È
impossibile scrivere una biografia di Lou Reed. Una biografia è un flusso narrativo che raccoglie nel suo bacino una vita intera e la lascia far mostra di sé conferendole coerenza. Un gioco prospettico. Visti in prima persona gli eventi sono una sequela di casualità giustapposte che si abbattono con la cecità delle punizioni di un Dio crudele; imbrigliati in quattro parole scritte messe in fila, sembrano invece l’avverarsi di una profezia. L’uno il naturale svolgimento dell’altro. Tutto regge, ha senso, direzione. Una biografia mette insieme i pezzi. Ma i pezzi di Lou Reed non si incastrano.
C’è qualcosa di inaggirabile che rende impossibile delimitare i contorni della persona e del personaggio senza sbordarne fuori. E non è il “Sono vasto, contengo moltitudini”, come diceva di sé Bob Dylan citando Walt Whitman. Nemmeno la storia che in fondo siamo tutti un mistero a noi stessi e agli altri, ed è riduttivo schiacciare l’enigma su un simulacro, epurare i brandelli di caos che il corredo genetico ricevuto in sorte da ognuno finisce per esprimere nell’ammasso di carne e sangue in cui ci trasciniamo.
No, è qualcos’altro. In Lou Reed c’è uno stridere, qualcosa di contorto, slogato. Come quando lo senti cantare e sugli acuti di certi versi, nel passare al falsetto, la sua voce stona, si strozza e poi si rompe in una risata burlesca ma convulsa e sinistra.
Non si contano gli aneddoti sull’interazione con la stampa, col pubblico, ma anche con persone vicine, in cui le reazioni ostili fanno a cazzotti con le testimonianze della sua affabilità, generosità, dolcezza. Stesso abisso che passa tra le sue canzoni: tra una “Vicious” e una “Perfect Day”, tra una “Sister Ray” e una “Stephanie Says”, tra una “I Heard Her Call My Name” e una “Jesus”. Dalle carezze sull’anima al delirio anfetaminico. Poi l’accordo dissonante con tutte le sensibilità che lo hanno ispirato. Non faceva altro che cercare l’intesa per stroncarla alla prima divergenza, dare affetto per rivoltarlo in disprezzo e far saltare il tavolo, di nuovo. Così fu con i Velvet Underground, con Andy Warhol, con David Bowie, Robert Quine, ancora coi Velvet per la reunion negli anni Novanta. E ancora, lo stile androgino con trucco giapponese da icona queer, alternato con quello à la James Dean, jeans, giacca di pelle, occhiale scuro e perenne sigaretta. Nella vecchiaia, il tai-chi e la meditazione che vanno a braccetto con i Metallica. Il trillo pulito di una chitarra semiacustica e il grasso di un fuzz box. Il rockabilly e il free jazz. Omosessuale, etero, pansessuale, di nuovo etero radicale.
Qualcosa si intacca nel meccanismo regolare. A fine partita i conti non tornano, e nessuno sa chi è il baro. A monte.
Quello che voglio dire, è che c’è un dissidio.
Eppure qualcuno è riuscito a scriverla, una biografia. Will Hermes, giornalista newyorkese che ha scritto per Rolling Stone, New York Times e NPR (National Public Radio), in Lou Reed. Il re di New York (2023) svolge un lavoro di documentazione ai limiti del maniacale, incrociando dati estratti dalla bibliografia e da Internet con gli archivi su Reed messi a disposizione dalla New York Public Library e con interviste mirate a chi ha intersecato la sua parabola in questo mondo, dalla culla alla tomba. La vita di Reed viene inquadrata nel ribollire culturale e politico delle epoche attraversate. Il brulicare delle dinamiche umane è restituito dall’altezza dei tombini e delle cicche schiacciate sui marciapiedi.
Ma non basta. Come dicevo, è impossibile scrivere una biografia soddisfacente di Reed, per via di quel dissidio. A meno che non lo si prenda di petto. Questa è la vera ragione per cui il libro di Hermes è quasi un saggio vestito da biografia. Tiene gli occhi su quel dissidio, ma in modo talmente elegante da non sbatterlo in primo piano; tuttavia, sottotraccia dei fili si intessono e la lettura lascia sedimentare una sensazione: attrazione e repulsione verso l’industria musicale, ovvero il conflitto tra arte e commercio, opera e prodotto, sono la sostanza della vita artistica di Reed. L’intuizione obliqua, in debito con Warhol, è di studiare i punti dove i due estremi repellenti combaciano e giocare con la loro coincidenza.
La vita di Reed viene inquadrata nel ribollire culturale e politico delle epoche attraversate. Il brulicare delle dinamiche umane è restituito dall’altezza dei tombini e delle cicche schiacciate sui marciapiedi.
Ne nasce una tensione paradossale che riverbera in tutte le manifestazioni espressive duali di Lou Reed: la brusca variabilità del carattere, l’inafferrabile sessualità, l’oscillazione tra poli stilistici opposti. Emerge a fior di pelle un nodo dialettico, che in Reed sembra guadagnare autoconsapevolezza, ma che in realtà inerisce tutta la pop music in quanto tale. Un nodo che va molto oltre la lotta tra avanguardia artistica e mainstream discografico ed ha a che fare con il sovvertimento delle nozioni di copia e originale, di sincerità e simulazione. Di autentico e inautentico.
L’opera-merce
Good business is the best art.
Andy Warhol
Nel 1966 Reed si prestò per uno degli esperimenti di Warhol: quattro Screen Test, brevi filmati che riprendevano il volto di un soggetto in primo piano in atteggiamenti ordinari. In uno di questi (“ST262“) Lou porta degli occhiali da sole la cui forma dà un tono apatico alla sua espressione; metà della sua testa è avvolta nell’ombra che accentua le curve delle sue labbra mentre le avvolge sinuose attorno al collo di una bottiglia di Coca-Cola, per sorseggiarla. Il tutto è spudoratamente ammiccante, un condensato di desiderio queer dietro metafora, che è anche una finestra sull’attrazione palese tra i due: Warhol, dietro la cinepresa, uomo effeminato che non si sforzava neppure di nascondere il suo orientamento sessuale; Reed, l’oggetto sessualizzato, di aspetto più mascolino, un fluido che passava per etero. Pare che fosse di Reed l’idea di usare la Coca-Cola come accessorio di scena. Di sicuro una scelta ispirata: c’era già la serie di dipinti di Andy, e persino una poesia, anche qui ammiccante: Having a Coke with You di Frank O’Hara, icona della scuola di New York. Ma soprattutto lo Screen Test dimostrava che Reed aveva assimilato da Warhol un concetto fondamentale: sapersi presentare come una merce.
