Come raccontare Michael Jackson
Il rapporto tra arte e vita, destino collettivo e individuale, genio e abuso nella biografia di Margo Jefferson.
Il rapporto tra arte e vita, destino collettivo e individuale, genio e abuso nella biografia di Margo Jefferson.
A lungo l’America ha sentito il bisogno di trovare un erede inoffensivo per Michael Jackson. Questo tentativo si è intensificato dopo la sua doppia morte: la prima risale al 1993 durante il processo per abuso sessuale di minore, mentre la seconda morte, quella biologica, iperbarica, dopata, grottesca, è avvenuta nel 2009. Adesso che siamo nell’era della sua terza morte, in seguito al documentario Leaving Neverland prodotto da HBO in cui emerge un resoconto dettagliato delle violenze sessuali perpetrate contro due minorenni entrati nel suo cerchio di fiducia, di eredi forse non si parlerà più.
Fino a qualche tempo fa però questo desiderio è stato ben percepibile. È successo prima con Justin Timberlake – chiamare un artista bianco a raccogliere il testimone di Michael Jackson ha tutta una serie di conseguenze simboliche, a maggior ragione perché i rapporti tra blackness e whiteness sono sempre stati una questione centrale nel suo universo musicale, tanto che ci ha scritto un pezzo da classifica sopra – e poi in forma minore con i vari Bruno Mars di turno. Artisti che nonostante l’estro e il talento non sarebbero mai potuti diventare i Re del Pop: per via dei cambiamenti strutturali in un’industria musicale sempre meno colossale, e anche per tutte le ragioni che Margo Jefferson illustra nella sua raccolta di scritti Su Michael Jackson (66thand2nd, traduzione di Sara Antonelli).
Del moonwalker per eccellenza questi artisti educati e allenati non avevano la freakness né biologica né culturale, mentre la freakness di Jackson era capace di tenere insieme sia il soggetto ibrido di Donna Haraway che i personaggi edulcorati di Walt Disney. Non avevano ovviamente lo stesso genio musicale né l’istinto a intercettare desideri molto profondi e comuni nelle masse: l’infantilizzazione del sé, la capacità di sovrascrivere i limiti della propria esistenza, come se la vita fosse una festa e una bugia perenne. Da questo punto di vista, pur operando in un genere diverso, forse il vero erede di Jackson è Kanye West, non tanto per la sregolatezza e una medesima incapacità di capire quando una storia ha smesso di farci ridere, ma per lo sforzo di re-immaginare il curriculum obbligatorio dell’Artista Nero che Ce l’Ha Fatta, lo sforzo di violare l’ortodossia per cui bisogna rispettare innanzitutto la propria razza.
Dalla lettura del libro di Jefferson, è facile evincere che per creare un’esperienza pop così totale e travolgente e anche coerente in tutti i suoi aspetti, Jackson si è dovuto fidare moltissimo di sé stesso e dei suoi idoli pregressi; si è dovuto fidare della storia del pop – ha sposato la figlia di Elvis del resto –, quanto dei racconti perturbanti di Edgar Allan Poe. E più che vittima delle violenze di suo padre e delle umiliazioni subite da ragazzo, pare che a uccidere davvero Jackson e a renderlo orrorifico siano state tutte le conversazioni che non ha avuto mentre era impegnato a edificare il mito di sé stesso. Per essere un artista così ossessionato dall’alterità e dalla trasformazione e dal tentativo di recuperare l’alterità più radicale immaginabile per un adulto, quella dell’infanzia, è impressionante notare il solipsismo del suo percorso artistico e biografico.
Per creare un’esperienza pop così totale e travolgente e anche coerente in tutti i suoi aspetti, Jackson si è dovuto fidare moltissimo di sé stesso e dei suoi idoli pregressi.
