S e cercate Valentina Magaletti su Wikipedia, la trovate nella versione anglofona, non in quella italiana: indizio inequivocabile della dimensione internazionale in cui agisce la batterista di origine pugliese, emigrata a Londra agli sgoccioli del secolo scorso e divenuta nel tempo protagonista di spicco nel circuito indipendente della capitale britannica. “Vivo qui da 24 anni e il mio italiano è diventato piuttosto scabroso: nonostante mi sforzi di leggerlo, ho perso l’abitudine di parlarlo. La mia compagna è francese, in Italia ci vengo solo per andare a trovare i miei genitori e fare concerti, perciò le conversazioni in lingua sono piuttosto essenziali”, dice quasi scusandosi in collegamento dall’appartamento in cui abita, dalle parti di Islington. La zona di provenienza è invece Carrassi, quartiere residenziale a sud di Bari Vecchia: la sua avventura cominciò là, in maniera del tutto istintiva. “Per me la scoperta del ritmo è stata una cosa naturale: a scuola battevo il tempo con le matite, che mi venivano regolarmente confiscate. Citando un maestro come Milford Graves, nasce dal battito del cuore: è qualcosa di corporale, non riguarda la percezione razionale. Credo sia una dote innata, ha lo stesso valore della parola e di qualsiasi altro senso: è un modo per comunicare, una forma di scambio energetico. La consapevolezza del talento è venuta molto più in là, quando mi sono resa conto di poter ispirare gli altri attraverso le emozioni”.
Mi colpì tantissimo vedere una band di sole donne fare musica e divertirsi, perché la musica era un affare prettamente maschile.
La batteria è uno strumento difficile da gestire, soprattutto – per ovvie ragioni – su scala domestica. E infatti: “Non arrivò subito: prima i miei genitori, che pure mi assecondavano, volevano sincerarsi che non fosse un’infatuazione passeggera. Così m’iscrissero a un corso di batteria quando avevo nove o dieci anni, approfittando del fatto che c’era una scuola di musica vicino a casa, e solo due o tre anni dopo mi permisero di possederne una, anche per questioni di spazio e di rumore”. Frattanto la sua educazione musicale seguiva canali convenzionali anziché no: “Ricordo ‘DeeJay Television’, a metà anni Ottanta, e il video di Walk Like an Egyptian delle Bangles: mi colpì tantissimo vedere una band di sole donne fare musica e divertirsi, stesso effetto che mi fecero anche le Bananarama, perché la musica – al Sud in particolare – era un affare prettamente maschile. Così mi si aprì un mondo. Poi c’erano i miei cugini più grandi, appassionati di punk e cose gotiche: attraverso loro arrivai ai Cure, il cui concerto del 1989 alla Stadio della Vittoria è stato fondamentale per me, ne sono stata influenzata moltissimo. A parte l’emozione di ascoltare le canzoni che amavo, ricordo di aver avuto per la prima volta la sensazione di potermi soffermare sui dettagli, scomponendo le singole parti di basso, chitarra e batteria: era come musica sinfonica di cui percepivo il processo compositivo, l’intreccio di melodie e armonie. Questo stimolò la mia curiosità. Poi, nello stesso posto, vidi Miles Davis: era la tournée di Tutu, ma non mi piacque e addirittura mi allontanò dal jazz, che in seguito è stato invece importante nel mio processo di formazione”.