Reed aveva assimilato da Warhol un concetto fondamentale: sapersi presentare come una merce.
Warhol prese Lou e i Velvet sotto la sua ala manageriale perché sentiva un’affinità elettiva con Lou. I due avevano svariate cose in comune. Entrambi venivano da operose famiglie dell’Europa dell’Est immigrate negli Stati Uniti, erano cresciuti con madri adoranti e rapporti mortificanti con i padri. Avevano combattuto con depressione e dislessia, ma avevano infine trovato la salvezza nelle moderne tecnologie artistiche: chitarra elettrica per Reed, penna a sfera e fotocamera Brownie da un dollaro e venticinque centesimi per Warhol. Per necessità, entrambi avevano canalizzato le loro prime energie artistiche su scopi commerciali: Warhol in uno studio di grafica pubblicitaria; Reed con la Pickwick Records, un’etichetta specializzata in imitazioni a basso prezzo di generi di successo, che vendeva gli LP in supermercati e discount. Reed lavorava con tre collaboratori; riceveva ordini del tipo “Scrivete dieci canzoni in stile California e dieci in stile Detroit”; in poche ore stilavano tre o quattro album di sottoprodotti usa e getta e non importava chi scrivesse i pezzi, gli autori accreditati erano sempre tutti e quattro. Il concetto di “Factory”, l’enclave creativo di Warhol che alludeva al taylorismo, non era nuovo per Lou, già smaliziato com’era sull’idea di lavoro artistico a catena di produzione industriale. Entrambi da questa formazione spuria traevano la lezione che, nell’epoca del consumo di massa, anche i più alti e ispirati ideali dovevano essere perseguiti dove il consumo aveva luogo, in basso, nella cultura pop. Lì nemmeno le capacità tecniche limitate sarebbero state un problema. Idee potenti potevano passare attraverso stili (falsamente) primitivi e naïf.
Lou Reed ha vissuto la sovrapposizione tra arte e commercio in modo del tutto schizofrenico. Da un lato le lodi alla semplicità con cui il pop prende il fruitore per ventre e viscere. Nelle note di copertina di New York (1989), dopo 25 anni di musica e 15 album conclude che “Non puoi battere due chitarre un basso e una batteria”; in un concerto al Bottom Line di New York (1993) con David Byrne, Rosanne Cash e Luka Bloom, prima di eseguire “Heroin” sentenzia il detto (non apocrifo, come qualcuno pensa): «Mi piace questa canzone, ha soltanto due accordi. Si dovrebbe essere in grado di scrivere un’ottima canzone con un solo accordo. Due sono già troppi. Con tre, è jazz». Reed del pop ama la semplicità dello stile, ma non fine a sé stessa; la ama per la sua capacità di far presa sulle masse. Lui voleva le masse. Adoranti, estatiche. Come già le avevano altri. Per questo arrivarono le prime rotture: quella con Warhol, che licenzia dal suo ruolo di manager perché stufo di fare concerti all’inaugurazione di mostre d’arte e deciso a sbancare i botteghini nelle grandi venue; quella con John Cale e la sua viola elettrica: Lou lo allontanò e rimpiazzò con Doug Yule non appena lo vide intenzionato a imprimere sui Velvet la sua direzione avanguardista, ispirata al minimalismo di La Monte Young, Terry Riley, Steve Reich e Philip Glass, i compositori americani che stavano spingendo la formazione classica dello stesso Cale ai propri limiti formali.
Lou Reed ha vissuto la sovrapposizione tra arte e commercio in modo del tutto schizofrenico.
Nonostante ciò, c’è una corrente contraria in Reed che lo chiama a ritrarsi dal pop e dalle masse non appena sente minacciata la sua licenza di sperimentazione. La storia dei suoi primi dischi solisti è un alternarsi di affronti e cedimenti alla RCA, la sua etichetta. Ecco un breve resoconto di una fase della storia. Grazie al successo di Transformer (1972), Lou riesce a imporre alla RCA l’ambizioso Berlin (1973): un concept ambientato in nebbiosi cabaret tedeschi di inizio Novecento che racconta una storia d’amore malata e degenerata. La critica lo giudica nichilista e deprimente; gli arrangiamenti barocchi lo rendono ancor più difficile, rimane quasi ignorato dal pubblico americano. Lou deve pagare il pegno alla RCA: lo fa con Sally Can’t Dance (1974), un disco sbrigativo e mediocre. Le chitarre distorte si ritirano, il sound è il soul/funk che dominava le radio e la scena disco nascente. La scrittura non regge i vertici lirici già raggiunti. Rinnegato con la frase “Più faccio schifo e più vendo. Se nel prossimo disco non compaio affatto arriverò al numero uno”. Lou Reed cova la vendetta. Questa storia finisce con Metal Machine Music (1975), una decisa voltata di spalle alla RCA e ai fan: 64 minuti di magma sonoro plumbeo e febbrile, basato sul concetto di tonalità monocorde a cui Cale aveva iniziato Reed. Stratificazioni di feedback, overdub, chitarre in delay, rumorismo elettronico riverberato si fondono. Ne risulta l’effetto bordone ricercato tanto dalla drone music quanto dalla musica classica indiana che accompagna i canti dei Veda, a riprodurre il rumore bianco che è il sussulto del cosmo. Nessun cantato. Nel wall of sound, in certi istanti, si può giurare di scoprire effimeri chiarori celestiali. Sulla copertina: “Se questo disco non vi piacerà, non vi biasimo. Non è per voi. La mia settimana scandisce il vostro anno”.
L’anima di Reed sembra sfilacciarsi, dilacerata e squartata da forze uguali e contrarie; commerciale/sperimentale, vendibile/elitario, popular/avant-garde. Ma viste da un’altra angolatura, bieca, deviante – come i suoi falsetti stonati – le opposizioni dicotomiche saltano. Anzi, collassano l’una sull’altra in una qualche assurda architettura escheriana. Guardiamo a un esempio paradigmatico: White Ligh/White Heat. Il disco è visionario e ahead of its time. Stimola a concedersi quel particolare autocompiacimento che si prova nel descrivere la musica associando il prefisso “proto-” a innovazioni germogliate nei decenni a venire, in questo caso punk, industrial, noise. Perciò è paradossale notare come il lavoro fosse rivoluzionario, ma in un modo del tutto accettabile all’epoca. “White Light/White Heat”, “Here She Comes Now”, “I Heard Her Call My Name”, “Guess I’m Falling In Love” (dalle studio sessions) sono canzoni che, ridotte all’ossatura ritmica e armonica, sono identiche a molto ciarpame radiofonico adolescenziale oggi archiviato. Ma i Velvet si accorgono che quella banalità insita nella pop music, se portata alle sue estreme conseguenze, convergeva col processo di sottrazione, di decomposizione strutturale che i minimalisti stavano applicando alla musica classica. Tornare a forme elementari di tonalità, diminuire il numero dei movimenti armonici al minimo, e ridurre le soluzioni ritmiche a ripetizioni ossessive.
