I l nuovo Suspiria potrebbe riassumersi con un oggetto: il pot-pourri. Ricco e camp come piace a Guadagnino, il film straborda di fragranze superflue. Di difficile inquadramento per i non adepti dell’originale, Suspiria 2018 non è né un remake né un sequel né un prequel, ma una reinterpretazione del mito inventato da Dario Argento nel 1977.
Una delle possibili chiavi di lettura, di accesso e apprezzamento del lavoro di Guadagnino è racchiusa alle porte del film. La storia di Susie Bannion (Dakota Johnson) comincia su una banchina della metropolitana, dove la ragazza, giunta dall’Ohio a Berlino per sostenere un provino presso l’accademia di danza “Markos”, aspetta il treno. Siamo nella stazione di Pankstraße, nell’esteso quartiere di Wedding nel nord-ovest della città, che fu inaugurata nell’ottobre del 1977, lo stesso anno in cui è ambientato il film. Per un cortocircuito della memoria, viene naturale associare a questa scena la colonna sonora originale dei Goblin, in realtà totalmente assente nella versione attuale. Ma il collegamento ci dice che le nuance atmosferiche in apertura di Suspiria 2018 sono speculari a quelle di Suspiria 1977, dove Jessica Harper (l’allora Susie) atterra all’aeroporto di Monaco. Se nell’originale i toni erano più acidi, e più acuto quando non kitsch il presentimento di terrore, nel Suspiria di Guadagnino impressiona soprattutto l’accuratezza storico-scenografica. Rimasta inalterata dalla sua costruzione, la stazione metropolitana di Pankstraße non è tra le più ardite della città (molte stazioni sono note per mosaici o decorazioni elaborate come Paulstern Straße, Rathaus-Spandau o Konstanzer Straße) eppure l’insegna che annuncia il nome della fermata veicola sia il gusto peculiare di quegli anni (il font è l’arzigogolato corsivo Octopuss, disegnato dal grafico inglese Colin Brignall per Letraset nel 1970), sia il guizzo folle di una città nota per come sa uscire dagli schemi – soprattutto “sottoterra”. Come accade davvero presso la fermata in questione, la folata calda spinta dal treno in arrivo si scontra con l’aria gelida che serpeggia dagli ingressi in superficie, gettando per terra la mappa di Susie nonché la sua proprietaria nel disorientamento tipico della nuova arrivata. Solo allora, in alto, su un’insegna che comunica la direzione del treno, notiamo scritto in rosso il titolo del film, in sobrie e funzionali lettere da segnaletica stradale. Le piastrelle vinaccia che ricoprono pareti e soffitti della stazione, insieme alle superfici di grigi, antrace e metalli che compongono pavimenti e pannelli definiscono così in un istante la tavolozza cromatica ed emotiva di Suspiria 2018 e, allo stesso tempo, di Berlino come metropoli “sotterranea”.
Pregio massimo (se non unico, a voler essere severi) del Suspiria di Guadagnino è la ricostruzione di Berlino, sia a est che ovest, e soprattutto, sia nella realtà che nella finzione. Per quanto riguarda quest’ultima bisogna dirigere l’attenzione verso la protagonista Susie e il corpo di ballo e di docenti-streghe coinvolti nella pièce di danza intitolata “Volk”, le cui prove forniscono la principale linea narrativa. I luoghi in cui camera e sguardo sostano principalmente sono quelli dell’accademia di danza, posizionata nel film proprio a ridosso del muro di Berlino ma ricreata, sia negli interni che negli esterni, in un albergo disabitato nella provincia di Varese, il Grand Hotel Campo dei Fiori.
L’edificio, per com’è installato nel tessuto urbano e cinematografico del film, rimpiazza l’immagine del pot-pourri come metafora critica. In altre parole, il suo collocamento letteralmente innanzi al muro eretto per dividere la città sta all’ansia chiarificatrice e accumulatrice del regista come la facciata scenografica della scuola sta alla sua sensibilità estetica. Suspiria non tratta infatti solamente di streghe e plié, ma è rimpolpato da diversi motivi: l’Autunno Tedesco con Baader Meinhof, Rote Armee Fraktion e attentati vari; la fresca memoria della seconda guerra mondiale e dell’olocausto; il femminismo della seconda ondata; la guerra fredda nella città divisa. Per evidenziare questo già non semplice crocevia di temi, il fulcro della vicenda è architettonicamente situato di fronte all’unico “landmark” berlinese universalmente noto, il muro.
