È
uscito per Quodlibet, secondo volume della nuova collana Storie, Stile Alberto di Michele Masneri. Racconto personale e non solo del culto arbasiniano, il libro del giornalista bresciano (andato a vivere a Roma proprio sulle orme del Maestro) funge da formidabile introduzione alla vita e all’opera di Arbasino. Tra nobiltà romana, imbarazzi, cravatte, viaggi in macchina, accappatoi e citazioni, Masneri ci mostra il suo Arbasino ma anche le ragioni di un culto eterno (e ci svela i misteri per i quali uno scrittore diventa cult): la vita meravigliosa e contraddittoria, l’erudizione e la leggerezza, il sentimentalismo mascherato, e l’opera inafferrabile e impressionante di un italiano atipico e irripetibile.
Dal formato alla copertina alle foto all’inserto a colori, il progetto editoriale è molto bello. Direi inusuale per l’editoria italiana.
Sì, è uscito un libro molto bizzarro. Un po’ album, un po’ taccuino. In partenza era un libriccino normale di solo testo. Poi l’idea delle foto è venuta a Giovanni Agosti, storico dell’arte e amico di Alberto. Anche per restituire un po’ il lato visuale, che era così importante in Alberto. Poi a me è venuta l’idea di metterci cimeli di famiglia, foto che gli avevo fatto io negli anni, e cartoline e lettere che mandava agli amici. Poi le foto di Paolo Di Paolo, fotoreporter leggendario dei tempi del Mondo, che gentilmente mi ha aiutato, e poi Francesco Vezzoli, amico e artista che porta avanti un lavoro sulla memoria, sulla celebrità… E infine un inserto molto pop e patinato, nello stile del Weekend postmoderno di Tondelli, con le foto di Giovanna Silva che aveva fotografato casa Arbasino nel 2013. A loro sono molto riconoscente. Anche a Stefano Verdicchio, l’editore di Quodlibet, che ci ha messo una enorme passione, e con cui per mesi abbiamo giocato a inserire e togliere pezzi mentre il libro prendeva forma, fino all’ultimo.
Dovrei chiederti perché un libro su Arbasino, ma mi sembra una domanda talmente ovvia…
Fondamentalmente per due ragioni: la prima è il mio voler chiudere i conti con questa figura che per anni mi ha ispirato e anche un po’ ossessionato. La seconda è che mi piaceva anche fare un “Arbasino tascabile”, per rispondere alla domanda che spesso mi facevano: cioè “da dove dovrei cominciare a leggere Arbasino?”. Un modo mio personale di farlo conoscere a chi oggi si affaccia per la prima volta a questo scrittore, penso soprattutto ai più giovani. Per questo ho voluto anche che il formato fosse quello, tascabile e non costoso. Una specie di finto coffee table book, in realtà il contrario di un coffee table book.
Parliamo un po’ della lingua di AA, dello stile in senso letterario. Da dove arrivava quell’ipotassi esasperata, quello stile arrembante (che quando era esordiente Pasolini addirittura definisce un po’ da liceale insicuro)? Una Beat Generation con la Callas e le regimental al posto del rock and roll? Joyce? Faulkner? Celine? “Il sound della lingua parlata”…
Le influenze sono tantissime e le prime che mi vengono in mente riguardano l’accoppiata Gadda (per gli elenchi, per il plurilinguismo, per la complessità della lingua che riassume la complessità della realtà) e simmetricamente Roberto Longhi, storico e critico dell’arte che Arbasino aveva eletto a “massimo stilista italiano” insieme all’Ingegnere, e da cui gli deriva quel modo di descrivere le cose molto visuale ed efficace (in lui “l’occhio e la lingua sono parimenti eccelsi”, scriveva); “cognizione non del dolore ma del buonumore”; e “ricognizione visiva e investigazione lessicale”, non solo nella ricerca della “parola ineluttabile”, ma cercando il massimo risultato espressivo. Evitando l’aggettivo facile e accostando invece anche contesti diversissimi, per cui invece di dire “con grandi orecchie” dice magari con “orecchie da Mickey Mouse”. All’angoscia gaddiana si contrappone il dandismo longhiano, “lo scintillante amor verbale longhiano”, scrive Arbasino, fatto di correlativi verbali perfetti e imprevisti. Longhi è maestro di Arbasino anche poi come “reporter culturale”, perché chi sa scrivere bene può scrivere di tutto, e non a caso Longhi conta anche nel superamento della dualità