L’anima di Reed sembra sfilacciarsi, dilacerata e squartata da forze uguali e contrarie; commerciale/sperimentale, vendibile/elitario, popular/avant-garde. Ma viste da un’altra angolatura, bieca, deviante – come i suoi falsetti stonati – le opposizioni dicotomiche saltano.
C’è in ballo il cortocircuito tra opera d’arte e merce. Quei pezzi sono così semplici e basilari da ricordare i readymade rock ‘n’ roll che Reed scriveva per la Pickwick, tanto che si potrebbe persino leggerci un elemento parodistico del garage rock coetaneo. Tuttavia quei suoni stereotipati sono coperti da strati di distorsione inauditi; i brani sono registrati a volumi troppo alti per la tecnologia dell’epoca, i canali audio usati sono pochi e gli strumenti si mescolano al punto che la chitarra, basso e l’organo elettrico di Cale sono indistinguibili; la qualità sonora che ne esce è scarsa, e trasmette una piattezza ovattata, caotica. Quelli che sono potenziali singoli catchy, da classifica, vengono sfigurati fino a diventare irriconoscibili. La deformazione si completa con l’immaginario disturbante quanto vivido dei testi di Reed: in “Sister Ray” – omaggio a Ultima fermata Brooklyn di Hubert Selby – canta di un gruppo di travestiti che si porta a casa delle marchette, si fanno di eroina e iniziano un’orgia, poi un travestito tira fuori una pistola, spara a una delle marchette e lo uccide, ma tutti sono annebbiati e qualcuno dice “Non dovevi farlo, così si macchia il tappeto”, mentre Lou continua a ripetere “Sto cercando la vena grossa, non mi posso bucare di lato”.
White Light/White Heat è solo un caso estremo. Loaded, l’album ritenuto in genere il più debole dei Velvet proprio perché suona comune, accessibile e commerciale, è informato dallo stesso principio di quasi-parodia deformata del garage rock e del pop rock psichedelico – il titolo stesso è un’allusione ironica alla richiesta della Atlantic di fare un disco “loaded with hits”. In Loaded gli elementi deturpanti e la depravazione dei testi sono quasi del tutto scomparsi, ma ci sono espedienti più fini per ombreggiare le superfici del già noto. In un concerto inglese del 1972 Reed chiama “Who Loves The Sun! la sua “Beatles song”: dei Beatles ci sono i coretti in stile barbershop quartet, che ammiccano anche a quelli dei Beach Boys; c’è il fatto che sia una heartbreak song da teenager degli anni Cinquanta; c’è il titolo che forse richiama “Here Comes The Sun”, scritta da George Harrison un anno prima. Ma in “Who Loves The Sun” la delusione immatura che pezzi di quel tipo dovevano sublimare diventa un velo depressivo che cala fin sulle voci sognanti dei cori, mentre cantano del tedio esistenziale, con un effetto umoristico nero. Oppure ancora, “Rock & Roll”: il testo, genuino, è quello di una canzone consolatoria salva-adolescenti che parla a sua volta di una ragazzina salvata dalla scoperta del rock in radio, e da quel momento “it was alright”; ma l’accordatura usata per la chitarra ritmica mette in risalto un continuo do basso sulla sesta corda che crea un fondo oscuro e ipnotico, e la canzone si tinge di una melanconia lontana.
Lou aveva colto lo Zeitgeist come Warhol. L’arte di Reed era più istintiva e di pancia, mentre quella di Warhol più concettuale, ma in un certo senso l’operazione compiuta è paragonabile. I due selezionano normali oggetti di consumo circolanti nella fantasmagoria del mercato: canzoni radio-friendly per Reed, immagini pubblicitarie o a grande diffusione mediatica per Warhol. Certo, le canzoni sono scritte interamente da Lou e soci, mentre Warhol prende di peso le immagini dal patrimonio massificato, ma il loro intervento è simile. Gli oggetti di consumo scelti potrebbero sembrare presentati nella loro immediatezza; invece l’apporto artistico consiste proprio in una mediazione più o meno celata, che distorce quegli oggetti con alterazioni stranianti. Quello che Reed fa, oltre che con i testi, con fuzz, feedback e altre accortezze sonore, Warhol lo fa col filtro della serigrafia sulla foto promozionale di Marilyn Monroe per il film Niagara. In superficie un tributo a un’icona amata; dietro, disturbanti, strisciano il tetro quadro psichiatrico di Monroe, le circostanze dubbie del suo presunto suicidio avvenuto nel 1962 con 47 pasticche di barbiturici, i corpi martoriati di altre star come Jayne Mansfield e Sharon Tate, e per estensione il Vietnam, gli abusi di polizia, l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy e Martin Luther King e la morte, il decadimento, la violenza dei Sixties, il decennio di speranza e favolosa espansione del benessere che Friedric Jameson ha descritto come un “incubo virtuale” o un “bad trip nella storia”.
Lou aveva colto lo Zeitgeist come Warhol. L’arte di Reed era più istintiva e di pancia, mentre quella di Warhol più concettuale, ma in un certo senso l’operazione compiuta è paragonabile.
Tutto questo trapela grazie alle tecniche di produzione. In Marilyn Diptych (1962) Andy usa i difetti del processo serigrafico per ottenere l’effetto di un ritratto in decomposizione. Nei dieci pezzi della serie Marilyn (1976), i colori spesso chiari dell’incarnato, a contrasto con le ombre saturate, le scavano il volto, che pare un cadavere; la macchia di colore sulla bocca le copre anche i denti e sembra che stia sputando sangue, specie nelle varianti in cui la bocca è rossa o fucsia; i colori sgargianti le dipingono un trucco esagerato, facile da immaginare, sbavato, sul volto di una delle drag queen decadenti che scaldano eroina sui cucchiai in “Sister Ray”.
Pantomima e autenticità
And anyone who ever played a part / They wouldn’t turn around and hate it
“Sweet Jane”
Candy Says, I’ve come to hate my body / and all that it requires in this world
“Candy Says”
Walter Benjamin aveva intuito una svolta estetica che ebbe il suo zenit nella pop music degli anni Sessanta e Settanta. Quando riproducibilità tecnica e produzione massificata investono gli oggetti che chiamiamo opere d’arte, queste perdono la loro “aura”: ovvero, il loro valore cultuale, che discende dalla sacralità dell’arte religiosa. L’aura non scompare; viene traslata nella figura dell’artista. L’artista non è un artigiano come nel Medioevo, né puro slancio poetico come per i romantici. È un performer e, in quanto tale, è parte della sua opera.
