I l mio primo incontro con Massimo Raffaeli è stato alla radio. La sua voce, che avrei presto trovato familiare – cupa e sulfurea –, raccontava Osvaldo Licini. La casa-museo a Monte Vidon Corrado era stata scelta dalla rubrica di Radio3, “Le meraviglie”. Quello che trattenne il dito dal cambiare pigramente stazione fu l’accostamento che Raffaeli stava facendo tra il colore del cielo della provincia di Fermo e l’inclinazione artistica di Licini. Un raffronto apparentemente improvvisato, tirato forse troppo per le lunghe, eppure a riascoltarlo, o rileggerlo, ben saldo.
Al centro di questa piazza, un pugno di case con dei mattoni che i muratori chiamano “faccia a vista”, i colori si fanno più tenui, quasi in coabitazione, in mite contrasto, con il cielo che Licini ha dipinto, ma anche ha visto, per quasi tutta la sua vita. È un colore molto tenero, ma nello stesso tempo è un colore che somiglia all’estro di questo scrittore che anche quando è sbrigliato non è mai invasivo, non è mai invadente, non è nemmeno eccentrico. È semplicemente libero come può essere libero lo spazio di un cielo o della mente di qualcuno che abbia la purezza dalla sua, che abbia una percezione limpida dell’essere a questo mondo.
Critico, docente e filologo; Massimo Raffaeli nasce a Chiaravalle, nelle Marche. Il suo lavoro è legato ai periodici, come il Manifesto e La stampa, e agli inserti culturali. La lunga collaborazione con Alias, dal 1998 al 2009, si può leggere nella raccolta “Bande à part” (Gaffi, 2011). Ha curato i testi di autori italiani come Paolo Volponi, Carlo Betocchi, Alberto Savinio, Franco Fortini; e francesi. Tra i suoi autori prediletti, Émile Zola, Louis-Ferdinand Céline, René Crevel.
Uno dei miei più grandi maestri, Franco Fortini, si è chiesto: cosa ci interessa delle arti, della poesia, della pittura e – fatte le debite proporzioni – di una giocata di Maradona? Il privilegio e la grandezza di dare una forma compiuta. Noi viviamo una vita che è scandita nello spazio e nel tempo dalla parzialità. L’arte è la restituzione di una totalità che non c’è mai dato di vivere.
Il paragone tra una poesia e “una giocata di Maradona” non è extravagante nel corpus bibliografico di Raffaeli. Qui si legge: “Scrive di letteratura e di calcio, entrambe passioni della sua vita”. In un’intervista ha ammesso che “non si potrebbe dirlo meglio: io non riesco nemmeno a distinguere, se guardo alla mia infanzia, agli anni della primissima formazione, queste passioni iniziatiche”. Ogni tanto capita che ai convegni universitari, il compilatore del suo curriculum – forse di proposito – ometta i suoi libri su Sivori o sulla “poetica del catenaccio”.
Come il compilatore del curriculum di un convegno, anch’io ho un Massimo Raffaeli preferito. Quello della radio. Da anni lavora con Radio 3, ed è diventato una colonna di Wikiradio: un programma tanto semplice nel formato quanto complesso nel lavoro critico che nasconde.
La critica è interpretata da Raffaeli secondo il suo senso letterale di “scelta, distinzione”. Come ha scritto Andrea Cortellessa nel saggio La fisica del senso (Fazi, 2006), “orgogliosamente ribadito” da Raffaeli: “La critica ha semplicemente l’ufficio di scegliere, selezionare, tramandare. Se non lo fa lei, c’è sempre qualcun altro pronto a farlo in sua vece; magari semplicemente il mercato, sempre pronto a farsi giustizia da sé”. Durante un incontro nello spazio autogestito “Arvultura” di Senigallia, Raffaeli, invitato a parlare di John Reed, cita Sanguineti, e parafrasando un suo paradosso mostra uno degli strumenti critici a lui più congeniali:
Qual è l’elemento fondamentale nell’arte del Novecento? Nella pittura, nel cinema, nella letteratura? È il montaggio. Far diventare sovrano un elemento molto semplice, il bricolage. […] Molti credono che buona letteratura sia rispecchiare fotograficamente. Può esserlo. Šklovskij invece dice che è buona letteratura quella che ti fa vedere una cosa come non la vedi mai. La mossa del cavallo. Il cavallo è l’elemento anomalo, quello che decostruisce i tuoi automatismi percettivi.
