J ude St. Francis non ha paura di compiere trent’anni: per tutta la vita non ha aspettato che questo momento, l’entrata nell’età adulta e il silenzio che la accompagna. Lo pensa mentre si incontra nei ristoranti economici con i suoi amici del college: adesso lui, Williem, JB e Malcom vivono a New York e si vedono ancora, anche se le loro strade iniziano ad allontanarsi – Jude ha studiato diritto, Williem vorrebbe diventare un attore, JB raccoglie i capelli che barbieri gettano per farne opere d’arte e Malcom è stato assunto in uno studio di architettura: se ancora nessuno di loro riesce a vivere di quello che ama, tutti sperano che sia solo questione di tempo.
La trama minima di un romanzo mastodontico – quarant’anni di vita, più di mille pagine nell’ottima traduzione di Luca Briasco – Una vita come tante richiama tanta letteratura di formazione ambientata nelle mille luci di New York: sono gli anni ottanta e quattro ragazzi provano a sopravvivere in città, escono dalla loro zona di sicurezza per diventare adulti, con il corredo di baci, sesso, e feste. Come le storie sulle famiglie orizzontali di Michael Cunningham, il romanzo di Yanagihara afferma che casa è un luogo che si può ricostruire anche in assenza di legami di sangue: per chi scopre poi di avere un’identità sessuale fragile, creare una comunità in cui sentirsi al sicuro è necessario. Ma per entrarvi c’è un prezzo da pagare e la merce di scambio sono i segreti, le parti di sé che si cedono agli altri, il modo in cui ci si sostiene l’uno con l’altro: è per questo che Jude è sollevato dal diventare adulto, perché i trent’anni segnano il traguardo oltre al quale è in diritto di ritirarsi in se stesso, non dare più niente a nessuno, finalmente libero dagli obblighi di rivelare il suo passato. Più che un romanzo di formazione, il romanzo di Yanagihara è un lavoro di disvelamento: si può amare qualcuno, senza conoscerlo affatto?
In una lettera, il giovane matematico Francis Skinner aveva scritto che “qualunque cosa tu mi dica su di te non cambia in nessun modo l’amore che provo. Non c’è bisogno di chiedersi se ti perdonerò, perché io sono una persona peggiore di te. Ti penso molto e ti amo, sempre”: era il suo tentativo di fermare l’inutile autoflagellazione che Wittgenstein, di cui era amante, stava portando avanti. Durante la sua vita Wittgenstein aveva nutrito una fede così feroce nei confronti della chiarezza, da considerare inammissibili tutte le deviazioni dalla completa e assoluta onestà: i momenti in cui si era sentito insincero, anche solo per un attimo, avevano costituito per lui una tale fonte di senso di colpa da costringerlo, negli anni ’30, a scrivere lunghe confessioni indirizzate a chiunque conoscesse, per rettificare ogni dichiarazione o comportamento che potevano apparire duplici o ambigui. Per non mentire a nessuno, aveva finito per ferire tutti, ma “se c’è qualcosa che può aspettare”, gli aveva rivelato un amico, “è una confessione di questo tipo e fatta in questo modo”. Alla fine di questo tour de force violentissimo, il filosofo scrive di sentirsi più stabile, più serio, “ma adesso che è tutto finito, non sono lontano da dove fossi prima”.
Una vita come tante, il romanzo di Yanagihara afferma che casa è un luogo che si può ricostruire anche in assenza di legami di sangue.
Il Jude di Una vita come tante, invece, non ha mai voluto discutere del suo passato con nessuno: nessuno sa da dove venga, o cosa sia successo alle sue gambe, perché una volta abbia fatto il bagno indossando una camicia lunga fino ai polsi. Una notte sveglia il suo coinquilino, Williem, stringendo attorno alle braccia un asciugamano sporco di sangue, ma anche quando Andy, il suo dottore, gli ricuce le ferite, non dice niente del perché se le sia procurate: diventa ogni giorno più inaccessibile, opaco, impenetrabile come le foreste. Per anni i suoi amici avevano tentato di sapere qualcosa di lui, di farlo parlare, perché anche per loro valeva quanto aveva scritto Skinner, ma Jude si era fatto sempre più lontano, sempre più silenzioso, finché tutti, a poco a poco, avevano rinunciato all’impresa.