David Bowie incontrò Reed nel 1971. Lou lo ammirava già; dal duca imparò a manipolare il proprio corpo e la propria persona per farne una macchina comunicativa. Bowie non esiste: è tutti i personaggi di cui canta, è il cosmonauta Major Tom, è l’alieno Ziggy Stardust, è il fulmine di Aladdin Sane e così via. Nel 1972 il re del glam assunse assieme a Mick Ronson la direzione creativa di Transformer (1972). Reed si fidava ciecamente e Bowie lo portò alla notorietà con una padronanza demiurgica delle strategie scandalistiche dei media. Costruì la maschera vampiresca di Lou, il “Fantasma del Rock” ritratto in copertina, sfocato, con ombretto scuro e unghie laccate in nero. Le canzoni diventano solo una parte dell’impianto coreografico e drammaturgico che performer come Bowie o Reed offrono al pubblico, perché la gente desidera un’esperienza totale. Il pubblico non è immediatamente conscio di quando sia giunto ad affidare la propria esistenza all’artista né di cosa tragga dal suo esibirsi. Eppure gli tributa una qualche devozione che rivela una richiesta estrema: l’artista fornisca nella sua immagine, nei suoi gesti ammirevoli o ripugnanti, la sostanza spirituale della vita. Vogliamo lo spettacolo.
Le canzoni diventano solo una parte dell’impianto coreografico e drammaturgico che performer come Bowie o Reed offrono al pubblico, perché la gente desidera un’esperienza totale.
Reed, come Bowie, era perfettamente consapevole dell’aspetto teatrale della sua attività artistica. Ma mentre Bowie, creatura proteiforme, scivolava liquido da una metamorfosi scenica all’altra con naturalezza, in Reed il copione si sovrappone alla vita, e la recita giunge come a un metalivello autoriflessivo. In certe canzoni si nota questa autocoscienza: su “Temptation Inside Your Heart” è stata sovraincisa la registrazione delle chiacchiere e i commenti scherzosi che Lou, John Cale e Sterling Morrison facevano in studio mentre ascoltavano il pezzo appena eseguito, a creare un piano sfasato che mostra la vita lavorativa degli artisti in azione, con tutte le sue bassezze mondane che in genere sono occultate ed espunte dalla forma finale. Ma Lou spinge tutto al paradosso: la messinscena non si distingue dal dietro le quinte e il sipario non cala mai. Nel 1974 Reed era in un protratto esaurimento nervoso indotto da metanfetamine, alcol, e soprattutto eroina. In un concerto a Houston, Reed si arrotola il cavo del microfono attorno al braccio, lo stringe come un laccio emostatico, poi tira fuori quello che sembra un ago ipodermico e finge di infilarlo metodicamente in una vena. L’iniezione sarebbe poi diventata un numero fisso. Nella locandina del programma di quel tour si leggeva “Lou Reed interpreta talmente bene la parte del cantante rock che secondo molti è la quintessenza del cantante rock”; segue una citazione di Reed: “È come scrivere una pièce teatrale e assegnare a te stesso il ruolo del protagonista”.
Questa subdola negoziazione della propria identità falciò alcune vittime. Reed lo vide con lucidità e perciò non ci cascò. Nel 1971 comparve un suo saggio su uno speciale della rivista Fusion dedicato alle morti premature di Jimy Hendrix, Janis Joplin e Brian Jones. Titolo: “No One Waved Goodbye: A Casualty Report on Rock and Roll”. Lì Reed scriveva:
Ci vuole semplicemente un ego molto stabile per concedersi di essere amati per quello che si fa anziché per ciò che si è, e uno ancora più grande per comprendere che si è ciò che si fa. Il cantante ha un’anima, ma sente di non essere amato quando non è sul palco. O, cosa forse peggiore, sente di risplendere solo sul palco, mentre fuori è appassito, un guscio banale come la gardenia in giardino. Ma siamo tutti banali come fiocchi di neve, o no?
Lo stereotipo della “rockstar” si stava solidificando con i sedimenti di anime strappate prima del tempo. Per quelle anime, i panni vestiti nella vita comune finivano per risultare spenti rispetto alle pailettes dell’uomo spettacolare. È in quelle vesti che l’artista si libera di ogni sovrastruttura ed esprime il sé autentico. Ma a un occhio scaltro come quello di Lou, la rockstar è solo un altro ruolo, una posa in cui si rimane invischiati come insetti nell’ambra. Guy Debord sull’uomo di spettacolo scriveva: “concentrando in sé l’immagine di un ruolo possibile […], concentra dunque questa banalità”. Banale come una gardenia o un fiocco di neve. La sua è una pantomima, non meno di quella recitata dagli altri, anche se si eterna in un’immagine scintillante. Quell’immagine che Reed a volte aborriva, specie nei momenti in cui la finzione sembrava crollare con tutto il palcoscenico. In un’intervista di Ed McCormack nel 1972, sempre su Fusion, diceva:
A volte faccio quest’incubo orribile in cui non sono quello che penso veramente di essere… ma un egoista completamente decadente… Ti rendi conto di che significa essere nei miei panni? Ho fatto parte di tutte le scene di tendenza, ho conosciuto tutti… tutti! A volte penso di essere solo un succhiacazzi ipocrita come loro. […] Ci sono persone alla moda davvero brillanti, che adoro… ma in un altro senso sono la feccia della terra, e per molti aspetti io sono come loro, allora come è possibile che quello che ho fatto significhi qualcosa…
Ancora stride quel dissidio. È lo stesso, ma aperto a un’angolatura più ampia, esistenziale: arte contro commercio non è altro che trovarsi al bivio tra conformità alle aspettative sociali ed espressione più intima del sé. Lou non si sente mai abbastanza capito, apprezzato, amato per quello che è, al fondo, dietro tutte le maschere. Gli eccessi chimici, il sesso, le forme musicali destrutturate, sono modi in cui cerca la rottura della quarta parete che scherma il nostro demone, quando lo esibiamo imbellettato agli altri, in una danza forsennata per la loro approvazione. Il suo è uno studio sull’idea di autenticità.