Il raggio d’azione era ancora limitato al circondario: “La prima band fu con altri ragazzi che vivevano nel mio stesso condominio: suonavamo in cantina rock psichedelico e ‘prog’, perché a me il quattro quarti annoiava e preferivo i tempi dispari. Facevamo cose nostre e anche cover, tipo Forbidden Colours di Sakamoto e Sylvian, Rain dei Cult, Eyes Without a Face di Billy Idol e Heart of Glass di Blondie”. A incoraggiarla arrivò a un certo punto Agostino Marangolo, il batterista dei Goblin: “Venne a fare un workshop a Bari, mi sentì suonare e mi spinse a continuare: un riconoscimento che mi diede entusiasmo”. Altra figura essenziale in quel periodo fu Nicola Conte, Dj e musicista locale di una certa fama: “Lo stimo tantissimo, è molto capace e tenace: fu uno dei primi artisti pugliesi a imporsi su larga scala, arrivando a firmare un contratto con Blue Note, l’etichetta discografica dei suoi sogni. In quegli anni mi è stato di grande sostegno, insistendo perché facessi musica e nient’altro. Fu lui a farmi allontanare dal rock: diceva che altrimenti mi sarei rovinata i polsi, ma soprattutto mi fece ascoltare i dischi di Albert Ayler e Letta Mbulu, introducendomi al jazz spirituale, da cui non mi sono più staccata. Nicola aveva una serata itinerante chiamata ‘Fez’ che girava nei club della regione e ospitava giovani band locali, una delle quali era il Sestetto Nuovo in cui suonavo io”. L’habitat territoriale era rassicurante, ma la stava soffocando: “Ho capito abbastanza in fretta di dover andare via: la realtà musicale barese era angusta e quindi inevitabilmente incestuosa, visto che alla fine tutti suonavano con tutti. Anni prima ero stata a Londra con la scuola e mi aveva impressionato, senza dimenticare che da adolescente ascoltavo in prevalenza musica inglese, dai Cure agli Smiths, dunque non ho avuto molte esitazioni a sceglierla come meta quando si è trattato di andarmene da Bari. Mi stavo per laureare in Giurisprudenza e la scusa per andare là fu un master di specializzazione, che in effetti frequentai, mentre mi mantenevo con qualche lavoretto e cominciavo a intrufolarmi nella scena musicale”.
Quando fai questo lavoro da tanti anni, sviluppi una certa ‘attenzione sociale’: nella musica e in altri ambiti creativi bisogna essere in grado di percepire l’energia che emana chi hai davanti, la sua vibrazione.
Dopo di che, in casi del genere, diventa essenziale scegliere bene i compagni di viaggio: Valentina fu brava e fortunata. “Ero diventata amica di Kevin Davy, trombettista che collaborava con i Lamb, un duo trip hop di successo sulla scia di Portishead e Massive Attack: passai addirittura un’audizione per suonare con loro, ma dovevo tornare a Bari per laurearmi e quell’opportunità sfumò. Dopo un po’ entrai negli Econoline, una band post rock stile June Of 44 con cui nel 2002 facemmo una session radiofonica da John Peel, un onore per qualsiasi musicista indipendente, e poi arrivai agli Oscillation, dove conobbi Tom Relleen, con il quale in seguito creai il progetto Tomaga, che sarebbe durato quasi dieci anni, fino alla sua morte. Insieme ci rendemmo immediatamente autosufficienti: eravamo entrambi musicisti a tempo pieno e Tomaga diventò il nostro lavoro. Facevamo musica totalmente libera e riuscivamo a viverne”. La scomparsa di Tom, deceduto nell’agosto 2020, ha lasciato un vuoto difficile da colmare: “È una perdita che devo ancora metabolizzare. Mi manca immensamente: a parte la musica, giocavamo persino a tennis insieme. In archivio è rimasto un ultimo disco dei Tomaga, ma non ho avuto ancora la forza di ascoltarlo”. Era una simbiosi artistica e umana di rara intensità, determinata da un riconoscimento reciproco ed espressa nel nome che si erano dati: Tom + Maga = Tomaga. Le chiedo quale sia il criterio con cui sceglie i partner con cui fare musica. Risponde: “Quando fai questo lavoro da tanti anni, sviluppi una certa ‘attenzione sociale’: nella musica e in altri ambiti creativi bisogna essere in grado di percepire l’energia che emana chi hai davanti, la sua vibrazione. Diciamo che è una questione ‘chimica’, anche se non può prescindere dal reciproco gradimento artistico. E poi adesso che sono in una situazione privilegiata, posso permettermi di declinare le offerte che non mi coinvolgono per ragioni artistiche o sono impraticabili per questioni logistiche o di tempo”.