A stemperare questa scelta grossolana, in un film che rifugge la volgarità, arrivano la facciata e l’insegna della scuola, “Tanz”: due caratteristiche scenografiche che da una parte riallacciano i legami interrotti con l’originale di Dario Argento, dall’altra rimandano a un edificio che – questo sì e oggi ancor più del muro – significa Berlino per chi conosce la città. È la Volksbühne, letteralmente “palcoscenico del popolo”, teatro progettato negli anni dieci del secolo scorso dall’architetto Oskar Kaufmann e ricostruito dopo i bombardamenti da Hans Richter, tra i promotori del Neuen Bauens soprattutto a Dresda. Nel film, centro diegetico è la coreografia “Volk”, concepita durante il nazismo come forma di resistenza dalla direttrice della scuola (Tilda Swinton) e giunta alla sua ultima interpretazione pubblica con l’arrivo di Susie. Con piglio similmente politico, la Volksbühne fu costruita grazie alle donazioni dell’associazione dei lavoratori e continua ad essere, soprattutto dopo la fine della DDR, luogo in cui l’avanguardia teatrale è al servizio dell’accessibilità e del pubblico. In Italia Suspiria è pubblicizzato con lo slogan “Tremate, tremate, le streghe sono tornate”, il cui impiego se non è un po’ irrispettoso nei confronti di chi lo gridò davvero, senz’altro mal connota il film con toni vagamente comici. Le uniche scene che riprendono docenti e alunne insieme in una location diversa dall’accademia — le ragazze in libera uscita che spiano le professoresse, un baccanale per festeggiare la prima dello spettacolo — veicolano solo superficialmente una sfumatura disimpegnata e hanno entrambe luogo presso l’iconico Paris Bar, che da quarant’anni offre servizio spocchioso e menù francese alla clientela benestante e artistoide di Charlottenburg, oggi più senior che junior. Così, al netto delle due ore e mezza di film, osservando il personaggio principale di Susie siamo costretti soprattutto tra le mura di un edificio fittizio.
È in realtà la trama secondaria del dottor Klemperer a mappare principalmente la scenografia berlinese di Suspiria. Lasciato lo studio nella parte occidentale della città, lo psichiatra (anch’egli interpretato dalla Swinton) raggiunge svariate volte la dacia che possiede a est. Il suo percorso diventa un pellegrinaggio a ritroso verso luoghi e ricordi felici distrutti dalla guerra, attraverso edifici storici come la frontiera metropolitana di Friedrichstraße, il Moskau Café, Strausberger Platz e la Karl Marx Alle, fino alla deviazione verso sud di Plänterwald. Seguiamo il professore nel cosiddetto Tränenpalast, il “palazzo delle lacrime” dove i cittadini di Berlino est erano costretti a separarsi da quelli dell’ovest. Proseguiamo lungo la Karl Marx Allee, costruita sulle macerie da operai che poterono accedere a una lotteria per abitare i prestigiosi appartamenti altrimenti riservati alla classe dirigente. Lì, di fronte all’amato cinema Kino International – una sorta di navicella spaziale cubica, bellissima quanto scomoda e ancora frequentatissima – è ripresa dal basso l’insegna in cirillico del Cafè Moskau. Come il cinema, il bar era una delle attrazioni “borghesi” dell’austero vialone che parte dal centro della città, Alexanderplatz, e arriva fino alla periferia dei plattenbau sovietici. Aldo Rossi lodò l’architetto responsabile, Hermann Hanselmann, per aver ideato l’ultimo boulevard d’Europa; lo stesso che lo scorso dicembre è stato strappato dagli inquilini all’impresa immobiliare Deutsche Wohnen che ne aveva tentato l’acquisto.
L’architetto Hanselmann fu anche l’autore dell’“Alex”, l’acuminata torre della televisione ora onnipresente in qualsiasi stilizzazione dello skyline cittadino. Sebbene questa sia oggi tra le costruzioni più amate e riprodotte insieme alla Porta di Brandeburgo, non è ancora stata rappresentata in maniera tale da definire la natura della città, perlomeno nell’immagine in movimento. Le ragioni possono essere diverse. Senz’altro la “riqualificazione” della parte ex-sovietica di Berlino, dove sorge la torre, è ancora relativamente recente e dunque non eloquentemente presente nel cinema degli ultimi decenni. Un secondo principale motivo può essere ricondotto all’eredità egualitaria della città, che continua a essere vissuta orizzontalmente, letteralmente con i piedi per terra (vedi uno, tra i molti esempi, dei residenti che bloccano la costruzione del quartier generale di Google a Kreuzberg). Casualmente o forse no, tra i topoi ricorrenti e riconoscibili c’è la metropolitana, iconica come l’Alex anche se meno spettacolare. Il direttore della fotografia di Suspiria, Sayombhu Mukdeeprom, racconta infatti che gli esterni in cui la troupe ha trascorso più tempo sono stati i ponti: sia sopra quelli “classici” che sotto quelli su cui scorre la metropolitana sopraelevata che taglia in due la città, perpendicolarmente alla linea divisoria dell’ex-muro. La U-Bahn diventa così un serpentone sotterraneo che connette e nasconde, che concede quando non promuove attività illegittime ma non per questo davvero pericolose o nocive: uno spazio in movimento e che permette pure, per alcuni tratti, di spostarsi e osservare la città a diversi metri da terra. Non scalando un grattacielo esclusivo con un ascensore di cristallo ma sfrecciando in lungo e in largo con un semplice biglietto della metropolitana.
