L a letteratura è all’altezza della musica? Non parlo di Stravinskij o Bach. Parlo proprio delle canzonette, della musica leggera. Se parliamo di quello che è successo all’incirca dal 1945 in poi, la poesia – ad esempio – può arrivare a costeggiarne, provare a uguagliarne l’impatto sulla cultura generale, sull’immaginario, sulla psiche collettiva? Forse è questo che dobbiamo chiederci e non l’opposto. Il pensiero mi si è affacciato al momento dell’assegnazione del fatidico Nobel. Un pugno di signori e signore svedesi decidono che vale la pena di consacrare una persona e poi ti ritrovi stranito al parco con un libro brutto di Herta Müller. Oibò. Ma non è solo questo. Il problema dell’assegnazione a Dylan è stato ancora diverso e torna in mente perché, dopo il diluvio di polemiche, è da poco uscito un nuovo studio (Oh no, not another Bob Dylan book!, come recitava un vecchio titolo, già), stilato da un accademico americano, e pubblicato da Edt (Perché Bob Dylan, traduzione di Elena Cantoni e Paolo Giovanazzi), dove si prova a ricollegare Dylan a “quella maestosa corrente classica che dalle sorgenti greche e latine, indifferente ai vincoli di luogo e tempo, ha continuato a scorrere per generazioni fino ai nostri giorni”.
Richard F. Thomas insegna alla facoltà di lettere classiche di Harvard ed è dal 2003 che dedica seminari all’arte dylaniana, con qualche fastidio ai piani alti dell’ateneo. La notizia del Nobel gli è arrivata proprio mentre era in classe: immaginarsi il tripudio e la trottata dal rettore con irruzione nell’ufficio e pernacchia come in un vecchio film di W.C. Fields. Sulla pagina dell’università si intravede un signore di mezza età, nato in Inghilterra e cresciuto in Nuova Zelanda, poi approdato negli Stati Uniti. Ha compilato studi sulle Georgiche e altri classici. In fondo alla pagina un link sibillino che cita “Shelter from the Storm” (“In un’altra epoca…”) rimanda a due immagini di gioventù: capelli ricciolotti, piglio arrabbiato, sigaretta in bocca accanto a un muro con la scritta “Dump Nixon”. È un avviso, insomma: l’angry young man ha sì tagliato i capelli (“Li lascio crescere all’infuori” diceva Dylan, “altrimenti m’intasano il cervello”) ma non s’è fatto intasare il cervello e ha messo a frutto la cultura per riesplorare cum laude la barbarie giovanile. E di esplorazione si tratta. In una decina di capitoli Thomas prova a rintracciare nei testi e nelle interviste, perfino nella vita, di Dylan le affinità con la cultura classica (più un capitolo sbilenco su Rimbaud). E lo fa invano. Non tanto perché non vi siano prove, palinsesti da risalire, residui di letture, incrostazioni di vario genere in quello che Dylan ha partorito a cominciare dal ’61 fino a Tempest (quando è uscito Rough and Rowdy Ways, disco peraltro estremamente letterario, questo libro era già uscito). No, è l’idea di base che traballa. E che pure rientra, alla stregua del Nobel, in una involontaria malia universale.
Ma torniamo indietro.
Nei primi anni Sessanta un comitato per i diritti civili assegnò un premio al giovane Dylan per il contributo alla lotta che stava dando con le canzoni. Venne organizzata una cena di gala. C’erano James Baldwin e altri personaggi illustri. Bob Dylan salì sul palco, parecchio ubriaco, e disse che avrebbe voluto “vedere delle teste ricoperte di capelli… Abbasso lo sguardo e vedo gente che governa e che stabilisce le regole cui sono soggetto, e non ha un solo capello in testa, il che mi fa incavolare non poco”. Li accusò di essere pelati. Parapiglia, lettera di scuse. Ci riprovarono nel 1970 quelli di Princeton con una laurea honoris causa e Dylan si presentò con David Crosby strafatto d’acido, per poi scrivere “The Day of the Locusts”, canzone claustrofobica come poche in cui sentenzia: “Quant’ero contento d’esserne uscito vivo”. E poi ovviamente, dopo una sfilza di impacciate cerimonie (basterebbe quella dei Grammy nel ’91 per avere un’idea dell’imbarazzo che genera), è arrivato il Nobel con il silenzio-assenso-assenza del protagonista, e tutta la coda di polemiche e battutine. A condire i decenni, una quantità di conferenze stampa vissute come happening di nonsense e non sequitur.