Il movimento popolare e inconscio alla ricerca di un pop eclettico ma “puro” e mondato da ogni peccato che ha spinto a incensare gli epigoni minori di Jackson nasce da un fenomeno preciso: il bisogno che ci sia del talento (si veda la proliferazione contestuale dei programmi di questo tipo, e Jackson è stato un talent ambulante), il bisogno di provare lo stesso piacere dato dalla sua musica, ma senza tutta l’ambiguità che conteneva. C’erano troppe cose strane successe nella vita del ragazzino prodigio dei Jackson 5, troppe violenze prima subite e poi esercitate. E così per anni, su Pitchfork così come nei programmi di Oprah Winfrey, ci siamo subiti il “Come Michael Jackson, ma meno inquietante”, “Come Michael Jackson, ma senza tutta quella perversione e quel dolore”. È stata un processo di cicatrizzazione inevitabile, passato anche attraverso l’esaltazione di tanta mediocrità, eppure la ferita che andava a coprire non si è rimarginata benissimo. Lo dimostra appunto l’uscita di Leaving Neverland, ragion per cui Margo Jefferson ha scritto una prefazione a un libro scritto tempo fa e ora pubblicato in Italia. In realtà la ricerca spontanea di qualcuno che prendesse il posto di Jackson è stata utile perché ha esplicitato una domanda basilare: siamo capaci di immaginare una performance perfetta, un talento sublime e l’estroflessione del genio, senza tutto l’orrore e il sacrificio che queste cose sembrano comportare?
Di fatto, abbracciare Timberlake come Bruno Mars era un modo per avere Michael Jackson senza averlo. E questa malinconia della rinuncia, dell’ammirazione da sacrificare in nome dell’etica ma con la consapevolezza di un anelito bruciante e persistente per quel che Jackson è innegabilmente stato, si percepisce molto nei saggi di Jefferson. Che è consapevole di avere ancora una cosa, anche quando non la vuole più.
Nella sua puntuale e “forzata” introduzione, Jefferson tocca vette di crudeltà, e lambisce il confine incandescente della questione, che è anche quella sollevata dal #metoo: abbiamo risposte stanche su come funziona il rapporto tra arte e vita. È stanco dire che mandare in onda i film o ascoltare le canzoni di un predatore sessuale è diseducativo per il pubblico e innesca meccanismi imitativi. È stanco dire che l’arte si affranca da tutto e che appartiene a un ordine diverso rispetto a quello in cui operano morale, etica e in fondo anche la legalità.
Non sono stanche invece le domande, il tentativo collettivo di capire, e non come esercizio creativo sterile, ma perché da queste domande passa la formulazione di un nuovo vocabolario con cui possiamo parlare del rapporto tra genialità e abuso, tra immaginario collettivo e turpe destino individuale. È solo attraverso queste domande, che Margo Jefferson sa porre e aiutano a distinguerla tra la miriade di persone intervenute a parlare di Jackson o di #metoo senza alcun rigore critico e solo in preda alla smania dell’intervento, che riusciamo a capire perché sentiamo il bisogno di salvare sempre qualcosa in mezzo al resto, perché vogliamo venire a patti con questa parte di amore che in noi ancora esiste, per Woody Allen come per Kevin Spacey come per Michael Jackson.
Nella sua puntuale e “forzata” introduzione, Jefferson tocca vette di crudeltà e lambisce il confine incandescente della questione: abbiamo risposte stanche su come funziona il rapporto tra arte e vita.
Si dirà che è scorretto mettere uomini dalle carriere e i percorsi diversi nello stesso calderone, che esistono linee di demarcazione diverse tra fatti, testimonianze, ricordi e azioni, ma gli effetti pubblici del loro smascheramento sono gli stessi. Perché spingono allo stesso gesto: quello di spegnere la radio, staccare i poster dal muro, abiurare gli idoli di un tempo oppure al gesto di difenderli a spada tratta, per essere bastian contrari o un po’ perché alla fine difendere loro è come difendere sé stessi. Dopo l’uscita di Leaving Neverland, dopo le difese appassionate di Jackson da parte dei suoi fan, era facile pensare che quelle masse adoranti volessero negare l’evidenza per tutelare un’idea di sé nel proprio passato. Non era del tutto corretto, forse: a volte subentra il sospetto che la difesa non fosse verso qualcosa in cui queste persone avevano creduto, ma verso il sé che potevano diventare, una difesa della mostruosità che non si era ancora svelata e potrebbe invece manifestarsi un giorno nella vita, magari in base a imprevisti solleciti. È questo il problema di fondo con certe apologie dei geni irregolari, violenti o predatori: nella parte più oscura di cui sono composte, nei loro gangli nerissimi talmente potenti da ignorare il racconto o l’esperienza delle vittime, per quanto questi siano struggenti o devastanti, simili difese riecheggiano un “poteva succedere anche a me”. (Il che, volendo soffermarsi sulla forma, è una frase che pronunciano sia le vittime sia i potenziali aggressori).