alto/basso, era del resto un esimio cattedratico che però ascoltava e faceva delle imitazioni di Mina, tra i colleghi scandalizzati. Altre influenze: Edmund Wilson per il “business model”, articoli di giornale che rielaborati diventano saggi che poi diventano romanzi (validissimo ancor oggi); Ivy Compton-Burnett per i dialoghi secchi; Ronald Firbank per l’umorismo scatenato e camp. Sul versante camp, anche D’Annunzio, che Arbasino sfottendolo rivaluta e “restaura” come una vecchia ricetta italiana, tagliandone le cotture, affermandone però la centralità nella cultura del “secolo inservibile 1850-1950”. Poi, chiaramente Fitzgerald per certe immagini. Ma anche la poesia, tanta, Baudelaire e T. S. Eliot per primi – non dimentichiamoci che Arbasino esordì in versi [con L’apprendista Tebaide, pubblicato su Officina nel giugno 1957, “con drasticissimi tagli decisi da Pasolini editor. Come non si divertiva, chiedendogli: “Vuoi fare come Pound con Eliot?”, nda]; e la musica, fondamentale nella ricerca del “suono” della lingua, e di strutture formali.
Hai scientemente quasi del tutto evitato la critica letteraria, anche nella classica forma delle citazioni sulla “fortuna critica” dell’opera. Le citazioni altrui riguardano quasi sempre la vita, la personalità, lo stile Arbasino. Come mai hai scelto di non addentrarti in quel mondo? Mi dà l’idea proprio di un “teniamocene bene alla larga”…
Ma non potevo scrivere anche di quello! Ci vorrebbe un libro a parte. Mi interessava di più, comunque, raccontare il “mio” Arbasino, quello che avevo conosciuto io, un Arbasino “di primo grado”.
Secondo te come mai a un certo punto ha smesso di scrivere romanzi? Anche pigrizia?
Non lo so, è parte del mistero. Lui a un certo punto disse che qualcuno di cui si fidava molto lesse un suo manoscritto e non lo giudicò all’altezza del resto. Pigrizia comunque non direi, era un lavoratore instancabile. Bisogna anche ricordare che Arbasino ha sempre considerato il romanzo molto dal punto di vista strutturalista, e dopo averlo piegato in varie direzioni, può aver pensato che gli esperimenti erano finiti. Non era certo uno che si metteva lì a seguire l’ispirazione del momento, oppure a dire “adesso scriviamo un romanzo di successo”. Poi io penso anche che gli venisse molto più facile, e lo divertisse, scrivere saggi e reportage. E infine Fratelli d’Italia è un grande romanzo in progress, che ha continuamente allungato e rimaneggiato fino agli anni Novanta. Per cui in un certo senso lui ha continuato a scrivere romanzi, solo che quei romanzi hanno tutti lo stesso titolo.
Sì, per pigrizia intendevo magari rispetto al cimentarsi con opere monumentali, quegli oggetti non identificati e molto poco canonici per struttura, lunghezza, linguaggio e ambizione che sono stati i suoi romanzi principali (L’Anonimo, Fratelli, Eliogabalo). Però c’è quel Petrolio…
Sì certo, c’è la questione Petrolio, di cui parlo nel libro. Le cose stanno così: nell’ultima versione dei Fratelli d’Italia, quella del ’93, nella parte finale, quella degli appunti del romanzo che il protagonista Antonio sta scrivendo (romanzo nel romanzo), c’è una parte molto più lunga rispetto alle versioni più vecchie, in cui si parla di Eni, di crisi petrolifera, insomma gli stessi temi del romanzo perduto di Pasolini, quello che secondo alcuni è causa della sua morte. Temi che peraltro non potevano esserci nell’edizione del ’63 perché la crisi petrolifera è di anni dopo. E fa specie che mentre Arbasino stava lavorando a quest’ultima versione era molto preoccupato e angosciato che gli rubassero il manoscritto, lo teneva in banca. Insomma, due “petroli” paralleli. È interessante anche perché Pasolini e Arbasino erano amici, un po’ anche rivali. Come dicevamo prima, Arbasino esordì grazie a Pasolini, che però non gli fa sconti, gli fa delle critiche tremende. E quando molti anni dopo uscì Petrolio, Arbasino scrisse una recensione un po’ isterica e perfida. E in casa di Arbasino mi ricordo, inquietante, un quadro, opera dello stesso Pasolini, che ritraeva le loro due facce, la sua e quella di Alberto, sovrapposte… Insomma c’è questa questione del rapporto tra loro due, misterioso.