Sulla copertina di Una vita come tante c’è la foto di un uomo a occhi chiusi: le fotografie scattate da Peter Hujar hanno la bellezza delle statue greche. Yanagihara racconta di aver voluto da sempre quell’immagine: il titolo è Orgasmic man, ma, come spesso accade, distinguere un’espressione di piacere da una di dolore è quasi impossibile, più che mai nelle immagini di questo autore. Esiste un mito che racconta di una madre trasformata in pietra dal dolore ed è quello giusto per spiegare il desiderio del fotografo di trasfigurare i volti in qualcosa di eterno, di dire che il dolore è una cosa solida e sorda, che rende i corpi rigidi, ma anche che può esistere una consolazione nella sofferenza, la possibilità di una bellezza eterea perché ormai si è intoccabili, fuori dalla rovina del contatto.
Hujar era stato il fotografo della cultura underground newyorkese degli anni ottanta, ma, come era successo a Nan Goldin, nel mezzo dell’emergenza AIDS, il suo lavoro si era trasformato dalla testimonianza di un mondo alternativo, inclusivo e felice, alla resa dei conti di chi stava soccombendo alla malattia. Quando anche Hujar è morto di AIDS nel 1988, il suo compagno del tempo, David Wojnarowicz, ha deciso di regalargli la stessa possibilità che lui aveva offerto a tanti: aveva filmato il suo cadavere e montato quelle immagini con gli stormi che volavano nei cieli sopra lo Hudson. Peter era ovunque, adesso. Quando lo scorso anno, Yanagihara ha inserito le opere di Hujar in How I learned to see, una mostra da lei curata alla Fraenkel Gallery, lo ha fatto non solo perché con lui aveva imparato a conoscere una comunità nascosta, la stessa che avrebbe almeno in parte descritto in Una vita come tante, ma perché lui parlava della resilienza dei corpi. In un’intervista al Guardian l’autrice racconta di quando, da ragazzina, suo padre, un dottore, avesse acconsentito a scortarla all’obitorio, perché disegnasse i cadaveri: come Hujar, come Wojnarowicz, a lei interessava la sopravvivenza, quello che il corpo impara a sopportare per continuare a vivere.
Questo è Jude, per lei: la storia di un corpo che impara a conoscere i propri punti di rottura, attraverso l’abuso, l’autolesionismo, nel modo in cui la pelle si rigenera dopo un taglio. E non è sorprendente notare come la storia di Jude coincida con i racconti di Wojnarowicz: in Close to the knives – il titolo già così significativo – Wojnarowicz racconta la propria infanzia, l’assenza di affetti, i maltrattamenti, di come a otto anni vi sfuggisse lasciandosi dondolare nel vuoto dal settimo piano del palazzo in cui viveva, per testare la propria forza, che la propria vita bruciava nei muscoli, lasciando che le ginocchia e le dita si riempissero di cicatrici; quando racconta della sua nascita, scrive solo che “conception’s a shot in the dark”. Aveva vissuto per la strada per anni, prostituendosi a Times Square, chiudendosi nei bagni con uomini pieni di vergogna, seguendo sconosciuti nei loro appartamenti, agganciandoli lungo i piers: della violenza Wojnarowicz aveva fatto un senso di comunità, anche nei momenti in cui la rabbia diventava tanto forte da renderlo cieco, da spingerlo a chiedersi se fosse capace di superare la linea, di compiere un gesto imperdonabile.