In quegli anni non era l’unico: Sincerità e autenticità era il titolo di un libro scritto nel 1972, che ambiva a tracciare la storia di questi concetti nella letteratura e nella filosofia occidentale, con l’agilità interdisciplinare tipica dei corsi Great Books nelle università americane. L’autore, Lionel Trilling, era un critico letterario americano, uno dei New York intellectuals che si erano formati e insegnavano tra City College, New York University e Columbia University: alla Columbia Trilling aveva tra i suoi studenti Jack Kerouac, Allen Ginsberg, John Hollander, la nuova scuola di parolieri che Reed ammirava. Come spesso accade, gli allievi erano il nuovo che avanza e il maestro li guardava con il sospetto conservatore e la saggezza prudenziale che crescono con gli anni. I mondi intellettuali di Reed e Trilling erano distanti, quanto lo sono un ragazzino la cui massima aspirazione è mettere in musica William Burroughs e un professore ordinario inquietato dal desiderio di fare scandalo della letteratura d’avanguardia, e intristito dai movimenti a Berkeley, in cui vedeva all’opera tendenze distruttive. Eppure entrambi individuavano nell’idea di autenticità il cardine attorno al quale si stava rivoltando la loro epoca.
Gli eccessi chimici, il sesso, le forme musicali destrutturate, sono modi in cui Reed cerca la rottura della quarta parete che scherma il nostro demone, quando lo esibiamo imbellettato agli altri. Il suo è uno studio sull’idea di autenticità.
In Sincerità e autenticità, Trilling scrive che quell’idea non esisteva prima dell’età moderna. Per gli spettatori di una tragedia nell’antica Grecia non ha senso affermare che l’eroe è autentico, più o meno di altri personaggi. L’adesione tra i loro propositi e le loro azioni è perfetta, e risponde a un sistema di valori condiviso. Finché le società occidentali sono state integraliste, finché vige un’identificazione armonica, silenziosa e irriflessiva tra individuo e società, l’autentico non fa presa. Solo col declino del feudalesimo e della vita rurale nasce quello che lo storico Georges Gudorf chiama “spazio interiore”. Lì, un individuo immagina sé stesso in più di un ruolo, oppure al di fuori, al di sopra della sua stessa personalità. La parola sé, self, inizia a essere usata non più solo come pronome personale ma come sostantivo, che indica, da Oxford English Dictionary, “ciò che in una persona è realmente e intrinsecamente lei (in contrapposizione a ciò che è avventizio)” – le maschere sociali. Di contro, la “società” viene ipostatizzata e comincia a essere sentita non solo come aggregato di esseri umani ma come un Moloch con una vita a sé, fatta di leggi ferree sue proprie. Leggi che possono confliggere, fino a soffocarlo, col singolo. L’inserimento nelle maglie delle aspettative sociali non è più pacifico. Il self è per definizione un Opposing Self (questo il titolo di una raccolta di saggi di Trilling del 1955). La guerra tra individuo e società è ciò di cui si nutre, per Trilling, anche la stagione aurea modernista del romanzo europeo. “Nessun’altra letteratura è mai stata così oltraggiosamente personale – ci chiede se siamo soddisfatti dei nostri matrimoni, delle nostre vite professionali, dei nostri amici” scrive in On the Teaching of Modern Literature (1965).
La prepotente rinascita dell’arte drammaturgica nel Seicento, tra Shakespeare e Molière, è un ulteriore segno della teatralità strutturale alla società moderna. Riflessioni di questo tipo erano l’humus intellettuale degli anni Sessanta e Settanta: uno dei libri più influenti sulle scienze sociali fu The Presentation of Self in Everyday Life (1959) del sociologo Erving Goffman, che analizzava le interazioni umane coniando un apparato concettuale con la metafora del teatro, definito dramaturgical role theory: c’è una scena, un dietro le quinte, dei ruoli e il portamento con cui vengono interpretati, e lo scopo è lasciare una precisa impressione al pubblico. Il tutto sembra estraneo a Lou Reed o alla cultura pop in genere; invece la controcultura underground era sia un laboratorio dove applicare teorie del genere, sia una fucina continua di prodotti artistici che illuminavano quegli stessi concetti. Una prova è il testo di “Sweet Jane”, se lo si legge per capirlo, senza sorvolare sulle parole:
Standin’ on a corner —
Suitcase in my hand.
Jack is in his corset, Jane is in her vest,
And me, I’m in a rock ‘n’ roll band. Huh!
La prima strofa inizia con la presentazione di Jack e Jane, una coppia. In tutta la canzone, sono dipinti come una coppia di borghesia medio-alta, tradizionale e moderata nei costumi: lui impiegato in banca, lei in un ufficio, mettono da parte i soldi e quando tornano a casa dal lavoro si riposano davanti al caminetto e ascoltano musica classica. Questa descrizione è perturbata da quella del vestiario: gli abiti casalinghi dei due sono scambiati. Lui ha un corsetto, mentre lei una canotta. L’espediente surreale spezza il naturalismo e pone l’attenzione sul vero tema della canzone: i dispositivi esteriori, le maschere che usiamo per proiettare una certa immagine di noi. Reed, il narratore, è anche un personaggio della storia. Osserva la coppia dalla strada come se li sbirciasse dalla finestra e dice di sé “I’m in a rock ‘n’ roll band”, spavaldo ma con un’enfasi artefatta. Vuole far sapere che rispetto ai due piccioncini lui è avanti, svecchiato e libertino.
Il twist arriva nella terza strofa:
Some people, they like to go out dancing,
And other peoples they have to work.
And there’s even some evil mothers,
Well they’re gonna tell you that everything is just dirt:
You know, that women never really faint;
And that villains always blink their eyes;
That children are the only ones who blush;
And that life is just to die.
But anyone who ever had a heart:
They wouldn’t turn around and break it!
And anyone who ever played a part:
They wouldn’t turn around and hate it!
Sweet Jane!
Sweet Jane!
Sweet Jane!
Ancora ruoli convenzionali: qualcuno, i giovani libertini, va a ballare, ad altri tocca svegliarsi la mattina per andare a lavorare. Poi tutto diventa più complicato. Certe persone malvagie (Reed le chiama “madri” per sineddoche), ci insegneranno che nessuno dei ruoli che interpretiamo è autentico. Queste persone si spingono a rovesciare tutte le convenzioni per mostrarne l’arbitrarietà: le donne che svengono per la loro debolezza emotiva, i cattivi che mantengono facce da poker per non rivelare i propri intenti, i bambini che non conoscono ancora la vergogna. Tutto ciò ci induce a pensare che la nostra urbanità disincantata, quella che è anche del rocker narratore, sia più autentica dei ruoli ridicoli interpretati da Jack e Jane. Ma Reed lo mette in discussione, e suggerisce che dubitare della realtà dei ruoli potrebbe perfino toglierci il gusto dello spettacolo: “everything is just dirt” e “life is just to die”. Prima che il ritornello gridi “Sweet Jane!”, la tensione si alza e dei versi arrivano ingrossati dal fracasso dei cimbali: “Anyone who ever played a part: they wouldn’t turn around and hate it!”. Reed lascia intendere che le parti che interpretiamo sono inseparabili della nostra identità, come qualunque cosa ci stia a cuore. Tolte le maschere, l’intero tessuto della nostra esistenza inizierà a sfaldarsi.