Considerando la mole di cose pubblicate e ripubblicate secondo te esiste la possibilità che vengano fuori degli inediti?
Penso di sì. Ma per queste cose bisognerebbe chiedere a un filologo serio come Raffaele Manica, che ha curato il magnifico Meridiano doppio di Arbasino…
Quanto tempo hai passato a pensare a come vestirti prima di quel viaggio con lui e Ricuperati nelle Marche, in cui lo incontravi “davvero” per la prima volta?
Pochissimo. Pantaloni e camicia a righe. Basta. Sai, non è che lui fosse un dandy. Al contrario, era molto sobrio, almeno nella fase in cui l’ho frequentato io. Abito o spezzato su misura, camicia bianca o azzurra, cravatta Hermès o Charvet, Rolex acciaio e oro. Mai un dettaglio vistoso. Poteva essere un avvocato del Nord, di quelli eleganti (che peraltro era il contesto da cui proveniva, famiglia di solidi avvocati).
Secondo te di base lui soffriva l’essere, pur essendo arbiter elegantiarum, in fondo un borghese provinciale e non un Agnelli o un rampollo di qualche aristocrazia? Può anche essere stata una spinta all’erudizione prima e all’espressione artistica poi?
Ma lo snobismo, inteso proprio in senso letterale, di “mancata nobiltà”, è sempre stato una formidabile molla letteraria. Guarda Proust. Guarda Balzac. E la provincia, se non ti uccide e sei talentuoso, è meglio di Harvard.
La sua influenza sui tuoi scritti, nello stile, nelle passioni, nelle tematiche, nella forma del reportage, è cosa nota. Ti pesa il confronto? Il fatto che chi vuole parlare male di te può sempre cavarsela con cose tipo “vorrebbe essere Arbasino”.
Ma no, non pesa perché impossibile. Non oserei mai parlare di confronto, piuttosto di debito, di influenza… E poi alla fine sempre meglio così che non che dicano “vorrebbe essere Paulo Coelho”.
Mi ricordo che Labranca diceva che gli piaceva leggere Arbasino, anche se lui che non aveva fatto le scuole alte non ci capiva un cazzo, tra tutti quei riferimenti e ammiccamenti. Cosa ne pensi? In fondo credo sia così per tanti, e probabilmente sarà sempre più così col passare del tempo e la progressiva dimenticanza a livello popolare di un certo tipo di cultura alta. (Io per esempio non so quasi nulla di opera, però mi sono letto le sue tante cose sul tema. Anche se poi magari non ho mai ascoltato le cose di cui parla).
Ma nessuno lo capisce interamente. Neanche ai suoi tempi. In lui c’era una specie di orgasmo citazionistico, di goduria del labirinto, col gusto del riferimento sempre più ardito, e nessuno ha mai compreso il 100 per cento dei suoi riferimenti. Arbasino non è sicuro al 100 per cento, insomma, come i vaccini. Bisogna correre qualche rischio. I suoi libri, soprattutto Fratelli d’Italia, non sono da seguire parola per parola, sono “romanzi di conversazione”, come teorizzava lui stesso, in cui si può entrare e uscire, si possono leggere anche solo ascoltando la lingua, “il sound”, appunto. Fratelli d’Italia è un I-Ching, da aprire a caso. Sono soprattutto fantastiche bibliografie: libri che ti fanno venir voglia di leggere altri libri.
