H o riletto i fumetti di Ad Reinhardt (1913 – 1967), maestro americano purista dell’astrazione, ma anche critico, scrittore e vignettista militante. I fumetti di cui scrivo fanno parte della serie How to Look, pubblicata nel 1946 sulle pagine del quotidiano progressista PM. Il loro scopo era quello di educare il pubblico di lettori americani alla comprensione intellettuale e alla percezione sentimentale della pittura astratta (su questa singolare parte della produzione di Reinhardt il 9 marzo 2018 ha inaugurato un’importante mostra alla Galleria Civica di Modena, Ad Reinhardt. Arte + Satira). La più profetica tra queste pagine di vignette s’intitola How to look at things through a wine-glass e mostra come è cambiata la rappresentazione di un bicchiere di vino dall’arte classica a Monet, da Seraut a Rouault, dal futurismo al costruttivismo. In un breve sketch, Reinhardt rintraccia i bandoli delle matasse che hanno mosso il desiderio dei pittori: l’uno intendeva rappresentare l’oggetto, l’altro l’impressione dell’oggetto, l’altro ancora utilizzava l’oggetto per ritrarre sé, sé e massimamente sé… Gli oggetti dipinti non sono le cose tali e quali, ma apparizioni del desiderio espressivo del pittore.
Nelle ultime quattro vignette del bicchiere di Reinhardt si parla dell’oggi, di un oggi pittorico che si era già manifestato settantadue anni fa. Con piglio critico il maestro americano sbeffeggia le ultime apparizioni del bicchiere; il bicchiere è divenuto un universo di bollicine non oggettuali, è spiaccicato in uno schematismo esoterico, è una proto-emoji ridanciana, è un catafascio pre-postmodernista che rivela il “complesso di castrazione da classe media” nutrito dal pittore. Reinhardt sembra dire che gli ultimi decenni di pittura non vanno bene, che i pittori non sanno più come affrontare questi maledetti oggetti circostanti, questa realtà greve di storia espressiva, e che dunque rifugiano nella cabala del segno o nel più meschino degli escamotage, l’ironia coatta.
Il problema della pittura oggi? In grande parte è lo stesso. Il nemico all’origine del problema? Oggi si taccia di ogni male il postmodernismo distruttore di valori e promotore della risata dell’ebete, ma la vignetta di Reinhardt dimostra che il danno preesiste al postmoderno, che il pasticcio era già in auge in pieno modernismo e sembra quasi suggerire che a un certo punto il pittore sia caduto prigioniero dell’illustrazione. Illustrazione del reale, di un conscissimo inconscio elaborato a tavolino, della sapienza, del bon mot, ma sempre illustrazione. Reinhardt non lo dichiara espressamente, lo aggiungo io: nel riferirsi al reale il pittore ha perso la trascendenza, l’inconoscibilità, la libertà di liberarsi da sé, il divino. Tra poco scriverò di come Tamuna Sirbiladze ha saputo riappoggiare le mani sulla trascendenza, ma prima urge un ulteriore racconto.
Il giorno di San Valentino, presa da un bizzarro sentimentalismo, sono andata alla Wallace Collection di Londra per guardare Watteau e Fragonard (anche se Fragonard è per l’appunto solo un’illustrazione del divino Watteau). Passeggiando per le gallerie superiori, mi sono imbattuta in un ritratto del principino Baltasar Carlos che Velázquez compì nel 1633. Usa come sono a cercare in Velázquez freddi appigli di quella che si potrebbe chiamare “teoria dello sguardo nell’età dell’oro”, mi stupii nel sentire lo sguardo del piccolo Baltasar su di me, attento. Sedendomi su un divanetto ho pensato: “Abbiamo perso il ritratto”.