Poteva succedere anche a me di non sapere esercitare un controllo, di leggere male un contesto o, come nel caso di Michael Jackson, di inventare quel contesto di sana pianta, fondando un’isola che non c’è in cui vivere in base alle proprie regole.
Leggere Su Michael Jackson nell’era della sua terza morte, affrontare uno scritto che appartiene a un tempo anteriore, fatto di ammirazione e amore per l’artista ma anche di profonda consapevolezza per le manipolazioni di cui Jackson era capace, crea una straniante interferenza che trasforma completamente l’esperienza della lettura. Dopo i fatti recenti, esporsi con una prefazione era auspicabile, ma cosa chiede Jefferson al lettore scrivendola? Se questo libro è stato scritto per entrare nel mondo di Jackson, la prefazione si chiede come uscirne. Sovverte la sequenza di lettura, e accomoda la bellezza della musica di Jackson, la sua vitalità circense e rivoluzionaria, in un contesto diverso, frammentato. Volendosi soffermare solo sulla vitalità e il mito, Jefferson si rivela una campionessa e il suo potrebbe essere un modello per come si racconta un artista o una vita, attraverso la prossemica del corpo, il tentativo di capire da dove viene davvero questo alieno (tanto dallo showman Barnum quanto dal padre che lo picchiava, di fatto), liberandoci dal dominio della psicologia per dimostrare quanti più padri e madri ci siano nei film che abbiamo visto e nei libri che abbiamo letto rispetto a quelli che ci hanno convenzionalmente cresciuto (e Jackson è stato un padre a sua volta, ovviamente, per tanti fan e tanti bambini). In questo realizza qualcosa di simile a una mitobiografia alla Audre Lorde, ma per interposta persona. Ci sono tanti miti avulsi dalla storia in questo libro, e tanta storia in cui il mito collassa.
Dopo aver smesso di ascoltarlo, di pensarci, dopo aver manifestato la rabbia e anche l’odio nei suoi confronti, Jackson potrebbe tornare.
E appunto perché è un libro che parla di un genio del pop che ha inventato un nuovo linguaggio, e per l’originalità dell’approccio con cui Jefferson riesce a orientarci in una biografia complessa, che c’è un solo elemento problematico qui: quando in chiusura all’introduzione, Jefferson rivela che Michael Jackson potrebbe tornare. Dopo aver smesso di ascoltarlo, di pensarci, dopo aver manifestato la rabbia e anche l’odio nei suoi confronti, Jackson potrebbe tornare. E chissà che in questo ritorno non ci sia un’illuminazione.
La scelta del termine “illuminazione” è interessante – per chi ha visto il documentario è anche brutale –, anche se chiaramente non è una sorpresa. È una parola che rimanda a un registro biblico, e dimostra che in queste situazioni di conflitto ripariamo spesso nei territori del sacro, così come per l’accusa ci rivolgiamo spesso al mondo animale, o all’ambito del mostruoso.
Ma se ci affidassimo ad altri campi semantici? Non sappiamo ancora da dove arriveranno nuove metafore e analogie, altre immagini per descrivere gli anni che stiamo vivendo dopo il #metoo. Non sappiamo se usciremo mai dalla dialettica luce e buio, da Dostoevskij e dalla Bibbia, eppure il tentativo di farlo è evidente, è davvero uno sforzo collettivo per cui abbiamo bisogno anche di Margo Jefferson. Che con la sua chiusura ci spinge a chiederci: davvero abbiamo bisogno di questa illuminazione? In un mondo in cui viene fatta una continua decostruzione del concetto di carnefice e quello di vittima, a furia di sgrassare e mondare, isoleremo mai una parte di noi che si salverà dal processo estenuante della problematizzazione e sapremo usare un linguaggio netto, chiaro, meno retorico di tutta la complessità e ambiguità che attribuiamo al male, quando di fatto il modo in cui lo raccontiamo questo male non ha fatto che rendersi pigro e banale?
Alla fine di Su Michael Jackson, che libro pigro e banale non è, ma è elettrificato in ogni sua parte, il lettore potrà chiedersi se sarà morale mai, da artisti, da essere umani, dichiarare che di questa illuminazione non abbiamo bisogno. E soprattutto se quella cosa che perderemo, perché in questa dichiarazione qualcosa perderemo, sapremo mai tollerarla.