N elle ultime settimane, in particolare nei giorni precedenti alle festività natalizie, la Francia è stata teatro di moltissimi avvenimenti, tutti, in un qualche modo, interconnessi; ad alcuni è stato concesso uno spazio mediatico adeguato alla gravità del fatto, altre vicende sono passate completamente in sordina, altre ancora, qui in Italia, sono state deformate dall’opinione pubblica e dal giornalismo sia mainstream che, per così dire, più militante. Mi riferisco a tre momenti: la notizia dell’attesa condanna all’ergastolo dello stupratore seriale nonché marito di Gisèle Pelicot e degli altri suoi aguzzini, condannati dai dieci ai quindici anni di reclusione; il processo (il primo processo legato al #MeToo) iniziato a dicembre scorso contro il regista francese Cristophe Ruggia, accusato dall’attrice Adèle Haenel di violenza su minore; e, infine, le proteste delle attiviste francesi in seguito alla decisione di proiettare Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci alla Cinémathèque di Parigi.
È come se, nel giro di poco meno di un mese, la Francia sia stata travolta e poi risvegliata dalla portata pressoché storica di questi fatti. Gisèle Pelicot e Adèle Haenel sono diventate figure politiche dirimenti per il movimento femminista non solo francese ma globale. Non piegandosi alla narrazione vittimizzante che le vorrebbe silenti e spaventate dalle conseguenze delle rispettive confessioni, non si sono lasciate intaccare dalle paure di chi sopravvive – l’isolamento pubblico e privato, la calunnia mediatica ecc. – e hanno guardato dritto negli occhi i loro aggressori. Nessuna di loro ha provato vergogna, qualcosa che, come ha scritto Nicoletta Vallorani su Le parole e le cose a proposito di Pelicot, ha fatto sì che la donna non si accontentasse “del ruolo che le viene assegnato. [Pelicot] Non tace. Non urla neanche. È lucida. Esibisce con dignità inflessibile il peccato di Eva: disobbedisce e guarda in faccia il male nella persona dell’uomo che ha sposato e con il quale ha avuto tre figli. In lei, della fragilità che si poteva prevedere non c’è traccia.”
Non piegandosi alla narrazione vittimizzante che le vorrebbe silenti e spaventate dalle conseguenze delle rispettive confessioni, Pelicot e Haenel non si sono lasciate intaccare dalle paure di chi sopravvive.
Pelicot e Haenel hanno, dunque, parlato e con le loro parole hanno riscritto la Storia ‒ come la riscrissero Franca Viola o Donatella Colasanti nel secolo scorso ‒ con un seguito e una risonanza che costituiranno le basi per trattare casi di questo genere da un punto di vista giuridico e istituzionale, oltre che, ovviamente, culturale.
Cosa c’entrano le proteste delle femministe francesi contro la proiezione di Ultimo tango a Parigi con queste due vicende? In apparenza nulla; sembra solo ci sia stata una distanza di pochi giorni tra gli avvenimenti. In realtà, però, se provassimo ad andare oltre la concomitanza spaziotemporale, potremmo scoprire che a renderle indivisibili è una (semplice?) constatazione: la difficoltà nello stare con e nella posizione della vittima. Forse, nel caso di Pelicot è stato più facile data l’assurda platealità di ciò che le è successo; già con Haenel, la cosa si complica: c’è chi ha sottolineato che l’attrice abbia esagerato, presa dalla sua antipatia aprioristica verso gli uomini e dalla sua vicinanza al movimento LGBTQIA+, che Ruggia sia stato solo molto “paterno” nei suoi confronti – all’epoca delle molestie Haenel stava girando il suo primo film, Les Diables (2002) e aveva tra i dodici e quattordici anni – e che voleva solo preservarla dall’industria in cui stava entrando. Tutta questa premura non sarebbe stata colta dalla giovane Haenel.
Nonostante tutte le deposizioni dell’attrice, ritiratasi un anno fa dall’industria proprio per sottolinearne le ipocrisie, e le note trovate dagli investigatori, nel corso delle indagini, nel computer di Ruggia che parlavano della “sfolgorante sensualità della dodicenne Haenel”, non ci sono lividi, ferite, non c’è evidenza che chiarifichi gli abusi psicofisici subiti dall’attrice o quel dato concreto, incontrovertibile, che dimostri la colpevolezza dell’accusato. Ed è per questa ragione che alla vittima non viene dato credito. Ed è per questa stessa ragione che ancora oggi, ormai a cinquant’anni dall’uscita del film, non si riesce (ancora!) a individuare la gravità oggettiva della violenza perpetrata ai danni di Maria Schneider da parte di Bertolucci e di Marlon Brando. Una gravità che prescinde da quanto il film possa piacere o meno o dai suoi evidenti meriti artistici, di cui questo pezzo non parlerà.
A cinquant’anni dall’uscita del film, non si riesce (ancora!) a individuare la gravità oggettiva della violenza perpetrata ai danni di Maria Schneider da parte di Bertolucci e di Marlon Brando.