Eppure l’impulso a strappare del tutto le uniformi e indossarne di nuove, eccentriche, può diventare un bisogno vitale non negoziabile. Su questa pulsione si gioca l’interesse di Reed verso la queerness, una variazione sul tema dell’autenticità. Lou non era etero, né gay, rientrava in tutte e in nessuna definizione allo stesso tempo. La sua sessualità era elusiva come un serpente a sonagli. C’è una canzone costruita tutta su quell’ambiguità provocante e magnetica: “Some Kinda Love” (The Velvet Underground, 1969). È guidata da un groove giocoso tra grancassa smorzata, campanaccio e un riff elastico che, pur ripetendosi identico, sembra cambiare mentre lo si ascolta. Il testo riporta una conversazione tra Marguerita e Tom: i due si stupiscono di quanto, in amore, “the possibilities are endless” e di come perdersi anche una soltanto tra quelle possibilità “would seem to be groundless”. La lascivia di Reed si insinua con dettagli vaghi, il che la rende ancora più seducente: il riferimento allo spalmare la gelatina sulle spalle oppure al mischiare “l’assurdo e il volgare come un romanzo francese sporco”. La conversazione si chiude con “and no kinds of love are better than others”. Un inno eccitante alla fluidità sessuale decenni prima che il termine entrasse nel linguaggio psicologico e poi in quello comune.
L’impulso a strappare del tutto le uniformi e indossarne di nuove, eccentriche, può diventare un bisogno vitale non negoziabile. Su questa pulsione si gioca l’interesse di Reed verso la queerness, una variazione sul tema dell’autenticità.
Ma è la transessualità che attira di più Reed, perché lì nella ricerca dell’autentico non si tratta più solo di ruoli o comportamenti: ne va della propria stessa integrità fisica, del proprio corpo. Con una donna trans, Rachel Humphreys, Reed ebbe una profonda relazione tra il 1974 e il 1978, esasperata dalla speed di cui si imbottivano insieme. Una greatest hits compilation del 1977 ha in copertina delle loro foto smielate, e un verso della title track di Coney Island Baby (1976) rivela che il disco, il più romantico mai scritto da Lou, è dedicato a lei. Altre muse tranny hanno ispirato Transformer: già il titolo scherza sul doppio senso tra la transizione di genere e la componente dei circuiti elettrici di amplificatori e chitarre. Quando poi attaccano una plettrata funk, una doppia linea di basso e una batteria spazzolata cool jazz sappiamo tutti cosa sta per succedere: “Walk On The Wild Side” è la gemma dell’album, resa ancora più rara dal cast di protagoniste. “Holly came from Miami, F-L-A”: Holly Woodlawn era apparsa in un paio di film di Warhol e, come dice la canzone, era davvero arrivata a New York da Miami e si era depilata le gambe strada facendo, in un motel in Georgia. “Candy came from out on the Island”: Candy Darling aveva debuttato in Flesh (1968), film di Wahrol e Paul Morrissey. Qui Lou ne fa un bozzetto romanzato, immaginandola come una presenza fissa nel retro di un night club, ma mai svilita, sempre padrona di sé e di tutti gli uomini che le sbavano dietro, con una sicurezza ferina che è resa da quel verso crudo: “she never lost her head / even when she was giving head”. La canzone che segue nella tracklist, “Make Up”, potrebbe essere un riferimento all’impegno che Candy dedicava al trucco e al suo aspetto fisico. Darling era molto femminile e per questo si trovava a provare un disprezzo acuto verso il corpo che le spettava: spesso, a detta di Warhol, si riferiva ai suoi genitali come “il mio difetto”. Lou ne fu colpito già qualche anno prima, tanto che ricamò su di lei “Candy Says”, un pezzo sublime, che fluttua su un arpeggio delicato e la voce tenorile misurata di Doug Yule, come in uno stato di dormiveglia:
Candy says, I’ve come to hate my body
and all that it requires in this world
Candy says, I’d like to know completely
What others so discretely talk about
I’m gonna watch the bluebirds fly
Over my shoulder
I’m gonna watch them pass me by
Maybe when I’m older
What do you think I’d see
If I could walk away from me?
Il testo tratteggia il ritratto di qualcuno – di genere non specificato – che “odia il proprio corpo e tutto ciò che richiede” nel presentarlo agli altri. Detesta il brusio incessante del pettegolezzo. Cerca aria guardando il cielo, e trova una bellezza che non placa la sua inquietudine. Salendo di tonalità come a raggiungere i bluebirds che la sorvolano, la voce che canta si chiede come sarebbe uscire di sé, da quel corpo che non riconosce come proprio, e vederlo dal di fuori, finalmente libera. Reed ha detto su quei versi che sono universali, parlano di un’esperienza provata da chiunque: guardarsi allo specchio e voler essere qualcun altro.
Candy Darling morì per un linfoma, forse causato dagli ormoni per la transizione che aveva assunto. Aveva ventinove anni. Negli ultimi giorni era quasi paralizzata, con l’ombra dei baffetti e senza più capelli per la chemio, e la madre le dava del brodo con una siringa come un uccellino. Il suo corpo, che odiava per le cose che richiedeva, di lì a poco non avrebbe richiesto più niente. Trovò comunque la forza per posare in una versione macabra di uno scatto glamour hollywoodiano, distesa languidamente sul letto d’ospedale tra mazzi di fiori augurali. Trucco perfetto, come sempre. Dopo la sua morte, la madre di Candy affidò le ceneri al ragazzo della figlia, insieme a tutte le sue cose rimaste in giro per casa, perché aveva paura di cosa ne avrebbe detto il suo nuovo marito, che odiava gli omosessuali. Candy nel suo diario aveva scritto: “Bisogna essere sempre se stessi, a qualsiasi costo. È la forma più alta di moralità”.
Eroi e poveri di spirito
[Il romanzo] si interroga sul perché le persone perdute diventino esseri umani più complessi di coloro che nella vita non si sono mai persi; sul perché gli uomini che hanno sofferto per mano di altri uomini siano coloro che per natura credono nell’umanità, mentre quelli il cui destino è stato semplicemente prendere, prendere tutto senza dare niente, siano invece gli individui più sprezzanti.