Un giorno scrive di voler uccidere i genitori affidatari di un amico che, quando era piccolo, lo avevano chiuso in soffitta per mesi (era estate e nessuno voleva averlo intorno nelle vacanze), di voler stordire uno dei suoi clienti, rubargli il portafogli e vivere meglio almeno per un po’; eppure non lo fa mai, la linea sempre davanti a sé. Trasformerà la rabbia in un materiale incandescente e fertile per la sua arte, l’ingiustizia in attivismo, ma se Wojnarowicz aveva avuto modo di imparare quanto la vergogna non servisse, quanto il trauma possa essere detto, è perché era riuscito a trasformarsi in una storia, fiducioso che le parole potessero essere sufficienti. La sua storia e quella di Jude però non si somigliano più di così: Yanagihara racconta le conseguenze a lungo termine della scelta di non confessarsi mai; la storia di un uomo immobilizzato dalla vergogna, che preferirebbe diventare invisibile, piuttosto che ripercorrere il tracciato delle sue cicatrici. Jude non riserva alcuna fiducia nelle parole ed è questo il conflitto che mette in scena Una vita come tante: è la storia di un disvelamento a cui lui non prende parte, è una storia che mette in dubbio il potere salvifico del racconto.
Yanagihara racconta le conseguenze a lungo termine della scelta di non confessarsi mai; la storia di un uomo immobilizzato dalla vergogna, che preferirebbe diventare invisibile, piuttosto che ripercorrere il tracciato delle sue cicatrici.
C’era qualcosa, però, che nella maestosità del romanzo mi continuava a tormentare, un nodo irrisolto che non riguarda la natura del male, né l’esibizione delle ferite: il problema per me stava nel sapere cosa farci di quella violenza, capire perché il racconto delle crudeltà finisse per assomigliare a un buco nero in cui la luce smette di brillare. Mentre mi avventuravo al fondo di Una vita come tante, quando il numero delle pagine sull’autolesionismo di Jude superava quello di ogni altro racconto, ho ripensato a The Art of Cruelty. In questo lungo e denso saggio, Maggie Nelson, critica, poetessa, autrice de Gli Argonauti, analizza le forme e i significati della crudeltà, muovendosi tra la letteratura e le arti figurative, da Artaud a Sylvia Plath, a Francis Bacon: Nelson vuole analizzare perché alcuni autori scelgano di mettere in scena l’orrore, la crudeltà, la brutalità delle cose e si chiede, soprattutto, se queste ci portino più vicine alla realtà, se la brutalità dei fatti e della sincerità siano davvero due forme di disvelamento.
Nelson racconta di quando nel 1971 Chris Burden, aveva radunato una piccola folla di spettatori in una sala e si era fatto sparare alla spalla da un amico: c’è un filmato che documenta Shoot e non dura più di un paio di minuti. Nello stesso anno aveva trasformato il pavimento di una galleria di Santa Ana, California, in una vasca piena d’acqua e, fissate quattro scale al muro, insieme a tre persone, ci era salito sopra e da quell’altezza aveva liberato un filo elettrico: la performance si chiama 220, perché questa era la carica rilasciata in acqua; i quattro avrebbero dovuto aspettare sulle scale da mezzanotte alle sei di mattina, l’ora in cui qualcuno avrebbe staccato la corrente e li avrebbe lasciati finalmente liberi di scendere a terra. Sono gli anni della guerra in Vietnam, ma la ricerca artistica di Burden non è mai stata particolarmente politica: a lui non interessava parlare di pacifismi o mostrare cosa fosse la violenza nel bel mezzo di una guerra cruenta e insensata. Il terreno della sua ricerca artistica, come per tanti degli artisti della body art, si estendeva attorno alla percezione del dolore, alla fisicità riacquisita, ai confini di ciò che è lecito e ciò che è osceno: cosa voleva dire rischiare di finire fulminati, essere esposti a una minaccia fisica e incombente? Cosa significava guardare un uomo sparare a un altro, pure nella consensualità dell’azione? Cos’è il consenso e quali forme di autolesionismo possono essere permesse, prima di dover intervenire?