Eppure ciò che di lei più impressiona è la quantità di progetti nei quali è implicata. A inizio luglio, durante l’ultima edizione del festival milanese Terraforma, compariva nel programma tre volte: da solista (“Alle dieci di mattina, quasi esclusivamente al vibrafono, mentre la gente faceva yoga”), in trio con gli inglesi Raime come Moin e al fianco dell’artista di origine iraniana Lafawndah, con la quale già aveva collaborato nel 2019 per una performance ospitata nel padiglione francese alla Biennale di Venezia. A impegnarsi su così tanti fronti, accanto a musicisti differenti, non si corre il rischio di smarrire la propria identità? “No, perché a rappresentarmi individualmente c’è l’attività da solista: in quel caso esprimo esclusivamente me stessa. In duo, nei casi di Tomaga, Holy Tongue, con Al Wootton, e CZN, progetto di sole percussioni con João Pais Filipe, lo faccio invece insieme a qualcun altro. E in trio, nei Frequency Disasters con Steve Beresford e Pierpaolo Martino, o nel quintetto Vanishing Twin mi rimpicciolisco ancora un po’, ma sono comunque io. Il fatto è che una band rappresenta sempre un’entità superiore alla somma delle persone che la compongono: questo mi affascina”. Sul piano espressivo, poi, colpisce la varietà di linguaggi musicali con cui si misura: dal pop esoterico dei cosmopoliti Vanishing Twin alla pura improvvisazione sperimentata con Beresford, veterano della “free music” d’oltremanica, fino alle vestigia post punk esplorate con Holy Tongue.
Una band rappresenta sempre un’entità superiore alla somma delle persone che la compongono.
A guidarne il cammino sono alcune stelle polari: grandi jazzisti armati di bacchette (“Oltre a Milford Graves, che già citavo, i mostri sacri tipo Art Blakey ed Elvin Jones”) e i capiscuola del minimalismo (“Un’influenza importante è stato Drumming di Steve Reich, così come Terry Riley”). Tra i maestri da lei riconosciuti figura Jaki Liebezeit, batterista dei Can, del quale si trovò a occupare il posto – insieme a Steve Shelley – a quattro mesi dalla scomparsa, in occasione del “Can Project” andato in scena nel maggio 2017 al Barbican di Londra. “È stato un grande privilegio partecipare: ero stata raccomandata da Charles Hayward dei This Heat a Thurston Moore, che stava curando il progetto insieme all’altro ex Sonic Youth Steve Shelley e aveva già coinvolto Debbie Googe dei My Bloody Valentine, una band che seguivo da ragazzina. Sembrava il Fantacalcio: costruisci la formazione perfetta! L’unica riserva è che personalmente avrei preferito mettere l’accento su altri album dei Can, rispetto a Monster Movie, che in fondo è abbastanza rock: sarebbe stato fantastico rifare Tago Mago o Ege Bamyasi. Detto questo, contentissima di esserci stata ed è stato un peccato non poterlo replicare altrove, siccome Malcolm Mooney, il cantante dei Can, vive in Canada ed è in là con gli anni”.
Se per localizzarne il talento può essere utile riferirsi a modelli preesistenti, è bene d’altra parte evidenziare quanto Valentina Magaletti stia esprimendo in modo sempre più originale e convincente la propria personalità artistica. Un buon esempio è l’esperienza detta Batterie Fragile. “Riguarda un concerto che ho fatto nel 2017 al Musée des Beaux-Arts di Tours, dove si trova questo pezzo incredibile creato dall’artista francese Yves Chaudouët: una batteria in porcellana, materiale fragilissimo applicato a uno strumento che per abitudine si ritiene debba essere percosso con vigore virile. Un’idea fantastica! L’ho suonata dentro il museo e il set è stato registrato per essere stampato su un vinile a dieci pollici: mi sono concentrata sull’attrito che altri materiali, dai metalli alla gomma e al legno, potevano generare al contatto con la porcellana. Dopo l’acquisizione dell’opera da parte del museo, Yves ne ha realizzata un’altra esclusivamente per me: a settembre uscirà un disco in cui la uso”. Nella sua azione c’è poi una dimensione che potremmo definire “politica”, simboleggiata dall’intestazione di una performance individuale realizzata al Cafè Oto di Londra, A Queer Anthology for Drum: “Una dichiarazione di diversità e inclusione espressa attraverso un approccio differente allo strumento, allontanandosi dalla convenzione che ingabbia la batteria. Mi piace rompere gli schemi e variare l’assetto stesso del kit: niente piatti, la cassa sollevata da terra e così via”. Ciò evidentemente confuta il luogo comune secondo il quale la batteria è strumento secondario, inadatto alla narrazione: “A suo modo parla invece, come qualsiasi altro strumento, ad esempio il pianoforte, anch’esso a percussione. Io con la batteria racconto storie. Per me, e lo dico anzitutto da ascoltatrice, la differenza la fanno i batteristi capaci di comunicare, al di là della bravura tecnica, che in sé non costituisce un valore assoluto”.