Nelson Algren su A Walk on the Wild Side, suo romanzo del 1956
Penso sia importante che la gente non si senta sola.
Lou Reed
Il titolo del pezzo più famoso di Lou Reed viene da un romanzo di Nelson Algren, A Walk On The Wild Side (1956), a sua volta tratto da uno dei più grandi successi country della storia, “Wild Side Of Life” di Hank Thompson. La narrazione nel romanzo era punteggiata di canzoni dei jukebox; il regista Carmen Capalbo pensò quindi ad un adattamento musicale per il teatro (c’era già un film del 1962 con una giovane Jane Fonda), e contattò Reed per lavorare sui brani da inserire nella trama. Il progetto venne abortito, ma il libro e i suoi temi avevano parlato a Reed. I personaggi sembrano usciti dalla sua fantasia: Fitz Linkhorn, addetto alle pulizie dei cessi, predicatore di strada e alcolista; suo figlio Dove, vagabondo con un lavoro saltuario per una fabbrica di gadget a forma di preservativo, rimasto cieco dopo una lite con un paraplegico; Kitty Twist, una ragazzina che inizia a prostituirsi dopo essere evasa dal carcere.
Reed scrive personaggi simili, con l’occhio di un romanziere che rimodella plasticamente il suo mestiere sulla forma canzone: scene concise e fulminanti, pochi dettagli ma pregni fino all’osso, nella forma di monologhi in prima persona (“I’m Waiting For My Man”, “Heroin”) oppure di ritratti in terza persona raccontati da un narratore onnisciente – ben cinque pezzi si intitolano “*Nome di donna* Says”. La tecnica non è nuova, risale a prima delle ballate inglesi del Diciassettesimo secolo, e Dylan ne aveva fatto un uso magistrale per le storie di Emmett Till, Hattie Carroll o di Johnny e Maggie in “Subterranean Homesick Blues”. Alla scrittura si aggiunge l’approccio vocale, una sorta di Sprechgesang imperturbabile che a volte sfiora cadenze da dj radiofonico quasi-rap, uno stile in gestazione a New York che veniva da MC pre-rap, come Jocko Henderson e il suo Rocket Ship Show sulla radio newyorkese WADO. Il canto parlato narrativo permette a Reed di interpretare i versi con una freddezza e un distacco giornalistico che fanno da contrappunto al panorama desolato e straziante delle sue storie. In Berlin, ad esempio, quella voce a un tempo riservata e schietta comunica che Caroline viene picchiata dal compagno, che le amiche la chiamano “Alaska” per quanto è fredda e triste (“Caroline Says II”) e che i bambini le vengono portati via, perché il tribunale la giudica non adatta a fare la madre (“The Kids”); quella stessa voce in “Street Hassle” impersona uno spacciatore che invita della gente a un festino nel suo appartamento, e quando una donna muore di overdose suggerisce agli amici che sarebbe una seccatura provare a spiegarsi a dei poliziotti, quindi meglio trascinarla dai piedi per strada, “and by morning she’s just another hit and run”.
Le storie di Reed raccontano di persone che toccano il fondo. Non erano le frivolezze che la musica pop aveva offerto fino a quel momento. La sua grandezza è stata far assurgere al rango di “serietà” una forma artistica considerata immatura, giovanile, creando quello che lui stesso ha definito “rock per adulti”. I suoi testi sono un campionario di mali subiti da esseri umani per mano propria o altrui. Questa è una scelta poetica radicale, dietro cui c’è di nuovo il tentativo di colmare di significato la parola “autenticità”. Su questa via fa da guida ancora Lionel Trilling: le sue analisi si rivolgevano a un canone letterario, ma calzano anche qui; dopotutto è stato Reed a mostrare che la musica pop può entrare a pieno titolo in quel canone.
Le storie di Reed raccontano di persone che toccano il fondo. Non erano le frivolezze che la musica pop aveva offerto fino a quel momento. La sua grandezza è stata far assurgere al rango di “serietà” una forma artistica considerata immatura, giovanile.
In Sincerità e autenticità Trilling riconosce che la letteratura, sollecitata dalle nuove circostanze della modernità, ha elaborato una risposta culturale alle trasformazioni morali della società, e problematizzato la qualità della vita condotta dagli esseri umani. Non basta più vivere secondo parole d’ordine, conformandosi a valori ricevuti; nasce una concezione più esigente del sé e di ciò in cui consiste essergli fedele. Si stabilisce un modello di autenticità incarnato nel Nipote di Rameau di Denis Diderot, l’adulatore e scroccone di professione che sopravvive facendo il buffone nei salotti della borghesia parigina, dove è l’unico che ha il coraggio di confessare ciò che tutti pensano ed espone la falsità dei rispettabili in un misto di delirio abietto e onestà. Il suo è un “eroismo negativo” che consiste nella rinuncia al sé pubblico costruito dal riconoscimento sociale. Questo modello è stato capace di scuotere coscienze e aprire le prassi umane a forme di autocritica. Arriva però il momento in cui il modello eroico non si fa più eversivo o antagonistico; invece si getta a capofitto in una vertigine nichilistica, e mira a un’autodistruzione che sbocca in nessun luogo, solo in un abisso accecante che è il fallimento di ogni possibile sapere su di sé.
Erano gli anni Sessanta. Trilling aveva in mente l’avanzata della sottocultura giovanile, verso cui non provava la massima simpatia; la diffidenza tuttavia non gli impediva di cogliere dei tratti essenziali del suo programma politico, esistenziale, metafisico. Il “Flower power” psichedelico era insofferente verso i binari della tradizione decisi dai padri senza richiedere l’assenso. Quei ragazzi vestivano, mangiavano, dormivano, amavano in forme nuove, secondo loro le uniche sincere, che li avvicinavano alla fusione con la Natura, eliminati tutti gli strati di condizionamenti, il sé fabbricato e falso. Stesso scopo delle droghe che usavano, LSD e marijuana, per congiungersi con il nucleo incontaminato, primigenio dell’inconscio onirico. Ma ben presto il tutto tracolla in una dissociazione allucinogena collettiva. Hunter Thompson ha descritto le falle disastrose del movimento in Fear and Loathing in Las Vegas (1971): quando cita lo psicologo e attivista Timothy Leary assieme ai suoi seguaci nelle comuni hippie, che propugnavano l’uso di LSD per espandere la coscienza e condurre a un’utopia socialista, Thompson li liquida come dei “pathetically eager acid freaks who thought they could buy Peace and Understanding for three bucks a hit”. Thompson legge nell’uso fatto delle droghe la tendenza degli hippie a distaccarsi da una realtà con cui non riuscivano più a fare i conti: è difficile non dargli ragione sapendo che Leary, nei suoi ultimi anni di attività, ha dirottato i suoi interessi dalla Mente Universale a una società di software per la realtà virtuale. Una volta dissoltasi la speranza cieca dei Sixties e iniziata la recessione da crisi petrolifera degli anni Settanta, LSD e qualsiasi droga upper non va più di moda, perché nel panico serve abbassare il battito cardiaco e la pressione sanguigna. Gli ex hippie ora preferiscono i downers: alcol, benzodiazepine, eroina. Thompson scrive dell’arresto di Leary per possesso di droghe come il segnale della fine di un sogno fatuo:
Ciò che crollò insieme a Leary fu l’illusione centrale dell’intero stile di vita che aveva contribuito a creare… una generazione di storpi permanenti, ricercatori spirituali falliti, che non hanno mai capito l’essenziale, vecchio errore mistico della Acid Culture: il disperato presupposto che qualcuno – o almeno una qualche forza – si stia prendendo cura della Luce alla fine del tunnel.