Si pensi all’estremo rappresentato dal pittore Lucian Freud che è contraddizione in termini del nonno Sigmund Freud; Lucian Freud è stato un ritrattista del sé espanso, ovvero un anti-ritrattista, uno che guardando l’altro vedeva sé – ovunque: in donne, uomini e cani – un tutto-sé di lezione vangoghiana indurito dalla presa di coscienza stilistica e applicato al ritratto. I ritratti di Lucien Freud non mi ri-guardano, ma in eterno fissano lo spettro di chi li ha dipinti. Lo stesso accade in Elizabeth Peyton o in altri ritrattisti dell’io-pittore più vicini a noi. Agli antipodi dell’artista che costantemente dipinge l’io-pittore c’è il ritrattista formalista, ovvero colui che utilizza corpi umani o pezzi di essi al pari di lettere e numeri, come elementi necessari alla composizione. Dipinti in cui sia lo sguardo del soggetto, sia quello del pittore sono assenti e in cui gli occhi, se rappresentati, costituiscono esclusivamente espressioni segniche o decorazioni o riferimenti all’idea di occhio (per l’appunto, non si parla più di sguardo, ma di occhio).
“Abbiamo perso il ritratto”. Quando? Lungi dall’essere ritrattista dell’io-pittore, Picasso è sommo ritrattista dell’Altro. Pur applicando il cubismo alle proprie modelle, Picasso penetra e raccoglie l’anima dell’Altro: Françoise Gilot ha il viso ovale, ma Picasso lo disegna tondo perché non ne rappresenta l’aspetto, ma l’anima: l’anima della Gilot è tonda. E dunque quando? Mi è pervenuta risposta su un altro divanetto, quello della Tate Modern, mentre visitavo la grande e dispendiosa retrospettiva di Modigliani. Chi più ritrattista io-pittore di Modigliani? Non vediamo forse l’ossessione di Modigliani in ogni sua modella? La modella diventa carne cui applicare un modello stilistico, si perde lo sguardo del soggetto in favore dell’eterno ritorno dello sguardo del pittore. Sbadigliando mi dissi: “Modigliani peccatore”.
Quale relazione tra Modigliani e l’aspra critica di Reinhardt a certa pittura? Anche la perdita del ritratto è perdita della trascendenza. In questa perdita il sé dell’artista (ben più rognoso dell’Io) è avvolto in una pellicola antiaderente che non si squarcia mai, il sé del pittore rimbalza addosso a ogni cosa che vede, il riflesso negli occhi del pittore è il suo, estremante suo, sé. Ora che si è avuta una panoramica di questo mondo pittorico teso alla perdita della trascendenza nel guardare l’oggetto e la persona, posso finalmente scrivere del suo opposto, Tamuna Sirbiladze (1971 – 2016).
La pittrice georgiana ha saputo, negli ultimi dieci anni della propria vita, risolvere la grande urgenza della pittura attuale: nella sua opera il contenuto è tornato a essere consustanziale alla forma. Il metodo, consapevole e inconsapevole, di Tamuna Sirbiladze è in parte simile a quello di Philip Guston: raccogliere un proprio specifico e delimitato repertorio di forme e caratteri, tale da potere, in corso d’opera, sorvolare sull’affanno figurativo per dedicarsi interamente all’espressione gestuale. Laddove Guston aveva inventato un mondo di ciliegie, scalette, scarponi e polifemi, dunque una narrativa personale, Sirbiladze compie un passo addirittura più lungo: anima il simbolo universale. Il repertorio di Sirbiladze è iconografico.
La pittura di Sirbiladze è priva di sentimentalismo, priva di narrazione e di ironia, precede l’armonia e la disarmonia, sembra risalire a un tempo anteriore a quello della purezza e dell’impurità, frantuma gli ultimi quattro bicchieri di Reinhardt, come Reinhardt s’augurava; il tratto di Sirbiladze si svolge in un mondo di simboli genesiaci e violenze segniche se non preadamitiche, almeno preistoriche. Melagrane, fiori di loto, totem, mele di Eva, ninfee, anfore, maschere…
La pittrice raggiunge la perfezione nel lungo ciclo di dipinti a oil stick, tele di cotone – spesso grezze – tracciate con colori ad olio solidi. La violenza gestuale con cui Sirbiladze combatte la tela è stata associata a quella di Lee Krasner e Willem de Kooning, di cui ha saputo cogliere il profondo femminino. Quando Sirbiladze calca sulla tela il retrostante telaio, diviene evidente anche la lezione di Mark Rothko nel preferire l’angolo smussato della superellisse a quello duro del rettangolo. Il gesto di Tamuna Sirbiladze si schiude sulla tela come una rosa di Jericho posta nell’acqua. Le sue non sono composizioni, ma danze intorno a un inizio e a una fine.