Sempre in quell’incontro, il critico ricorda Franco Fortini che, nel ’56, per raggiungere la Cina passò da Leningrado. Quando arriva il momento di raccontare cosa rimane della rivoluzione, Fortini mette a fuoco tre punti (la Neva, una sera di pioggia e il bacio di una coppia). L’ultimo punto è “la mossa del cavallo” di cui parla Raffaeli:
A Leningrado vicino alla Nievà,
una sera di pioggia si baciavano una donna e un marinaio.
Mi tornano in mente quei due,
quando condanno questa stanza dove lavoro e invecchio.[Qui Libri, in Versi scelti 1939-1989, Einaudi, 1990]
Le parole, nelle lezioni radiofoniche di Raffaeli, sono meditate. Come ha scritto Davide Brullo, il critico guarda ogni cosa “fino a tredici volte, da ogni lato possibile, poi cuce le frasi, dà ordine grammaticale all’effimero”. Nella fruizione è fondamentale anche la sua voce. Le frasi ascoltate sono sempre, in una certa misura, imprevedibili: non possiamo contare sull’occhio che anticipa il testo.
I soggetti dei suoi ritratti sono in prevalenza “malinconici”. Consapevoli di soffrire di una mancanza, elaborano un’assenza. Quale? “Il dare una forma alla propria vita”: si potrebbero prendere in prestito le parole che lo stesso Raffaeli ha usato per raccontare in radio Cesare Garboli. Un critico che “cercava nei suoi autori, parola semplicissima e insieme temeraria, l’immagine di un destino. […] Esistenze inadempiute, testi in cui prende forma sempre, per un equilibrio impensabile, miracoloso, la stessa esistenza inadempiuta dell’autore”.
Il gusto di Raffaeli è “tradizionalista”, come scrive nell’introduzione di Bande à part, “forse, sottotraccia, classicista, che alcuni miei amici e colleghi definiscono, più o meno, teocon”. Ci sono i poeti italiani (Caproni, Fortini, Rebora, Penna), francesi (Prevert, Eluard), i romanzieri della Resistenza e quelli degli “ambiziosi naufragi” come Mario Soldati. Tra le lezioni più belle, però, c’è quella di un cantautore – una mossa del cavallo – Piero Ciampi.
L’incipit dà l’idea di un montaggio letterario à la Raffaeli. Vale la pena sbobinarlo per intero.
La prima immagine che ci viene incontro è quella di un uomo solo e trasognato che alle tre di notte—una notte di pioggia—sta aspettando il 47 notturno a Roma, dalle parti della Balduina. Così se lo ricorda, in uno scritto che uscì nell’87 sulla rivista “Prato Pagano”, una voce della poesia di oggi, Silvia Bre, e aggiunge che quell’uomo, solo, alle tre di notte, aveva un sorriso così bello da sembrare sbagliato. Quell’uomo abitava esattamente al 405 di viale delle Medaglie d’oro, in un piano terra, in pratica un garage, dove non c’erano né acqua corrente, né gas, ma solo un letto e una sedia appendi-abiti. Quell’uomo si chiamava Piero Ciampi e sarebbe morto all’ospedale San Filippo Neri di Roma il 19 gennaio del 1980. Poco prima di spegnersi, come ultimo desiderio, aveva chiesto un fiore e un bicchiere di vino fresco.
Nell’incipit su Silvio D’Arzo, dal campo lunghissimo del Novecento, la cinepresa di Raffaeli, in un piano sequenza vertiginoso, stringe fino al dettaglio, al “provinciale”. E attraverso il parallelismo, volutamente reboante, con un grande poeta del secolo passato, Fernando Pessoa, ci presenta Silvio D’Arzo, “uno che in vita sua ha pubblicato poco o niente”. Uno scrittore la cui scelta di adottare eteronimi e pseudonimi, rispetto a quella del portoghese, è stata dettata da motivi prosaici.