Ma andiamo con ordine. Tra il 16 e il 17 dicembre scorso i quotidiani italiani riportano la decisione della Cinémathèque di Parigi di annullare la proiezione di Ultimo tango a Parigi, in seguito alle proteste, che poi sarebbero diventate “minacce”, delle femministe. Questo è quanto è stato riportato dalla stampa generalista. Anche leggendo alcune testate internazionali, non è stato possibile reperire altre informazioni o dettagli specifici sulle motivazioni di queste proteste e su che cosa facessero leva; non si legge alcun nome o identità ma solo il generico e anche dispregiativo, se non, a volte, virgolettato, le femministe contro l’accorato stato d’animo di Frédéric Bonnaud, direttore della Cinémathèque, che decide di cancellare la proiezione per paura dei possibili rivolgimenti.
L’attenzione dell’opinione pubblica, divisa tra interviste radio e sparuti commenti e post su Facebook, tocca svariati temi; tutti, intendo le persone, un po’ preda del ritrovato fervore della notizia: c’è chi torna sulla censura, sull’immeritata ricezione, ancora oggi, del film di Bertolucci e su quanto siano folli le proteste delle femministe, le femministe, quelle che desiderano mettere al rogo l’arte in nome della persona, che non hanno idea della Storia del Cinema, né tantomeno che i Maestri debbano essere e rimanere intoccabili, incontaminati. C’è poi chi, invece, crede sia avvenuta una vera e propria violenza sessuale sul set del film, che ci sia stata, insomma, una penetrazione fisica non consensuale ai danni di Schneider. Peccato che ‒ sembra assurdo sottolinearlo ‒ Ultimo tango a Parigi anche se racconta il sesso ed espone i corpi in modalità più o meno esplicite non è un film pornografico e quindi non mette in atto il sesso. C’è chi ha scritto, infine, che nessuno può rispondere di ciò che è avvenuto su quel set e quindi non si può parlare di alcun tipo di violenza psicologica ai danni di Schneider: non può che restare il film e nient’altro che il film.
Mai come nelle ultime settimane sono state scritte tante cose illogiche e confuse sulla questione e ancora una volta si è scelto di ricordare esclusivamente la testimonianza, il vissuto e il pentimento di Bertolucci e non le dichiarazioni di Maria Schneider. Le femministe francesi, a cui qui decidiamo di dare un nome nella persona di Judith Godrèche, attrice e figura di spicco del #MeToo francese, non hanno mai chiesto alla Cinémathèque di annullare la proiezione di Ultimo tango a Parigi; ciò che è stato richiesto dalle associazioni non riguardava alcuna cancellazione né tantomeno censura, ma, semplicemente, una contestualizzazione del film alle spettatrici e agli spettatori, così da renderne possibile una comprensione totale, al di là del testo filmico.
Che cosa significa, però, contestualizzare oggi Ultimo tango a Parigi o, meglio, la proiezione del film di Bertolucci alla Cinémathèque di Parigi? Per rispondere a questa domanda dovremmo fare dei passi indietro.
Ciò che è stato richiesto dalle associazioni femministe non riguardava alcuna cancellazione né tantomeno censura, ma, semplicemente, una contestualizzazione del film alle spettatrici e agli spettatori, così da renderne possibile una comprensione totale.
Quando guardiamo un film o un’immagine non ci rendiamo conto che il nostro modo di vederli, i “protocolli del vedere”, come direbbe Martin Jay, sono condizionati culturalmente e socialmente; l’atto del guardare ci sembra naturale, spontaneo, lo mettiamo in pratica senza riflettere, in un modo che ci sembra immediato ma che in realtà ha sempre una specifica direzione e orientamento. Guardando un film possiamo scegliere se fermarci alla superficialità – nel senso di ciò che l’immagine ci restituisce a un primo livello – di ciò che vediamo o se radicarci nelle modalità in cui quello che vediamo è stato realizzato. E questo radicarsi può compiersi tanto a livello intratestuale ‒ quando, cioè, analizziamo la regia, la sceneggiatura, come viene o non viene rappresentato un personaggio, o un’identità, tutti quei dettagli che definiscono la resa visiva, fattuale del film ‒, quanto intertestuale, operando un confronto tra i linguaggi e le forme della cultura e della società. Una questione di sguardi, quindi. A questo proposito, in Cultura visuale (2021) Michele Cometa sottolinea ed elabora l’idea che l’atto di guardare non è un processo neutro ma è un “atto di scelta” dal momento che la nostra visione è condizionata da parametri culturali e sociali. Guardare, quindi, implica un vero e proprio posizionamento che, nel caso di Ultimo tango a Parigi, non riguarda le immagini ma la tanto abusata e non considerata relazione attrice-regista: musa-artista.
L’atto del guardare ci sembra naturale, spontaneo, lo mettiamo in pratica senza riflettere, in un modo che ci sembra immediato ma che in realtà ha sempre una specifica direzione e orientamento.
Nessuno ci impedisce, per fare giusto qualche esempio che ricorda la vicenda di Ultimo tango, di ammirare il progetto fotografico che Alfred Stieglitz dedicò a Georgia O’Keeffe: un atlante del suo corpo scomposto e frammentato, una sorta di canzoniere petrarchesco per immagini, senza, però, individuare le dinamiche di squilibrio che esistevano tra i due, tanto da portare O’Keeffe, anni dopo la morte del marito, a dichiarare di non riconoscersi in quelle fotografie, che avrebbero potuto essere del corpo di qualsiasi donna.
