desiderio agli occhi dei suoi amici maschi. In soli venti minuti, Ducournau condensa quelli che sarebbero diventati i temi a lei più cari: la metamorfosi del corpo, la ricerca di un posto nel mondo legato a un cambiamento necessario, l’accettazione di sé e la libertà di essere come si è. Non per caso il cannibalismo di cui, in Raw, si sarebbe scoperta “malata” Justine non viene visto come qualcosa di negativo: rappresenta, anzi, il punto di arrivo di un percorso di crescita e consapevolezza avviato (anche) per merito della sorella. Ma l’elemento che avvicina maggiormente il lavoro di Guadagnino e Ducournau è che non di rado, seguendo l’andirivieni delle giovani protagoniste, chi nella scuola di veterinaria, chi a bordo di un pick-up in giro per gli Stati Uniti, ci si dimentica che a essere rappresentate siano delle figure di mostri femminili. Infatti, com’è stato già sottolineato sull’Huffington Post, non è il fatto che siano delle cannibali a suscitare l’empatia degli spettatori e a renderle vulnerabili ai loro occhi, ma che siano, invece, sole al mondo e che ne stiano facendo esperienza, calpestando i margini della società in un momento critico della loro vita in cui non possiedono tutte le risposte che vorrebbero.
Il desiderio dei personaggi minaccia l’integrità del corpo e dell’io, rivelandone le fragilità.
Solo accettando le rispettive voglie di carne e sangue, accogliendo, quindi, una forma di desiderio non conforme, instabile, precario e spaventoso, che entrambe le giovani donne cercavano di eludere con l’autolesionismo e la negazione, Justine e Maureen potranno finalmente essere sé stesse liberandosi da imposizioni socio-culturali predeterminate. Se il desiderio è un’esperienza che crea un conflitto e una discrepanza tra l’io e l’altro, in un contesto culturale di quasi totale appiattimento delle narrazioni del desiderio, che sono diventate perlopiù monocordi e statiche, Guadagnino se ne distanzia ampiamente. Nella trattazione delle sue dinamiche e direzioni, i suoi film recuperano tutta una tradizione di cinema dei sensi e del desiderio, tra Fassbinder e il cinema “della pazienza” di Eric Rohmer, oltre ai riferimenti di cui si è parlato all’inizio, dove a emergere sono l’attesa, la frustrazione, più che il compimento.