L’ omicidio di Reeva Steenkamp per mano di Oscar Pistorius, le torture nella prigione siriana Saydnaya, l’arresto del coltivatore indoor di marijuana Danny Lee Kyllo in Oregon. Tre casi giudiziari apparentemente slegati che hanno però un elemento in comune: in ognuno di essi, in fase processuale, le barriere architettoniche hanno giocato un ruolo fondamentale.
Pistorius avrebbe potuto riconoscere attraverso la porta del bagno la voce della moglie che stava urlando? I suoni di quali torture potevano raggiungere le orecchie dei prigionieri politici di Saydnaya, e che ruolo ha avuto l’architettura del carcere nel diffondere questi suoni? Gli agenti di polizia che in assenza di un mandato di perquisizione hanno usato una macchina termica per rilevare le lampade di Lee Kyllo attraverso le mura di casa, hanno commesso una violazione?
L’analisi di questi tre casi è il soggetto di Walled Unwalled, l’ultimo video dell’artista, ricercatore e perito fonico forense Lawrence Abu Hamdan. Il video consiste in un monologo dell’artista all’interno dei vecchi e inquietanti studi della Rundfunk, radio pubblica della DDR, ed è visibile in questo momento in Italia nella tappa torinese della Biennale de l’Image en Mouvement e all’interno dell’esposizione centrale della Biennale di Venezia.
Il titolo dell’opera – una formula intraducibile che significa qualcosa come mura senza mura – riflette un paradosso. Negli ultimi vent’anni il concetto di muro come barriera è stato in parte consolidato: nel 2000 i confini fortificati tra stati sovrani erano quindici, oggi sono sessantatre. Allo stesso tempo, però, le barriere fisiche non sono più impenetrabili. Mentre questi muri venivano eretti, gli scienziati scoprivano come sfruttare i “muoni” – particelle cosmiche che interagiscono raramente con la materia – per attraversare superfici impenetrabili ai raggi X. Grazie a queste nuove tecnologie è stato possibile rivelare una nuova camera segreta all’interno della piramide di Kuhfu, ma anche ispezionare il contenuto di container da spedizione per svelare eventuali traffici illeciti.
Now no wall on earth is impermeable. Today, we’re all wall, and no wall at all.
Le opere di Abu Hamdan emergono all’intersezione tra pratica artistica e attività giudiziaria. Nella sua esperienza come perito fonico forense, chiamato ad analizzare e testimoniare in sede processuale, è cresciuta la sua consapevolezza del peso politico dell’ascolto: “Il mio ruolo, in quanto artista che ha una relazione intima con il suono, con le sue tecnologie e la sua politica, era di reclamare l’ascolto forense da coloro che sono in una posizione di potere totale, ma anche di affermare il ruolo dell’artista come produttore di prove in un momento in cui la contraffazione di prove e la produzione di immagini, suoni e narrazioni specifiche sono intimamente interconnesse (…) Non per far emergere e rivelare semplicemente la fallacia della produzione di verità, ma imparandolo come pratica estetica, appropriandomi di strategie e intervenendo al suo interno” (Sounding Phoney, intervista con Mihnea Mircan, 2015).
The Whole Truth è un audiodocumentario dell’artista del 2012. Il titolo dell’opera si riferisce al giuramento che precede la testimonianza in tribunale, l’atto che apre lo spazio concettuale del processo. La frase “giuro di dire la verità, nient’altro che la verità” è trasformativa delle condizioni di discorso e di ascolto: da quel momento la voce diventa verità legale.
Oggetto del video sono i software utilizzati dai governi europeo, russo e israeliano e da agenzie assicurative di tutto il mondo per riconoscere se una persona stia mentendo. Gli algoritmi alla base di questi software misurano microvibrazioni della voce che rifletterebbero la tensione emotiva della persona interrogata: una versione aggiornata, ma non meno controversa, della vecchia macchina della verità.
Nello stesso anno, Abu Hamdan lavora a The Freedom of Speech Itself, un’installazione costituita da una composizione audio e dalla riproposizione in forma di scultura di due voiceprint (il corrispettivo vocale di un’impronta digitale) che dicono la parola “you”. I bordi delle sculture richiamano le forme di una mappa: l’opera si focalizza sulla storia dell’analisi delle voci in sede processuale, riferendosi in particolare alla problematica pratica inglese dell’analisi dell’accento per determinare l’origine dei richiedenti asilo.
Entrambe queste opere puntano il dito contro la connotazione della voce come dispositivo di verità e di democrazia: “La retorica della democrazia liberale è di dare voce a tutti. Eppure credo fortemente che la voce non possa essere data conservando il suo valore politico”. Non solo: “La libertà di parola promuove una società che non può avere segreti.”
Negli ultimi anni sempre più artisti hanno iniziato a dedicare il proprio lavoro ai meccanismi di costruzione della verità. Forensic Architecture è un gruppo formato da architetti, accademici, artisti, registi e sviluppatori nato nel 2010 attorno al Centre for Research Architecture della Goldsmiths University. Forensic Architecture si occupa di portare avanti indagini alternative riguardo a casi di violazione dei diritti umani, di violenza di stato o aziendale. I risultati delle indagini vengono poi restituiti al pubblico attraverso installazioni audiovisive.