La differenza la fanno i batteristi capaci di comunicare, al di là della bravura tecnica, che in sé non costituisce un valore assoluto.
Interrogarla su quale sia il progetto che più ha a cuore attualmente fra gli innumerevoli in cantiere è fatica sprecata: “Sono letteralmente estasiata dalle cose che sto facendo: da ascoltatrice compulsiva quale sono, i prossimi album in cui sono coinvolta mi eccitano tantissimo. Non voglio essere disonesta intellettualmente, ma è davvero così e sono grata di partecipare a tutte queste esperienze, che non solo mi rappresentano ma mi entusiasmano. Perciò mi è impossibile indicarne uno in particolare: di sicuro non vedo l’ora di presentare il disco di Holy Tongue, perché ogni volta che suoniamo dal vivo miglioriamo. Da tempo è in preparazione poi una produzione esclusiva per Blume Editions, collana in cui a un musicista viene associato un colore Pantone: nel mio caso il Corallo, abbinato alla registrazione di un’altra performance al Cafè Oto. Intanto è appena uscita su cassetta per l’etichetta australiana A Colourful Storm La tempesta colorata, mentre in futuro, sempre a proposito di Australia, ho un lavoro in duo con Laila Sakini, artista originaria di Melbourne che stimo tantissimo, e un altro insieme a Zongamin, bassista dei Vanishing Twin ed eccellente produttore, che uscirà per AD 93, la stessa etichetta di Moin: una divagazione fra post punk e no wave con un mucchio di ospiti. Non so bene quando tutte queste cose verranno fuori, però: adesso c’è il collo di bottiglia costituito dal sovraccarico di lavoro che colpisce le aziende che pressano il vinile”.
Intoppo mercantile aggravato oltremanica dagli effetti della Brexit. A proposito, come hai vissuto la separazione? “Ho doppia cittadinanza, quindi sul piano burocratico sono a posto, ma in termini sociali e culturali è stata una vera tragedia: tipo l’elezione di Trump. La politica m’interessa poco, ma su questioni del genere non si può soprassedere: l’ho vissuta malissimo. Un quarto delle persone che hanno votato ‘leave’ nel frattempo sono morte, siccome erano ultraottantenni: è il loro regalo alle giovani generazioni”. E dell’Italia ti manca qualcosa? “Trovo che l’ospitalità sia ineguagliabile, dal cibo al calore delle persone: ci verrei più spesso, potessi”. Com’è in senso musicale, osservata da Londra? “Io ho le mie ‘bolle’, che uso come punti di riferimento, molto distanti dal mainstream: non saprei proprio cosa va di moda lì adesso. Ma nel sottobosco ci sono realtà interessantissime: penso alla casa discografica Music à la Coque, fondata a Bari da Pino Montecalvo, oppure al tarantino Donato Epiro, con la sua etichetta Campi Magnetici. Di recente a Bologna ho incontrato Stefano Pilia, chitarrista eccezionale. E poi c’è il lavoro fantastico di Chiara Colli a “Battiti” su Radio 3, insieme a Pino Saulo: un canale fondamentale per la circolazione delle musiche non convenzionali”.