A differenza della megalopoli cinematografica per eccellenza, New York, o delle città eterne come Parigi e Roma, a causa dei radicali cambiamenti subiti Berlino è una città di più complessa ricreazione topica ma chiaramente non per questo assente nella storia del cinema. Scomparso o trascurato il muro — che inglobava anche l’altro monumento noto, la porta di Brandeburgo — non spiccano landmark che lo spettatore possa riconoscere senza aver visitato la città di persona. L’unicità storico-sociale, addirittura estetica, della scenografia-muro ha fatto sì che lo si ricostruisse artificialmente e insistentemente ancora dopo trent’anni dalla caduta, costringendo Berlino perlopiù al servizio del genere storico o d’azione. Pure nel glorioso horror Possession (1980, atmosfere in comune con Suspiria 2018), Andrzej Zulawski può giustificare la follia di Sam Neill che deambula ridosso il muro di Sebastianstraße solo assegnandogli la professione di spia.
I cult di Berlino agli apici durante la Repubblica di Weimar collocano la città a due estremi: l’archetipo dell’urbano fantascientifico di Metropolis (Fritz Lang, 1927) e il catalogo del quotidiano in Menschen am Sonntag (Billy Wilder, 1930). Nel primo caso la capitale fu solo indirettamente ambientazione di un immenso capolavoro scenografico, perlopiù ricostruito in un’ala degli studi di Babelsberg estesi per l’occasione. Al contrario, nel secondo caso il set è la città, e la città è il film, che segue cinque non attori professionisti intenti a ricreare più o meno verosimilmente le proprie attività domenicali durante una giornata estiva. Menschen am Sonntag comincia nei pressi di una delle stazioni metropolitane più trafficate, il Bahnhof Zoo noto per il memoir di e poi film su Christiane F. Berlin Alexanderplatz ancora, nella prima trasposizione del 1931 del romanzo di Alfred Döblin, si impernia proprio sull’omonima piazza dove il protagonista lavora come venditore ambulante (la versione televisiva di Fassbinder del 1980, invece, fu tutta ricostruita in studio a Monaco). Tra i primi film popolari realizzati nella città già separata ma non divisa dal muro si distinguono Die Halbstarken (1956, Georg Tressler) e Berlin Ecke Schönhauser (1957, Gerhard Klein), produzioni rispettivamente della Germania occidentale e della DEFA, il Luce della fu DDR. Die Halbstarken è percepito come la risposta tedesca a Gioventù bruciata e sebbene non riveli palesemente la città o riferimenti architettonici come il Griffith Observatory, è possibile rintracciarvi l’ambientazione berlinese grazie a diversi “cameo segnaletici” dell’azienda dei trasporti pubblici. Berlin Ecke Schönhauser rappresenta invece la variante socialista del primo, volto da una parte a demistificare i teddy boys di fattura germano-federale (verrebbe da dire paninari, ma non è storicamente corretto), dall’altra a celebrare l’atteggiamento ribelle tipico della sottocultura giovanile che la repubblica socialista vendeva come valore nazionale. Il film si svolge interamente sotto il ponte della stazione di Eberswalderstraße, non lontano da dove scorreva il muro, dove la metropolitana emerge dal sottosuolo per lanciarsi verso est e oltre.
Agli inizi del Duemila film pluri-visti e premiati come Goodbye, Lenin!, Le vite degli altri, La caduta hanno contribuito a riproporre Berlino come set cinematografico e turistico, assimilandola a realtà parallele o nascoste rispetto al corso “in superficie” degli eventi storici. Una produzione tedesca che cercò, inconsapevolmente in contrasto con i titoli appena citati, di raccontare una storia indipendente dal passato cittadino è Lola corre (1998, Tom Tykwer). Berlino si estende per quasi 900 km², una superficie impossibile da coprire velocemente. È questa, grosso modo, l’impresa compiuta da Lola per salvare il fidanzato e che la porta ad attraversare i maggiori e opposti quartieri della città in venti minuti. Viva il montaggio e viva, quasi vent’anni dopo, il digitale, che permette di girare senza interruzioni: un unico piano sequenza costituisce Victoria (2015, Sebastian Schipper), dove un pugno di strade tra Friedrichstraße e Charlottenstraße contengono un tour de force simile a Lola corre. Se là, riguardando il film oggi, la città poteva emergere a vera e nuova protagonista, qui è la cinepresa l’unica eroina memorabile. Eppure entrambi i film disegnano una psicogeografia a suo modo fedele allo spirito cittadino, e senza chiamare in causa l’ormai famigerato muro. È ironico e forse profetico, ma l’opera che consacrò Berlino come Città Cinematografica—Il cielo sopra Berlino (1987)—ricostruì artificialmente parti del muro poiché era vietato filmare nei pressi di quello reale.