Eyal Weizman racconta il processo che l’ha portato a fondare il progetto:
Fino a una decina di anni fa, avrei trovato piuttosto ripugnante l’idea di un istituto forense. (…) Questo riorientamento della mia pratica riflessiva è stata una risposta ai cambiamenti nella trama del nostro presente e nella natura del conflitto contemporaneo. Il sistema mediatico e di informazione rende possibile da parte dello stato autoritario la manipolazione e la distorsione dei fatti riguardanti i suoi crimini, ma offre anche nuove tecniche grazie alle quali gruppi interni alla società civile possono invertire lo sguardo forense e monitorarlo.
Abu Hamdan ha più volte messo le proprie competenze al servizio del collettivo: parte di Walled Unwalled nasce dall’indagine sulla Saydnaya Prison che Forensic Architecture porta avanti dal 2016.
La Saydnaya Prison si trova una ventina di chilometri a nord di Damasco. Ne esistono solo alcune immagini satellitari, e l’ingresso è interdetto a chiunque non sia una guardia carceraria o un detenuto. Sono pochissime le persone che sono state rilasciate da Saydnaya, ma le testimonianze non lasciano dubbi sulla natura del centro – non solo di detenzione illegale, ma anche di tortura ed esecuzione di massa.
Forensic Architecture ha ricostruito un modello tridimensionale della struttura attraverso le immagini satellitari e i verbali di testimonianze disponibili. La ricostruzione è funzionale alla “situated testimony”, un metodo di intervista sviluppato in collaborazione con l’unità di Psicologia Forense della Goldsmiths University: l’utilizzo di modelli tridimensionali degli ambienti in cui è stato vissuto un evento traumatico facilita il ricordo e la raccolta di informazioni dai testimoni.
Le persone intervistate da Forensic Architecture sono rimaste bendate per l’intero periodo della prigionia. Se questo gli ha impedito di vedere ciò che avevano intorno, li ha anche resi particolarmente attenti ai suoni e ai rumori del carcere. Abu Hamdan ha individuato un ricordo ricorrente nelle testimonianze: sentivano le pareti della cella vibrare per i colpi subiti da altri prigionieri, in celle sicuramente non adiacenti ma la cui posizione rimaneva non identificabile. I prigionieri hanno descritto questo rumore come simile all’abbattimento di un muro.
Grazie alle immagini satellitari, alle situated testimony e ai test di riverbero con diverse armi e materiali, Abu Hamdan è riuscito a ricostruire la pianta della prigione deducendo la dimensione delle celle e la posizione delle scale e dei corridoi.
Ne è emersa una pianta nota: le tecniche di acustica carceraria, nate con lo scopo di creare ansia e paranoia nei detenuti, sono state perfezionate nella DDR. La pianta della Saydnaya Prison è tratta da un modello elaborato in quel contesto: la cosiddetta “Mercedes Benz” delle prigioni, sia in virtù della sua origine tedesca, sia della sua forma, simile al celebre logo della casa automobilistica.
Caratteristica della struttura è infatti quella di avere tre bracci posti a raggio attorno a una “torre di ascolto centrale”. Quest’ultima funziona da cassa di risonanza, permettendo alle guardie di sentire ciò che accade a tutti i piani dell’edificio, e al tempo stesso di trasmettere efficacemente i rumori delle torture.
Nei test con i testimoni, Abu Hamdan è riuscito a identificare un rumore in particolare: il colpo dato da un tubo rigido, spesso mezzo centimetro e con un diametro di 4 cm. Nel momento del colpo, l’aria attraversa il tubo, creando un’onda d’urto diretta verso la torre centrale alla frequenza di 250 HZ, l’esatta frequenza alla quale i muri della Saydnaya Prison sono stati costruiti per vibrare, e per farlo a sufficienza da somigliare alla demolizione di un muro.
L’esperienza di Saydnaya ha cambiato la prospettiva di Abu Hamdan sui confini, gli spazi e il loro rapporto con il suono, come afferma in un’intervista con Ellen Greig: “Ho cominciato a interpretare i muri in maniera molto diversa: hanno la funzione di bloccare e isolare, ma anche di far penetrare, definire e sfocare i confini tra gli spazi attraverso il suono. È anche un’allegoria di come funzionano oggi i confini in relazione alla tecnologia. Oggi pensiamo di essere più aperti che mai, ma in realtà (…) siamo più chiusi che mai. Lo stesso fatto che internet dovrebbe essere il connettore che elimina tutti i muri, come tutti i media pretendono di fare, che rompe le barriere – e lo fa in molti modi – ma al tempo stesso la tecnologia che dovrebbe garantire l’apertura viene usata per sorvegliarci. È cambiato completamente il modo in cui penso ai confini. La violenza dei confini non sta nel rinchiudere, ma in realtà in quello che consentono, che permettono, come trattengono o filtrano. È come filtro che sono violenti, non come oggetto solido che non si possa sorpassare”.