Queste erano le domande che mi tornavano in mente leggendo le lunghe scene di autolesionismo e violenza descritte da Yanagihara: di Jude dicono che «lui non vuole che tu lo ammiri; vuole che tu lo veda per la persona che è. Vuole sentirsi dire che la sua vita, per quanto inconcepibile possa apparire, rimane una vita», eppure non c’è attimo in cui Yanagihara non voglia richiamare l’attenzione all’orrore che ha costellato la sua vita. Se questo romanzo rappresenta la volontà di raccontare una storia, solo una storia, in cui la vita di Jude è una vita come tante, malgrado tutto – questo il miracolo –, perché il racconto delle crudeltà finisce per mangiarsi tutto il resto?
The Art of cruelty ci ricorda che il dolore e la brutalità sono fatti del mondo, non più capaci di altri di aprire a un orizzonte di senso e così anche in Una vita come tante la crudeltà è immanente e non ci dice qualcosa di più, che non sia dolore e poi sollievo. Eppure Yanagihara a tratti sembra voler alludere a qualcosa di più, che ha che a fare con la grazia, ma poi si ritira, lasciando che sia lo svelamento progressivo degli orrori subiti da Jude a essere il vero motore dell’azione, rendendo il racconto della crudeltà non compiaciuto, ma insistito, talmente costante che poco spazio è lasciato al resto, sia pure all’amore degli altri.
The Art of cruelty ci ricorda che il dolore e la brutalità sono fatti del mondo, non più capaci di altri di aprire a un orizzonte di senso e così anche in Una vita come tante la crudeltà è immanente e non ci dice qualcosa di più.
Forse, va solo accettato che a Yanagihara interessi la sopravvivenza, non la grazia, non le trasformazioni: nelle camere di Jude o di Williem non risuona l’eco delle Torri Gemelle o della guerra al terrore, perché Yanagihara vuole raccontare solo quello che accade nell’intimità di un corpo che prova a restare in piedi. Anche New York non cambia mai, bloccata in un presente perpetuo, quarant’anni scanditi solo dai compleanni dei protagonisti: Una vita come tante ha un pregio, accettare che potrebbe non accadere niente nel mondo con la capacità di cambiare la storia, ma che questo non significa che questa sia conclusa in partenza. Se la vita di Jude sia sanabile è una domanda sbagliata, perché non è nelle risoluzioni, non è nelle guarigioni che bisogna credere, ma nella migliore delle vite possibili.
Quando Maggie Nelson parla di Sylvia Plath, scrive che la maggiore frustazione è realizzare come il suo stesso nome renda l’aria irrespirabile: leggere Sylvia Plath significa sentire l’ossigeno rarefarsi, risucchiato dalle parole della poetessa. Anne Carson scriveva che leggere Beckett produceva un effetto di malessere: “la sensazione di sprofondare nella crosta terrestre,/il nero profondo dell’oh no della stanzetta/con pareti troppo vicine, tanto comprendibili” e tanto vale per la Plath, o per Francis Bacon: ci sono casi in cui l’esposizione del trauma sembra far saltare il banco, rendere il commento superfluo, inadeguato. Eppure bisogna ricordare che è la vibrazione, la forza terribile di quelle parole, dei colori sulla tela a saturare l’aria della stanza, non il sangue, non le ferite.
Una vita come tante, invece, non funziona nello stesso modo: non so dire se questo libro sia davvero bello o solo devastante, so solo che desideravo smettere di leggere, ma non l’ho fatto.
Questo romanzo mostra come l’orrore sia un inferno che non cessa mai di esistere, un mondo costruito da uomini ciechi e sordi, privi di qualsiasi segno di amore: è dedicato a San Giuda, il patrono delle cause perse, ma non serve sapere perché gli uomini siano malvagi, perché l’orrore è un fatto del mondo, che lo si voglia guardare o no, quello che serve è che l’amore e la crudeltà non siano monocromi, ma ordinari, che le loro siano una vita come tante, capaci di parlare. In questo senso Una vita come tante è a tratti imperfetto, perché trasforma i personaggi in esseri assoluti, gli uomini crudeli da una parte, gli uomini capaci di amore immutabile dall’altra, nessuno mai in modo mediocre.
Ci sono successi e fallimenti assoluti, dolori e gioie terribili: poi il sollievo.