Nel secolo delle masse che è il Novecento, dire “io” ha cominciato a essere molto presto un’impresa difficile. Tanto che molti scrittori si sono dati uno pseudonimo. Alcuni, come il poeta portoghese Fernando Pessoa, una serie, addirittura, di eteronimi. Molto meno celebre di Pessoa ma come lui pseudonimo ed eteronimo è stato uno scrittore italiano della metà del ventesimo secolo, che in vita sua ha pubblicato poco o niente, ed è morto a soli 32 anni. Firmandosi, di volta in volta, Oreste Nasi, Tullio Mari, Aldo Colli, Adelmo Ferrari e Raffaele Comparoni. Quest’ultimo, un eteronimo molto vicino al nome vero, e cioè Ezio Comparoni. Ezio Comparoni nato a Reggio Emilia il 6 febbraio del 1920 e morto di leucemia in una clinica della sua città, il 30 gennaio del ’52, a soli 32 anni, sceglie come pseudonimo definitivo quello di Silvio D’Arzo. Un nome che è di copertura a una situazione familiare per quei tempi difficile e, in provincia, quasi insostenibile: quella di figlio di padre ignoto.
Tra gli scrittori francesi più amati c’è Louis-Ferdinand Céline. Il ritratto di questo “sommo stilista e scrittore” e allo stesso tempo “autentica, imperdonabile canaglia” è esemplare nel modo in cui – il critico – dosa il tempo e modella lo spazio del racconto. Dedicando, ad esempio, una lunga parentesi alla vicenda editoriale di Viaggio al termine della notte. Un episodio che lo stesso scrittore francese ha già raccontato tante volte, ma che Raffaeli vuole riprendere. Prestando attenzione alla geolocalizzazione del manoscritto:
Dunque, un giovane editore belga di stanza a Parigi, in Rue Amélie, Robert Denoël, si vede recapitare un giorno un doppio scartafaccio con stampato sopra l’indirizzo di una donna, che vive nella Rue Lepic, a Montmartre. C’è dentro un romanzetto rosa e poi una cosa esorbitante, una montagna di cartelle scritte e, per giunta, in “argot” cioè nel gergo basso, popolare, dei francesi. Una storia picaresca, straordinaria, che Denoël comincia a leggere e finisce di leggere all’alba. Entusiasta forse estasiato persino esterrefatto dalla sua scoperta, Denoël cerca, il giorno dopo, la signora nella Rue Lepic, ma non gli ci vuole molto a intuire che lei è l’autrice soltanto del romanzetto rosa, quello che Robert Denoël non ha nemmeno terminato di leggere. L’altro romanzo, esorbitante, gli confessa la signora stessa, “non è il suo, ma del medico pazzo”, così gli dice, che abita al piano di sopra e che l’ha pregata, letteralmente, di spedirlo con il suo.
Come nel caso della lezione su Piero Ciampi anche con Céline sono gli altri, nella fattispecie una poetessa e un’aspirante scrittrice, a raccontare di riflesso il protagonista del ritratto. Allo stesso modo, per Gianfranco Contini, Raffaeli chiama in causa Pier Paolo Pasolini. Partendo dalla recensione che il critico domese ha scritto per Poesie a Casarsa.
È scritto in quella recensione: “Il sentimento dominante funziona rigorosamente entro l’equivalenza linguistica. D’altra parte si conceda una certa durata di digestione a questo friulano che non è libro di tutti i giorni”. Di quell’articolo, Pasolini farà un mito, anzi una specie di mito iniziatico, di avallo assoluto, quasi un atto di nascita di lui scrittore. E dirà, molti anni dopo, presentando da Garzanti una sua auto-antologia: “Chi potrà mai descrivere la mia gioia, ho saltato e ballato per i portici di Bologna e quanto alla soddisfazione mondana cui si può aspirare scrivendo versi, quella di quel giorno è stata esaustiva. Ormai posso benissimo farne per sempre a meno”.