C’è stato un periodo in cui quegli hippie erano il pubblico dei Velvet: finita l’era Warhol, si vendono come una boogie band, e durante la Summer of Love il loro nome appare sulle locandine di grandi nomi della scena californiana trainata dalla Bay Area di Grateful Dead e Jefferson Airplane: gli stessi palchi di Sly & the Family Stone, Canned Heat, Iron Butterfly, Quicksilver Messenger Service. Per la prima volta suonano per gente che non ha frequentato scuole d’arte e vuole solo ballare. Ma Reed e i Velvet hanno fondato un’altra branca di controcultura, l’underground dell’underground: la Summer of Love a New York non ci era nemmeno arrivata. In Uptight, storia orale dei Velvet, Sterling Morrison ricorda che nel 1968 greggi di adolescenti sempliciotti della media borghesia si spostarono in massa sulla West Coast; immediatamente dietro a loro seguivano “every creep, every degenerate, every hustler, booster, and ripoff artist, every wasted weirdo”, una banda di approfittatori che piantò baracca e burattini convinta di aver trovato la terra promessa, lasciando Manhattan come un parco giochi per Warhol e soci. Loro nel “Grande abbaglio” non ci sono mai cascati. Volevano esporre l’altra faccia dei Sixties, quella tesa, spietata, paranoide. Un’attitudine condensata nella cover di White Light/White Heat, ideata da Warhol e commissionata a Billy Name, artista di casa Factory: un frame in bianco e nero prelevato dal film di Andy Bike Boy (1967) che ritrae un teschio tatuato sul bicipite dell’attore Joe Spencer, messo in negativo, ipersaturato e piazzato su sfondo nero. L’antitesi dell’immaginario variopinto e floreale à la Sgt. Pepper che era ovunque all’epoca.
Sul movimento hippie anche Lou Reed aveva gli stessi dubbi. In un’intervista per Rolling Stone del 1987 diceva: “It was very funny – until there were a lot of casualties. Then it wasn’t funny anymore. I don’t think a lot of people realized at the time what they were playing with. That flower-power thing eventually crumbled as a result of drug casualties and the fact that it was a nice idea but not a very realistic one”. Reed era allineato con Trilling nel valutare questa prima via verso l’autenticità come sprovveduta e inconsapevolmente votata al nichilismo. Convergono anche sull’alternativa, la risposta emotiva e culturale che la letteratura avrebbe dovuto offrire: Trilling la illuminava con la visione critica e Reed la sostanziava con la sua poetica.
Trilling isola un contromodello tramite cui immaginare l’evoluzione del personaggio moderno (e di riflesso, dell’essere umano moderno) non solo in chiave distruttiva. È la condizione dell’evangelico povero di spirito, la “peculiare santità del malato, del debole, del morente”. Una indicibile dolcezza e pazienza che scaturisce dal ripiegarsi sulla sofferenza. “Una specie di virtù” che consente di restare impassibili di fronte alla livella macchinica e spersonalizzante della società, e di intuire un “modo di essere solidi, semplici e sinceri” che è simile a “essere un vegetale”. Evocando la nuda vita del vegetale, Trilling coglie il valore del fondo biologico nel significato non reazionario, anzi, liberatorio, che possiamo conferirgli. Ci dice che la cultura non è onnipotente; c’è un residuo umano che la società non riesce a controllare e condizionare, e che questo residuo, per quanto elementare possa essere, vale a sottoporre la cultura dominante a una forma di disobbedienza e a contestarne l’assolutismo. Un gesto antieroico, che esalta la singolarità in quanto senziente e paziente.
Trilling ne trova un esempio nelle “epifanie” composte da William Wordsworth nelle Lyrical Ballads (1798). Sono momenti di autenticità, enigmatici ma rivelatori, in cui i sensi accelerano e il sentimento della vita si intensifica; hanno sempre come luogo e agente un qualche personaggio comune e ai margini – un raccoglitore di sanguisughe, una donna in lutto, un vecchio pellegrino. Individui che senza volerlo, per qualcosa di detto, fatto, oppure omesso, manifestano improvvisamente la qualità del loro essere particolari e così rendono percepibile anche la meraviglia dell’essere in quanto tale. Perché il miracolo si compia è cruciale che il personaggio sia al fondo della scala sociale, un indigente o persino mutilato fisicamente: un uomo anziano da muoversi a malapena, una donna stordita dal dolore, un ragazzo idiota balbuziente che non riesce a dire il nome della luna. Sono tanto in basso che si può giungere a chiedersi se siano ancora umani, ma proprio per questo sono scelti come luoghi-limite rivelatori di cosa significa davvero essere umani.
Le storie e i personaggi di Reed fanno la stessa cosa. Con uno stile minimalista che arriva alla lucidità chirurgica della cronaca, Reed ci prende per mano, ci porta dove l’inferno è in terra, e “cammina nel fuoco passandosi la lingua sulle labbra” (“Magic and Loss”). Visitiamo la pena e il degrado di prostitute, sbandati, pazzi, eroinomani; ma la verità di Reed sulla sofferenza umana non è mai neutra, non c’è solo descrizione. Lou disse: “Ho sempre pensato che le mie parole andassero al di là del reportage e prendessero posizioni emotive benché amorali”. Nelle sue canzoni, dove tutto è buio e freddo, arriva un punto in cui il gioco delle parti si squarcia, e la sua voce penetra fino alla luce pulsante che è il fondo di umanità in ciascuno.