Q uando a Gianni Rodari, intervistato nel 1979 da Nico Orengo, viene chiesto cosa vorrà fare “da grande”, una volta riposta per sempre la penna dello scrittore, lui risponde senza alcuna esitazione: voglio fare il burattinaio. “Ho un progetto sicuro, molto serio, importante: la prima cosa sarà di farmi crescere una grande barba bianca, e se non sarà bianca la tingerò di bianco, ma lunga, molto lunga e voglio fare il burattinaio”, annuncia alle telecamere della Rai, pochi mesi prima di compiere i suoi sessant’anni (e della sua scomparsa nel 1980). “Cioè voglio andare a lavorare con una compagnia di burattinai e scrivere storie solo per burattini, storie di qualsiasi tipo, anche avventure fantascientifiche, storie dell’orrore, di vampiri, ma tutto con i burattini”.
I burattini. Se potesse scegliere come invecchiare, Rodari sceglierebbe di farlo insieme ai pupazzi, a queste maschere plasmate nella cartapesta, nel legno e nella stoffa, animate dalla sola voce e dalla forza delle mani. Mani che sbucano da teatri improvvisati, nelle strade e nelle piazze, e che parlano spesso ai bambini – ma non solo – nella lingua popolare del dialetto: teatri dove a spopolare è il pupazzo “birichino”, il “monello” che ride per ogni cosa, che bastona i potenti e che percuote imperatori, azzeccagarbugli e briganti. A picchiare forte è il suo nodoso bastone, da cui non si separa mai, e che fa del suo personaggio il simbolo del piccolo che abbatte il grande, della forza semplice che si ribella all’ingiusto. Un po’ come Cipollino, che nel libro di Rodari muove contro l’aristocratico e acido principe Limone un esercito fatto di umili pomodori, ciliegie, fagiolini e vecchie talpe, in una guerra assurda fatta di beffe, scherzi e avventure geniali.
Secondo alcuni, quella dei burattini è da sempre un’arte schietta e libera. In qualche modo anarchica. Ed è forse per questo che i burattinai si sono spesso dimostrati, negli anni più bui della nostra recente storia, personaggi creativi, istrionici, insofferenti a gabbie e a rigidi schemi, così come al controllo delle autorità. Nel 1917 l’ufficiale Angelo Ruozi Incerti, al fronte con l’esercito regio del comandante Diaz, scrisse il copione di “Sandrone Soldato” mentre si trovava prigioniero a Celleger in Germania dopo la disfatta di Caporetto. Il testo, riportato recentemente in scena da FèMa Teatro e dall’associazione Mirni Most (Un ponte per la pace), racconta la storia del contadino Sandrone e dei generali che lo hanno spedito in guerra per i loro interessi: una sceneggiatura dal forte tono antimilitarista, che diventa critica sagace agli alti comandi dell’esercito regio e a chi ha trascinato i soldati in una guerra mai voluta. “I miei compagni sono tornati storpi e senza gambe – dice Sandrone – proprio come i burattini”.
A Bergamo, il famoso burattinaio Pasquale Strabelli, detto Pasqualì, faceva la spola tra la piazza e la caserma dei gendarmi ogni volta che i suoi pupazzi le suonavano ai soldati croati e alla dominazione straniera. Ventiquattro ore di pane e acqua erano la ricompensa fissa per le parole taglienti del suo Giopì, mentre la sua baracca – racconta Sereno Locatelli Milesi in uno scritto del 1932 – “era la cattedra, modesta, dalla quale partiva ogni sera la voce della rivolta, larvata di umorismo, il grido della rivoluzione, mascherato dal riso”. Non molti anni dopo a Guastalla, Reggio Emilia, il “contafole” Marion custodiva nel doppio fondo della cassetta della sua bicicletta volantini e messaggi antifascisti, talvolta delle armi per i ragazzi diretti in montagna. Una sera si beccò anche qualche pugno e vide la sua baracca distrutta dopo che il suo Sandrone con il mal di pancia aveva confessato all’amico Fagiolino di aver “magnē un fasista”, di avere mangiato un fascista: “Ho ancora i suoi scarponi sullo stomaco e non riesco proprio a digerirli”.
E poi c’è la famiglia Sarzi, storica casa di teatranti e di burattinai itineranti. Il “teatro viaggiante” dei Sarzi, fondato nei primi anni del Novecento dal capostipite Antonio, si spostava di città in città superando gli ostacoli della censura e portando avanti azioni di propaganda clandestina contro il regime. Grazie alla finzione teatrale era una copertura perfetta per diffondere ideali di libertà e giustizia. A spiccare per l’impegno politico erano Lucia e Otello, che operarono attivamente nella Resistenza e che negli anni Quaranta instaurarono un’amicizia molto stretta con i Cervi: tanto che il cortile della casa dei sette fratelli uccisi dal fascismo nel 1943, tra Gattatico e Campegine nella pianura reggiana, divenne per lungo tempo deposito per i materiali di scena, costumi e burattini della compagnia, che finiranno bruciati il giorno del loro arresto (sarà un caso che Cipollino, nelle avventure di Rodari, fosse uno di sette fratelli? “Gente per bene, bisogna dirlo subito, però piuttosto sfortunata. Cosa volete, quando si nasce cipolle, le lacrime sono di casa”).