Soltanto dopo alcuni minuti – nella puntata di Wikiradio –, Raffaeli svela il nome di quel recensore: Gianfranco Contini. “Destinato, nel dopoguerra, dopo la morte di Benedetto Croce, a ereditare lo scettro, per così dire ‘per unanime verdetto’, di maggiore critico della nostra letteratura”.
Compulsando le sue lezioni si trovano due ritratti di Mario Rigoni Stern. Uno di Raffaeli, del novembre del 2011, l’altro di Eraldo Affinati, del giugno 2016. Basta un confronto tra i due attacchi, per comprendere la caratura del montaggio. Raffaeli racconta lo scrittore e alpino non attraverso una procedura cauta, composta di date e di brevissime osservazioni. Principia così Affinati: “Era nato il primo novembre 1921, ad Asiago, morì, a 87 anni, il 16 giugno del 2008. Esattamente otto anni fa. Le origini della sua famiglia non erano certo aristocratiche…”.
Il critico di Chiaravalle preferisce iniziare, al suo solito, senza citare direttamente l’autore, ma una scolastica edizione del Sergente nella neve:
Alla metà degli anni sessanta circolava nelle scuole medie un particolare libro tutto bianco con una listatura in rosso e uno strano disegno che sembrava alludere a degli sciatori. In realtà gli studenti di allora, debitamente guidati, riconoscevano, prima o poi, che quelli non erano degli sciatori qualsiasi, ma erano degli uomini dispersi dentro una tempesta di neve. E che quel libro aveva un titolo consono alla sua copertina: “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern.
Le lezioni di Raffaeli sono adorne di riferimenti bibliografici, consigli di lettura che da una parte invogliano l’ascoltatore ad approfondire e dall’altra rendono più dinamico il ritratto. Tra i professori di Beppe Fenoglio c’è il filosofo Pietro Chiodi, “massimo studioso e traduttore di Martin Heidegger niente meno, che come ex partigiano scriverà a sua volta un bellissimo libro di ricordi, uscito da Einaudi nel ’75 e col titolo, un po’ antifrastico, Banditi”.
Nella puntata su Rigoni Stern elenca alcuni capolavori di testimonianza bellica, quasi fosse un corso universitario di letteratura di guerra. Il nudo e il morto di Norman Mailer, L’entrata in guerra di Italo Calvino, I ventitré giorni della città di Alba di Beppe Fenoglio, La guerra dei poveri di Nuto Revelli , Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu e La guerra del soldato Tamura di Shohei Ooka “che venne tradotto al cinema alla fine degli anni ’50 nello splendido bianco e nero di Ichikawa dal titolo Fuochi nella pianura”.
Appassionato di cinema, Raffaeli si diverte, ogni tanto, a intersecarlo con la letteratura. Mostrandoci parallelismi interessanti, come quello tra Bardamu e Robinson del Voyage di Céline e Noodles e Max di C’era una volta in America di Sergio Leone. Casa d’altri invece, secondo lui, “avrebbe meritato la regia spoglia, essenziale di un Robert Bresson”. E non quella di Alessandro Blasetti.
Insomma Raffaeli non rispetta sempre gli stretti tempi radiofonici e per parlare di scrittori non usa esclusivamente le vie, più battute, della letteratura. Lo si sorprende, talvolta, incantato a guardare altrove. Come in questa digressione:
Casa d’altri già nel titolo parla di estraneità. Di esilio, quasi di inappartenenza alla vita. Neanche si tratta di una storia, ma di una vicenda tutta interiore. Il paese in cui la vicenda è ambientata, Montelice, in realtà è il paese di sua madre, Rosalinda Comparoni. E cioè Cerreto dell’Alpi, in alto sulla strada statale 63, che da Reggio Emilia va a La Spezia. Un paesaggio dirupato, scosceso, di pietre grigie e di pochissime anime, un paesaggio pochissimo frequentato nella sua totale severità se non per elezione dai grandi fotografi reggiani, dal decano Stanislao Farri, al più giovane Franco Camparini, che, infatti, oggi definisce quel paesaggio, semplicemente, “paesaggio solitario”.
Le sue lezioni, nonostante le digressioni, non sono manchevoli. Quando è necessario, Raffaeli affronta la materia letteraria. Le sue osservazioni a volte sono fulminanti, altre, didattiche. In questa citazione, le due tipologie sono all’interno di uno stesso discorso.