Tutti noi, quindicenni o sedicenni, studiando San Girolamo nello studio di Antonello da Messina abbiamo imparato a leggere il significato della coturnice e del pavone. Più velocemente che il simbolo dell’infinito o quello di appartenenza in matematica, la coturnice e il pavone si sono sedimentati nel nostro sangue, dove già era loro riservato un posto archetipico. Se oggi un pittore, anche talentuoso, utilizzasse la coturnice e il pavone per significare purezza, redenzione e onniscienza, il gioco fallirebbe. Al contrario, in Sirbiladze il simbolo non ha alcun significato, non è parte di un rebus iconologico; è viscerale, trascende l’iconologia. Sirbiladze dipinge la melagrana con la naturalezza e il senso di appartenenza del primo pittore che l’ha raffigurata per solo poi scoprire di aver dipinto la Passione. L’oil stick è arido e screpolato, come dovevano essere le terre che circondavano il giardino degli amanti nel Cantico dei Cantici:
Come un nastro di porpora le tue labbra
e la tua bocca è soffusa di grazia;
come spicchio di melagrana la tua gota
attraverso il tuo velo. (Ct: 4. 3)
Ancora:
Giardino chiuso tu sei,
sorella mia, sposa,
giardino chiuso, fontana sigillata.I tuoi germogli sono un giardino di melagrane,
con i frutti più squisiti,
alberi di cipro con nardo. (Ct: 4. 12-13)
La casa editrice d’arte David Zwirner Books ha di recente pubblicato un ottimo catalogo di Tamuna Sirbiladze curato da Lucas Zwirner e Benedikt Ledebur, poeta e saggista tedesco compagno della pittrice negli ultimi anni (nel 2012 Sirbiladze era rimasta vedova del celebre artista Franz West). Il catalogo mostra diversi periodi dell’artista georgiana, partendo dai sublimi oil stick.
Orchidee (2015), una violentissima, velocissima aggressione in rosso della tela in moto centripeto e centrifugo; in frottage emerge il calco del telaio: una croce; impossibile esimersi dal pensare al Sacro Cuore di Gesù. Montblanc (2015), una tela quadrata di segni sciolti come neve al sole, singolarmente imperfetti, arbusti in febbraio, convivono armoniosamente nella più raffinata illogicità dell’insieme. Rebirth is Always Painful (2011): capita che Sirbiladze vada così indietro nella storia dell’uomo da ospitare feticci subsahariani in composizioni moderniste. Precedentemente e contemporaneamente agli oil stick, Sirbiladze dipinse anche molte tele in acrilico, principalmente in formato quadrato. Pomegranate (2014): una melagrana abbagliata, linee gialle selvagge e screpolate, rappresentazione scarna e immediata della velocità luminosa. Unter den roten Sternen / Cubic Rubic (Communist) (2005): una comunista schizzata in due secondi ispeziona il proprio pube alla luce di una stella rossa; la sala sembra colarle addosso nella nonchalance della pennellata.
Tamuna Sirbiladze, nata a Tbilisi il 12 febbraio, diplomata all’accademia d’arte di Tbilisi, all’accademia di belle arti di Vienna e alla Slade School di Londra, madre di due bambini, lascia un’eredità pari a quella dei grandi nomi dell’Espressionismo Astratto, aggiungendovi un’innata spiritualità da culla dei tempi, una trascendenza, una familiarità col simbolo cui alcuni celebrati Ab Ex, imbarazzati, non seppero mai arrivare.