Ma al di là di ogni lotta politica e di ogni ideologia – nella quale un teatro libero come quello dei burattini non vorrebbe certo farsi imbrigliare – la forza dell’arte dei pupazzi sta per molti nel suo essere fortemente popolare. Basta poco: pura creatività, fantocci costruiti con materiali semplici e di recupero, l’abilità delle sole mani, niente palchi altisonanti ma teatrini di legno posti alla stessa altezza del pubblico a cui si rivolgono.
I burattinai si sono spesso dimostrati, negli anni più bui della nostra recente storia, personaggi creativi, istrionici, insofferenti a gabbie e a rigidi schemi, così come al controllo delle autorità.
“La commedia burattinesca nasce in piazza e, come la canzone popolare, è per lo più di autore anonimo, ed ha in se stessa una irresistibile forza espansiva”, scrive Giuseppe Giocosa nel suo Elogio delle marionette (riportato da Alfonso Cipolla e Giovanni Moretti in Storia delle marionette e dei burattini in Italia). “Gli argomenti sono forniti dalle lepidezze della vita quotidiana, dalla cronaca giudiziaria, dagli errori, dai pregiudizi correnti da qualche avanzo di fiaba fantastica, raccolta nelle stalle dei contadini, da quell’indigesta congerie di nozioni confuse e monche che forma la dottrina degli ignoranti che la sanno lunga.”
Cesare Zavattini diceva che nei volti dei burattini riconosceva i personaggi del suo paese, che vedeva là le facce della sua gente. Che ci si trovi a occhi in su davanti al bolognese casott di burattèin, a quello dei puppazzi di Napoli, dei magneti di Milano o delle marionette fiorentine, è il popolo a godersi lo spettacolo. Ride e la sua forza è nella satira. “Il burattino è per natura sfottò dei potenti, bastonatore delle ingiustizie e riscatto della miseria”, spiegano Rossella Cantoni e Cesare Mattioli della Fondazione Famiglia Sarzi. “Fagiolino è il burattino della libertà”.
Nonostante parli anche agli adulti, il teatro di figura fa breccia soprattutto nel cuore dei bambini. Lo stesso Otello Sarzi, che da partigiano e teatrante non si era dedicato da subito ai pupazzi del padre e del nonno, cambierà idea quando nel 1951 alla Camera del Lavoro di Novara improvvisò uno spettacolo con vecchi burattini per distrarre i bimbi sfollati per l’alluvione del Polesine. Fu una folgorazione e da lì la curiosità si trasformò in continua sperimentazione, portandolo a mettere in scena con le maschere le opere di Beckett, Brecht e Majakovski, fino alla nascente tv per ragazzi. Fu proprio a Novara che nascerà l’amicizia tra Otello e Gianni Rodari, che li porterà entrambi a Reggio Emilia per collaborare, insieme al pedagogista Loris Malaguzzi, per elaborare una nuova pedagogia per l’infanzia: una pedagogia che nell’incontro tra bambini e burattini trova una chiave creativa per l’apprendimento. Qui nei primi anni Settanta verrà addirittura istituita per la prima volta la figura del burattinaio comunale e Mariano Dolci sarà assunto per portare i burattini e il loro linguaggio pedagogico in tutte le scuole pubbliche della città.
L’idea era di non andare nelle scuole solo per fare degli spettacoli, ma per insegnare ai bambini a fabbricarsi i loro burattini e a muoverli, a costruirsi le baracche, a preparare le scene, a inventare storie, sceneggiarle e recitarsele. “Ci sono bambini che parlano solo attraverso il burattino”, scrive Rodari. E anche dalla Fondazione Sarzi, Cantoni e Mattioli oggi sottolineano come il burattino “diventi una sorta di alter ego, a cui affidare un linguaggio altro, per riuscire a dire anche le cose più profonde e difficili”. È ispirandosi a questo principio che la Fondazione, insieme a Mauro Sarzi, sta portando avanti la sperimentazione del padre Otello con laboratori di burattini all’interno di ospedali, case per anziani e con bambini autistici.
I burattini sono arte, didattica e resistenza anche per Hamica Nametak, protagonista di una storia che ci riporta in una Bosnia sotto assedio. Hamica è burattinaio al Teatro dei burattini di Mostar, che in quegli anni è una città piena di arte, invasa da cinema e teatri. Nel 1992, però, il buio della guerra. Ed è sotto i colpi dei serbi prima, e dei croati poi, che Hamica trasforma le cantine usate come “bunker” in laboratori e teatri per burattini: l’obiettivo era convincere i più giovani a stare al sicuro e “aprire loro la mente, cercando le radici del male e della libertà”. Dentro le cantine di Mostar vanno in scena Il gabbiano Jonathan Livingston e Il signore delle mosche, mentre fuori si sente solo il rumore delle bombe. Poi Hamica riuscirà a lasciare il paese, arriverà anche in Italia – dove parteciperà al Festival Arrivano dal mare di Cervia e dove conoscerà anche Otello Sarzi – per poi ritornare nella sua città distrutta. Qui ricostruirà il suo teatro, ritrovato senza soffitto e con i pupazzi a brandelli sparsi in strada, riportandolo a essere uno dei teatri più belli dell’ex Jugoslavia.
Come se fosse la forza del burattino, della creatività e dell’immaginazione, quella di resistere, nella loro semplicità, anche quando il “teatro dei grandi” deve svuotare il palco e chiudere i battenti. È il potere, direbbe sempre Rodari nell’introduzione alla sua Grammatica della fantasia, di chi crede nell’immaginazione come luogo dell’educazione, nella creatività infantile e nel valore di liberazione che può avere la parola: “’Tutti gli usi della parola a tutti’ mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.