Se Proust ha dragato la vita da dentro, ha fatto della psicologia un’arte architettonica, per parte sua Céline è stato il poeta epico della vita dal basso, pulsante e vissuta da sotto. Della vita corrispondente, si potrebbe dire, agli inferi sociali. […] Céline è l’ultimo degli scrittori naturalisti, l’ultimo allievo di Zola, ma è il primo, in Francia, dei cosiddetti “antiromanzieri”. Uno che sceglie di scrivere non delle cose che si vedono, ma sul filo dell’emozione. E sceglie di portare sulla pagina confessioni inconfessabili, molto spesso innominabili. Cioè il rancore, l’odio, la violenza di cui sono capaci gli esseri feriti e umiliati.
La “totalità” di una vita – tornando alla lezione di Fortini – si restituisce, nei ritratti di Raffaeli, anche con la voce stessa dei protagonisti. È il caso della divertente citazione che chiude la lezione su Giuseppe Ungaretti. “L’uomo di due guerre, il superstite lupo di mare” è colto in un momento tenero. Prima di leggere una sua poesia, scherza con la nipotina, la vuole presentare alle telecamere della RAI, ma è timida. La scelta di un simile frammento può sembrare soltanto buffa, ma descrive in maniera precisa l’allegria “primitiva” del vecchio Ungaretti. Un poeta che come ha ricordato il critico è un “beniamino della vita”.
“Ecco ancora qui l’antico Ungaretti, e questa volta con una [incomprensibile] bimba che è la sua nipote e si chiama Annina… Eh? Ti chiami Annina?
“Anna.”
“Ti chiami soltanto Anna?”
“Eh.”
“Si chiama soltanto Anna!”
Per delineare “l’unicità” di un critico come Cesare Garboli, “che si sentiva tennista in un campo di calcio, e un calciatore in un campo da tennis”, viene scelto un lungo stralcio da un’intervista di Massimiliano Capati:
Verso la fine degli anni sessanta, più o meno dopo l’alluvione di Firenze e un po’ prima di piazza Fontana, tra il ’66 e il ’69, io andai in Vietnam. Volevo rendermi conto di tante cose che si dicevano allora, dovevo scrivere degli articoli. Mi si aprirono un po’ gli occhi, non nel senso conformista di allora, ma mi sentii più solo che mai, al ritorno. Allora decisi che avrei smesso di fare avanti indietro, sarei vissuto a Roma, e affittai un piccolo appartamento nel centro, a via Borgognona, che tutti mi dissero – anche una donna con cui allora vivevo mi disse – che era un appartamento di una tristezza e di uno squallore rari. E io mi resi conto che lo avevo scelto per questo. Era un appartamento che poteva essere quello di una maestra di violino o di un professore di lezioni private di greco. Ecco, una cosa di questo genere. Solitario e un po’ suonato come certi professori che danno ripetizioni. Io andai lì di proposito, perché avevo bisogno di una – mah! – lei si meraviglierà… avevo bisogno di una vita squallida.
Nella prefazione “Al lettore” dei suoi Scritti Servili (Einaudi, 1989), Cesare Garboli spiega la differenza tra scrittori-scrittori e scrittori-lettori: “Lo scrittore-scrittore lancia le sue parole nello spazio, e queste parole cadono in un luogo sconosciuto. Lo scrittore-lettore va a prendere quelle parole e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo. Non è la stessa distinzione che intercorre tra autori e critici. Questa distinzione è professionale, e riguarda i sindacati. La distinzione tra scrittore-scrittore e scrittore-lettore riguarda ogni scrittore e ogni lettore. È uno specchio: lo specchio grazie al quale il mondo rimane sempre lo stesso e non finisce mai”.
Ogni puntata di Wikiradio di Massimo Raffaeli è il reportage di viaggio di uno scrittore-lettore. In cui le parole oscure tornano a noi piene di senso, le vite parziali trovano una totalità, gli atti disgregati diventano compiuti, perfetti. “Leggere è vedere”, diceva Garboli: “scrivere è essere ciechi.