La letteratura è dura a morire, nella sua spocchia, e da sempre ha corteggiato questo ragazzino impertinente per farlo proprio e per nobilitarsi. Non è possibile avere partorito i versi di “Desolation Row” senza aver frequentato un seminario su Rimbaud. Non è concepibile intercettare così l’aria e l’aura dei tempi senza essersi genuflessi alla tradizione, senza avere pagato un tributo alla struttura sociale preordinata, senza – in una parola – avere studiato. E Dylan sguscia via di continuo: prende in giro T.S. Eliot ed Ezra Pound, e loro non capiscono; sostiene che devono sparire i musei, mica la bomba atomica, e loro non colgono; canta “Inside the museums / Infinity goes up on trial” e loro non ne vogliono sapere. Invece uno scrittore non alieno alla cultura popolare come Don DeLillo che ha sempre avuto l’occhio e l’orecchio rivolti verso la strada, ti dice tranquillo che sono pochissime le persone in grado di imprimere nell’immaginario collettivo un pugno di parole come ha fatto Dylan. Riuscire a dare un senso dirompente a una frase di senso comune come “How does it feel?”. “Quattro parole” racconta DeLillo in un’intervista, “che veicolano quello che pochissimi scrittori o poeti o registi o altri cantautori riescono a fare.” Insomma da anni gli accademici tentano disperatamente di accreditare Dylan presso sé stessi, dopo che lui si è già accreditato presso il mondo.
E così è molto tenero il professore di turno quando indaga nel passato alla stregua di un detective e scopre scioccato che Dylan era significativamente iscritto a un club di latino durante il liceo, ma non trova il modulo di iscrizione e diventa sospettoso: “Chissà come, considerato il puntiglio con cui la scuola conserva il proprio archivio, il suo modulo di iscrizione è ‘scomparso’ dagli schedari, ma resta dimostrato che Bob Zimmerman studiava il latino e l’antica Roma nello stesso anno in cui aveva formato la sua prima band”. O quando enfatizza che l’ispirazione verso il mondo antico gli sia venuta dai peplum che guardava da bambino nei cinema di Hibbing. O ancora quando scopre che esiste una misteriosa canzoncina su Roma scritta nel ’63 dopo essere passato di lì per la prima volta e accentua rimandi ambigui e intertestuali in un simpatico testo un po’ folle. O quando individua corrispondenze lessicali tra Dylan e Virgilio in “Changing of the Guards”, tra Dylan e Giovenale in “Tempest” (“Davey the brothel keeper / Came out, dismissing the girls” dovrebbe echeggiare “The pimp was already dismissing his girls” nella traduzione inglese della sesta satira). Se Dylan scrive “Last night the wind was whisperin’ somethin’ / I was trying to make out what it was” (“Lonesome Day”, “Love and Theft”, in un topos classicissimo sul vento che bisbiglia qualcosa di incomprensibile e fatale) è difficile accostarlo per forza, come fa Thomas, a un passaggio di Le avventure di Huckleberry Finn, per quanto analogo: “… the wind was trying to whisper something to me, and I couldn’t make out what it was”. Altrimenti si potrebbero trovare prestiti e affinità tra una quantità innumerevoli di pagine sparse. Ma il dylaniano ti guarderà sornione e chiederà di spiegargli come mai allora a poche canzoni di distanza, nello stesso disco, si trova un pezzo intitolato “Mississippi”. Basta una piccola traccia, un riflesso vago in una canzone minore perché i seminari all’università finalmente acquistino senso, splendore.
Dylan è una spugna: la sua forza primordiale è sempre stata quella di non studiare, di aprire un libro a caso e assorbire in un momento la lezione di Rimbaud e Eliot, di farla propria, di trasformarla.
E sì, certo: Dylan è intriso di sacre scritture, riferimenti classici, echi simbolisti, prestiti stilnovisti. È una spugna: la sua forza primordiale è sempre stata quella di non studiare, di aprire un libro a caso – che fosse il Battello ebbro o la Terra desolata – e assorbire in un momento la lezione di Rimbaud e Eliot, di farla propria, di trasformarla. Il suo più grande talento – nella seconda parte Thomas lo intuisce, sebbene vi attribuisca sempre troppa consapevolezza – è il furto, il plagio, il blink di capire che cosa può funzionare di Brecht per tirare fuori “Only a Pawn in Their Game”, di Burroughs per immaginare le scomposizioni tossiche di “Visions of Johanna”, del decadentismo per incarnare il dandy irritato e sbattuto che inveisce contro tutti nella trilogia elettrica, e infine della Bibbia per immergersi in quel tempo immemorabile che caratterizza gli ultimi dischi. Intervista del 2017: “È come se fossi un sonnambulo; non stai cercando o indagando in modo consapevole: le cose ti vengono trasmesse. (…) In realtà non sei tu al servizio dell’arte, è l’arte che serve te”. Ma tutto questo non fa di lui un grande poeta, semmai fa di lui uno dei rari medium attraverso cui passa una tradizione. Pochi libri, poche letture sparse e caotiche (un intervistatore passa da lui in campagna e vede solo il canzoniere di Hank Williams e un’antologia del dolce stil novo: c’è tutto) e la possibilità di recuperare un mondo perduto e muffito per catapultarlo grazie all’amplificatore di Newport (oltre a quello economico del boom) in un mondo nuovo ed elettrico, elettrizzato, che aspettava di attribuire a un personaggio sfuggente, giovane, aspro le qualità che attribuiva a personaggi fantasmatici aleggianti nei libri di testo o nella cultura generale: ecco questo tizio scarmigliato con gli occhiali da sole che snocciola versi risonanti, mutevoli, e non abbiamo altra parola se non poeta. Ma lui: “Preferisco essere chiamato un song-and-dance man”. O un trapezista. O quello che ti pare. Non importa.