A un certo punto dici che Arbasino era un Google. Lo era per la sua erudizione ma per me lo era anche nel senso di fonte di scoperte. Libri, autori, personaggi, storie… Quali sono in questo senso le cose che ti ha fatto scoprire e che più ti hanno segnato o colpito?
Be’, sono tantissime. Allora, geograficamente i castelli di Ludwig: quel morbo lì, la “wittelsbachmania, disturbo rarissimo”, come la chiamava lui, l’ho presa in pieno. Poi la Vienna di Sissi, ovviamente la California e l’America. E poi Roma: la descrizione che fa lui di Roma è pari solo a quella di Fellini nella Dolce Vita (film peraltro a cui era stato invitato a collaborare). Letterariamente, Gadda, Saint Simon, Longhi, Praz, Palazzeschi. La dimensione più ostile per me è stata quella musicale. Ci ho provato con tutto me stesso, ma non ce l’ho fatta a diventar melomane.
Anch’io, anche occupandomi di musica per lavoro, ogni tanto ci provo ma non ci riesco. Magari qualche Wagner visto su YouTube (invece che a Bayreuth, orrore), più per l’aspetto scenografico che altro. Se ci penso, anche tra le persone più colte che conosco, a parte chi suona classica per lavoro o simili, credo di non conoscere nessuno sotto i cinquanta che sia appassionato di opera. Secondo te come mai? È proprio una questione generazionale? Pensavo che forse la generazione di AA cresce con le canzonette della tradizione italiana alla radio, e quando cerca qualcosa di più alto si rivolge lì; noi siamo cresciuti con il Deejay Time alla radio, e al limite ci siamo rivolti all’indie rock. Non lo so.
Non lo so. Io non è che proprio la detesti, anzi ogni tanto vado. Ma non sono riuscito ad appassionarmi. Rispetto alla dimensione mitologica che narrava Arbasino manca tutto il glamour. Lui raccontava di prime memorabili con ragazzi favolosi scesi in smoking da decappottabili. La mia esperienza è stata molto diversa. Forse contava anche il fatto che ai tempi suoi c’era un vero star system legato alla lirica: la Callas era tipo Beyonce come livello di celebrità, c’erano le rivalità con le altre cantanti, gli amori con Onassis, l’amicizia con Pasolini, i drammi… insomma andare a sentire la Callas significava in quegli anni e per quelle generazioni anche accedere a una specie di centralità, se eri alla Scala e c’era la Callas eri al centro del mondo, una cosa che in Italia non succede spesso. Adesso questa dimensione di stardom è molto ridimensionata e i melomani giovani, almeno quelli che ho conosciuto io, sono molto lontani da quelli arbasiniani. Ma forse contava anche che fosse la Scala. A Roma, tutt’un’altra cosa. Ci sono delle pagine in Fratelli d’Italia sull’Opera di Roma, sui vecchi che vanno a vederla, le vecchie impellicciate, che sono tra le cose più comiche mai lette.
Facciamo un po’ di servizio pubblico: perché in pochi conoscono il formidabile Matinée? A un certo punto, en passant, lo definisci addirittura il tuo Arbasino preferito.
Sì, decisamente. Come abbiamo già detto e ripetuto, Arbasino nasce poeta, non romanziere. E ha sempre avuto un tocco formidabile nella scrittura in metrica. È un libro divertentissimo, ci sono poesie sul fist fucking, sul premio Strega, eccetera. E anche didascalie e intermezzi autobiografici “seri”, come quando racconta del Gadda morente. Per cui, facciamo anche un appello, a chi ne possiede i diritti: ristampatelo. Potrebbe essere il libro del nuovo corso adelphiano.
Passando ad altro, Céline dice ad Arbasino che la letteratura è solo stile, colore e punto di vista emotivo. Possiamo dire che fosse un teorema che si applicava anche a lui? Che pure era scrittore molto diverso. Dice anche, Céline, che del romanzo non gli importava più. Forse anche in questo si può avvicinarli? (Anche se di fatto Céline ne ha scritti per tutta la vita).