Questa tendenza che va verso l’oscuramento della presenza femminile vale anche per certa letteratura. Nel bellissimo componimento Clizia del ’34, Eugenio Montale immobilizza la “sua” Irma Brandeis nello statuto di musa, cristallizzata, ferma, inamovibile, ignorando, per quasi mezzo secolo, qualsiasi movimento lei abbia potuto fare da sola. I suoi versi sono la testimonianza di un uomo impossibilitato a lasciar andare non tanto il suo amore ma la sua fonte d’ispirazione così come se la ricordava nei primi anni del loro rapporto. Brandeis non può agire in uno spazio altro che non sia quello della creazione artistica del poeta, in cui la possibilità, per la donna stessa, di caratterizzarsi in quanto individuo è nulla, al punto che col passare del tempo Brandeis non avrà timore ad affermare con forza e decisione che quella raccontata da Montale non sarà mai la sua storia.
Così come quella di Ultimo tango non è e non sarà mai la storia di Maria Schneider. Durante le riprese del film, Schneider è stata coinvolta in una dinamica non dissimile di obliterazione della sua presenza e della possibilità di autodeterminarsi sulla scena. Non concordando con lei la messa in atto di quel “dettaglio” per ottenere un effetto artistico più spontaneo, veritiero, Brando e Bertolucci scelgono una posizione – in quanto attori di quella scena ‒ dichiaratamente patriarcale e soverchiante. C’è stato anche chi ha scritto, sempre nelle ultime settimane, che il sentirsi violentata/violata di Schneider riguardava “Maria e la sua fragilità, non la posizione etica e morale di Brando o di Bertolucci”, spostando completamente l’entità del problema, come sempre, sulla posizione non legittima di chi è stato sovradeterminato. Riconoscere la violenza qui sta nell’affrontare l’oggettivo, incontrovertibile, presente atto di prevaricazione fatto ai danni dell’attrice, che avrebbe potuto scegliere se prestarsi o meno all’attuazione di quella scelta. Problematizzare la dinamica per cui Brando e Bertolucci scelgono di non includere Schneider in questa aggiunta ‒ e l’improvvisazione, su cui pure si è tornati, non c’entra molto poiché, in quanto attrice e professionista, Schneider avrebbe potuto ottenere l’effetto veridico anche essendo a conoscenza di ciò che sarebbe accaduto ‒ significa riconoscere uno squilibrio nella relazione tra attrice e cineasta.
Quella di Ultimo tango non è e non sarà mai la storia di Maria Schneider. Durante le riprese del film, Schneider è stata coinvolta in una dinamica di obliterazione della sua presenza e della possibilità di autodeterminarsi sulla scena.
E non significa, soprattutto, censurare, condannare; significa individuare che qualcosa in quella dinamica non è andato come sarebbe dovuto andare, che Schneider si è sentita “violata” perché due colleghi hanno preferito bypassare la sua esistenza sia come corpo attoriale sia come identità sulla scena.
Contestualizzare il film e la proiezione di Ultimo tango a Parigi avrebbe significato presentare questo genere di argomentazione che, come vediamo, poco ha a che fare con il tessuto visivo e narrativo del film. Programmare il film a partire da queste premesse avrebbe assunto un senso diverso e la scelta sarebbe stata politica, decidendo di “mettere in prospettiva la storia e il passato, facendo agire anche il vuoto, vale a dire lo spazio oscurato dagli assetti critici patriarcali”, per citare Daniela Brogi. In Lo spazio delle donne (2022) Brogi sottolinea, infatti, che la questione non è se leggere o guardare, ma come farlo, le modalità e le scelte di visione di cui parlavamo pocanzi, per cui, parafrasando l’autrice, certamente continueremo a leggere Céline o a guardare il cinema di John Ford (e di Bertolucci) potendo, nello stesso tempo, affermare liberamente che le verità di quelle opere lavorano con ambivalenze e assetti di sguardo sessisti.
C’è stato anche chi ha scritto che il sentirsi violentata/violata di Schneider riguardava “Maria e la sua fragilità, non la posizione etica e morale di Brando o di Bertolucci”, spostando completamente l’entità del problema sulla posizione non legittima di chi è stato sovradeterminato.
“Non siamo una fortezza”, dice Bonnaud, riferendosi alla Cinémathèque, certo, ma un cinema non è neanche un luogo neutrale, fermo, immobilizzato dal tempo e dalle tradizioni; un cinema, o tanto più un festival, dovrebbero essere spazi di problematizzazione, confronto, ricerca, cruciali per la riflessione e l’indagine su ciò che il cinema è o sta diventando nel mondo di oggi. Decidere di accogliere le richieste di Godrèche e delle altre militanti avrebbe risposto proprio a quest’esigenza di analisi e rideterminazione e rielaborazione collettiva di un film che, per quanto grandioso, è anche il riflesso di una determinata società.