Questo mistero – questo soffio – che l’ha preso e l’ha portato dove nessuno era mai stato prima ha sorpreso anche lui, l’ha elevato e lasciato tramortito ogni volta, di lì la teologia retorica (e però verissima) sulle innumerevoli morti, sui cambi di pelle e di umore, sull’inafferrabilità spontanea, sull’elusività voluta o timida o goffa o psicotica (ci è o ci fa?). Hanno scritto di questo talmente tanto che Dylan è sopraffatto da Dylan. In Chronicles sostiene che sono state accumulate troppe parole su di lui e il senso si è perso. Leggendo un articolo su sé stesso, un giorno sbotta: “Dio, sono felice di non essere me”. Ormai sa benissimo che ogni sillaba, ogni allusione – tanto quanto le cravatte di Trump per i seguaci di QAnon – verrà presa e interpretata come chissà quale messaggio. Dylan è un ebreo fuggiasco, un ombroso figuro con gli avi a Odessa cresciuto in una cupa città mineraria, aggressivo con Lennon e Donovan e Dio solo sa quanti altri, una personalità diffidente da sempre. Great Jones Street, per restare su DeLillo, ha un protagonista superdylaniano ed è un classico romanzo sulla paranoia americana, ma anche il personaggio del film Chi è Harry Kellerman e perché parla male di me? con Dustin Hoffman sembra ispirato a lui. La diagnosi non è difficile. Diventa quindi più interessante notare come la sua personalità abbia suscitato da sempre proiezioni mitomaniacali che vanno dall’austero professore convinto di percepire echi di Omero in ogni distico fino all’amico mio che si dice sicuro di avere incrociato il suo sguardo sardonico in concerto. E d’altra parte Dylan stesso sosteneva di avere recepito un influsso semimagico quando andò a vedere Buddy Holly da ragazzino.
La cosa rilevante, in fondo, che sfugge al volenteroso Richard F. Thomas, è indicata bene dal salto del titolo. In originale recita Why Bob Dylan Matters, e cioè Perché Bob Dylan è importante. Ti racconto quanto è colto o quanto è bravo o quanto è efficace o quanta influenza ha avuto. Come se l’importanza non fosse di per sé evidente. Ma vabbè. In Italiano l’idea brillante è stata di troncarlo in Perché Bob Dylan. Esiste, è, non-è: è un vuoto pieno di senso. E lo è così tanto da essere diventato un mistero anche per sé stesso, perso nel personaggio mitologico, stratificato, enigmatico che ha voluto creare e che gli è sfuggito di mano da un mucchio di tempo (fino a diventare il multi-character di Todd Haynes nella summa capolavoro sulla sua essenza, I’m Not There). È una possessione? In parte. Alessandro Carrera, nel bellissimo saggio La voce di Bob Dylan (Feltrinelli), l’ha ricollegato al duende e a García Lorca. Allen Ginsberg sosteneva che Dylan fosse una colonna d’aria. Greil Marcus l’ha individuato nella sua affinità ancestrale con lo spirito delle antiche canzoni folk, non canzoni di protesta ma di mistero, più affini – queste sì, nella loro essenza – alle Metamorfosi di Ovidio che a Woody Guthrie (La repubblica invisibile, Arcana). Il mistero è lì ed è quello che il libro fatica a rintracciare, se non proprio a capire. Solo nella seconda parte Thomas sfiora quella sensazione di sconcerto o sbigottimento. È un peccato perché invece il lavoro fatto, ad esempio, intorno ai prestiti dai Tristia di Ovidio in Modern Times è interessante e davvero ci dice che il senso crepuscolare di tanti ultimi pezzi viene senz’altro da letture ciniche, desolate, epigrammatiche che aveva sotto mano, e che per certi versi hanno accompagnato il senso innato di perdita e di smarrimento di un tizio che s’è trovato al centro di tutto e s’è sempre sottratto al centro, al mondo, infine a sé stesso, in un autoesilio così impaurito da diventare forza. In Dylan trovi Virgilio, Svetonio, Verlaine per un motivo molto semplice: perché c’è tutto. C’è, soprattutto, Dylan.