“Io sono uno stilista, solo questo… Mi importa soltanto lo stile, dunque m’interessa solo il colore…”, dice Céline in quella che è forse la più bella delle interviste francesi di Arbasino, quella nella casetta disordinata da accumulatore seriale dello scrittore a Meudon. Nel ’57, a 27 anni…
Nel libro parli anche di politicamente corretto e di cancel culture all’italiana. Da noi è in voga il rivendicare una scorrettezza che di fatto abbiamo sempre avuto ed è ancora al suo posto, agitando il fantasma di cancellazioni che sembrano molto lontane dal nostro ambiente socioculturale. Cito: “Per terrorizzare le masse italiane si usano casi molto americani, come lo strapotere di nicchie esotiche in università e centri d’arte e di cultura, e se nell’ateneo molto progressista del Connecticut aboliranno Raffaello per studiare artisti albini almeno trans, e non potrai magari ambire a fare una certa carriera se maschio bianco cisgender, la massaia e il notaio di Pescara e Brescia sono seriamente preoccupati che questo possa accadere anche nella loro Pescara o Brescia, dove invece è più probabile che il rettore bianco ed eterosessuale che sta lì in quanto figlio e nipote e bisnipote di rettore bianco ed eterosessuale si lamenterà – maledetto p.c. – perché le nuove norme morali gli impediscono di palpare la dottoranda come si fa da tempi immemori”.
Sì, Arbasino sfotteva il politicamente corretto vent’anni fa, quando scoppiò nelle università americane, ma oggi che è arrivato in Italia col solito ritardo ventennale di chi non ha fatto la “gita a Chiasso”, e in puro “doppiaggese” (aggettivo coniato da lui) credo lo divertirebbe moltissimo. Soprattutto i teorici del “non si può più dire niente”, in un paese notoriamente trucidissimo dove chiunque dice “la qualunque” in tv e sui giornali, e il massimo dell’emancipazione è dire “frocio!”, rivendicato soprattutto da maschi eterosessuali o anche da utili gay omofobi soprattutto anziani, che confondono le bullizzazioni subite con la giovinezza perduta. E i fascisti improvvisamente paladini della libertà di espressione… Che paese.
Un’altra cosa che mi interessa è come si tengono insieme l’Arbasino quasi per antonomasia cantore della mondanità e della frivolezza e l’Arbasino degli studi da diplomatico, dei saggi civili per Garzanti e dell’esperienza da deputato. È un dualismo molto raro. In Italia, poi.
Sì ma tutto è “strano” e raro nella figura di Arbasino rispetto al mondo in cui si muoveva. Gli studi non in Lettere ma in Legge, la nascita e l’orgoglio borghese, le frequentazioni, l’internazionalità, il terzismo coraggioso sia rispetto al comunismo mainstream che alla DC impresentabile. La poliedricità. È stato una specie di marziano planato da un’altra galassia, è chiaro. Poi, era ricco di famiglia, questo va specificato, perché ormai sento sempre più spesso una specie di tormentone (cit.) secondo cui scrivere era facilissimo fino a qualche decennio fa, e i giornali ti strapagavano per andare in giro per il mondo a fare i tuoi reportage. Non era così. Essere Arbasino oggi certo sarebbe impossibile, ma anche all’epoca sua non era per niente facile.
Parliamo un po’ di Tondelli. Non sapevo, prima di leggere il tuo libro, che ci fosse un legame, per quanto solo “spirituale” e mai concretizzatosi. Forse era l’unico vivente, l’unico “giovane” che gli piacesse? In effetti però ha del tutto senso, per via di quel discorso sul sound della lingua parlata. Io poi a Tondelli ci sono arrivato, da giovanissimo, attraverso tutt’altre letture, e prima che ad AA, quindi non avevo mai capito quell’influenza. Un legame che pure in teoria sembra improbabile: uno del tutto emotivo, anche programmaticamente, l’altro distaccato.
In realtà non è solo la lingua (per cui Tondelli pubblicamente dichiarò il suo debito nei confronti di Arbasino): c’è il tema dell’omosessualità, vissuta apertamente come “normale”, dunque descritta come poteva descriverla un romanziere americano o francese contemporaneo, e non più come un tema rimosso o assolutizzato. Senza il moralismo e il senso del peccato ma anzi gioiosamente e scherzandoci sopra. Arbasino e Tondelli sono i primi. Un altro “format” che lo scrittore emiliano ha mutuato da Arbasino è anche il giornalismo culturale: un autore immerso nel suo tempo, che non ha paura di misurarsi con la contemporaneità, e descrive quello che vede. I suoi reportage, che fossero da mostre “serie”, o dalle spiagge romagnole, sono molto belli e risentono di sicuro dell’esempio arbasinesco. Certo Tondelli era meno colto, aveva una cultura meno sistematica, e però proprio per questo più accessibile. Se Arbasino non riconosce ufficialmente in lui un suo erede, tuttavia le cose che scriverà alla sua morte, nel ’91, sono davvero toccanti.
A un certo punto senza esitazione dici di loro “i due più grandi scrittori italiani gay”. Non sto ad andare indietro a Pasolini, peraltro i rapporti tra i due sono noti, ma intravedo un convitato di pietra, delle tue parti tra l’altro. Cosa ne pensi di Aldo Busi? E soprattutto Arbasino lo aveva letto? Ne aveva un’opinione?
Aldo Busi grandissimo scrittore, per me. Sono possessore orgoglioso di una prima edizione di Seminario sulla gioventù, anni Ottanta. Adoravo anche il Busi televisivo, e mi manca. Mia mamma è grande amica di suo fratello Roberto, gran ballerino di liscio ed esperto di tortelli di zucca. Sai, Montichiari, quella roba lì. Arbasino però non lo recensì mai. Né ne parlava. Non so dire perché. Non che fosse disattento ai “nuovi”. Oltre a Tondelli, per esempio gli piaceva molto Bret Easton Ellis.
Nel vostro caso il rischioso passaggio dal mito alla conoscenza mi sembra sia stato abbastanza indolore. Di base perché Arbasino era Arbasino anche nella vita? Forse era fuori dal personaggio solo quella volta che ti ha accolto in ciabatte…
Be’, mica tanto indolore. Io avevo la supponenza di pensare di diventarci amico, anzi discepolo, figlio adottivo, e che in nome della mia giovinezza la cosa avrebbe dovuto essere abbastanza scontata. Ovviamente era una cosa di mitomania mia. E lui non mi ha mai filato molto. E aveva perfettamente ragione, cosa c’è di più odioso di un piccolo fan? Però poi quando ci vedevamo a cena o a pranzo anche col suo compagno Stefano era molto simpatico e divertente.
Sì, capisco. Intendevo indolore almeno nel fatto che poi la persona corrispondeva abbastanza bene al personaggio, mi pare. La vostra frequentazione, che è molto ben raccontata nel libro, è – perdona l’ossimoro e la ripetizione – frequente ma occasionale. Insomma vi vedevate spesso, ma quasi sempre più o meno per caso, perché invitati da altri – non vi sentivate per conto vostro. Dici che non sei mai diventato davvero un suo figlioccio o nipotino. Nel finale del libro arrivi alla conclusione che forse è perché lui ha sempre voluto restare un ragazzo.
Sicuramente, come poi il suo role model, Gadda, non aveva nessuna voglia di avere una sua corte o tanto meno degli epigoni o discepoli. Aveva tanti amici storici e il suo mondo, e non aveva nessuna voglia di allargarlo, credo, quel mondo, considerando anche che era già parecchio anziano quando l’ho conosciuto io. Ma non aveva niente del “nonno”. O del patriarca. Anzi, era proprio un ragazzo. E nonostante il fantastico Stefano, lui aveva sempre l’aria di A single man. Di Longhi Arbasino diceva che era rimasto sempre un ragazzo, non era mai invecchiato, e poi c’è una frase di Ellis che mi piace, dice che alla fine ognuno di noi rimane cristallizzato all’età che aveva quando ha raggiunto la celebrità. E allora lui forse è rimasto sempre il trentenne dell’Anonimo lombardo.
Nelle immagini: casa Arbasino in via Gianturco (gennaio 2013). Foto di Giovanna Silva. © Giovanna Silva