L’ Antigone di Massimiliano Civica, che ha debuttato a fine novembre al Fabbricone di Prato, si apre con un’immagine che è quasi un colpo in faccia. Creonte, il tiranno che preferisce mandare a morte sua nipote piuttosto che tollerare l’infrazione a una legge promulgata da lui stesso, porta cucita sull’uniforme di comandante una vistosa stella rossa. Lo stesso vale per suo figlio, Emone, e per le guardie a lui fedeli: stagliate sulla scena nera e spoglia, le stelle rosse dei miliziani di Creonte fanno pensare immediatamente a un gruppo di partigiani. È un rovesciamento potente di quelle che sono le interpretazioni classiche che il Novecento teatrale ha dato del dramma di Sofocle, da Bertolt Brecht, che vedeva in Creonte un emblema del nazismo, a Jean Anouilh, la cui sua versione andò in scena durante l’occupazione nazista in Francia e fu letta come un’allegoria della contrapposizione tra resistenza (Antigone) e collaborazionismo (Creonte). La figura di Antigone si è consolidata nel tempo come il simbolo della ribellione contro la violenza dello Stato, un’eroina senza ombre, caso quasi unico di attualizzazione della tragedia classica che sembra priva di forzature. Antigone è sola, di fronte al potere di Creonte, e per di più donna: per la sensibilità odierna non c’è dubbio alcuno da quale parte stare. Che cosa vuol dire allora presentare il “dittatore” Creonte come un partigiano? Accusare chi ha combattuto il nazifascismo di violenza e rigidità ideologica? E, per converso, questa scelta deve farci accostare il cadavere insepolto di Polinice a quello del Duce appeso a piazzale Loreto (l’intuizione è di Rodolfo Sacchettini)? Si tratta di una provocazione?
Nulla di tutto questo. Sarebbe una scelta assai strana per un regista come Massimiliano Civica, che ha fatto del minimalismo la sua cifra stilistica più convincente e del rigore misto a grazia il suo tratto più rappresentativo. E difatti, dietro la sua Antigone c’è tutto meno che un intento scandalistico: semmai, l’esito di una lettura approfondita del testo di Sofocle. Come ha già fatto in lavori precedenti dedicati alla tragedia classica e ai capolavori shakespeariani, Civica punta tutto sul testo, lo traduce seguendo allo stesso tempo un rigore filologico e uno sguardo alla sensibilità contemporanea, si potrebbe dire che lo porta “a nudo”, come si fa con certi pezzi pregiati dell’artigianato ispessiti dal tempo, e lo rende perfettamente comprensibile. Senza alcuna scenografia, lo spettacolo poggia interamente sulle voci e i corpi di attori di grandissimo livello. Compiere un’operazione del genere significa partire dalle parole, seguendo il tragitto delle loro traduzioni, per capire in che modo sono giunte fino a noi.
Se ci mettessimo a cercare in rete un’interpretazione contemporanea di Antigone, quasi invariabilmente incapperemmo nel mito dell’eroina contro il potere. Faccio un esperimento, mentre scrivo questo articolo, e mi imbatto ad esempio in Valeria Parrella, che in un programma de LaEffe – l’emittente Feltrinelli – sceglie Antigone come uno di tre libri che contengono le “parole importanti”, un libro “per tutti quelli che vogliono capire le battaglie civili del nostro tempo”, perché racconta “la lotta di un singolo contro l’istituzione”. Tutto molto in linea con l’idea di Antigone che generalmente abbiamo. Ma siamo certi che la battaglia di Antigone sia proprio questa? Antigone è la figlia di Edipo, e dunque del re di Tebe prima che la città venisse governata da Creonte. Il “dittatore”, come viene chiamato, è al potere da poco tempo e in una situazione di emergenza, ed è per altro uno stretto parente di Antigone, essendo il fratello di sua madre.
Completano il quadro Eteocle e Polinice, i due figli maschi di Edipo, che si sono dati battaglia uccidendosi l’un l’altro, e la sorella Ismene, che teme la sorte che toccherà a se stessa e ad Antigone, superstiti indifese di una famiglia regnante che non è più tale. Ma mentre Ismene cerca la strategia e la ragionevolezza, Antigone abbraccia la “bella morte”, perché il suo unico obiettivo è seppellire il fratello secondo quanto chiesto dalle “leggi non scritte”, quelle che sono sempre esistite, quelle degli Dei. Sembrerebbe una storia edificante, ma in realtà uno scarto c’è, e riguarda i due fratelli: Eteocle ha difeso la patria, Polinice si è alleato con un esercito straniero per metterla a ferro e fuoco. Per questo i vincitori, che hanno salvato Tebe, scelgono di seppellire con tutti gli onori il primo e di lasciare insepolto il secondo. Sono queste le famose “ragioni di Creonte”.
I morti non sono tutti uguali, specialmente all’indomani di una guerra.
Periodicamente nel dibattito pubblico torna il ribaltamento della figura di Antigone. Ad esempio su La Lettura del Corriere, nel 2015, Mauro Bonazzi recensiva Che cos’è la giustizia di Hans Klein con un titolo perentorio: “Antigone aveva torto”. Antigone è stata celebrata di volta in volta come il singolo (la singola) che si oppone al dispotismo della legge; l’alterità femminile che non si piega al potere maschile; l’esponente delle giovani generazioni che non sottostà alle logiche delle vecchie. Eppure, secondo Bonazzi, la scelta di non seppellire Polinice dovrebbe essere ben compresa da “tutti quelli che depongono corone di fiori il 25 aprile”. I morti non sono tutti uguali, specialmente all’indomani di una guerra. E soprattutto, quando quei morti sono condottieri, simboli di una parte avversa, c’è il rischio che le loro tombe diventino simboli (ne è un esempio la tomba del Duce, o la scelta dei sovietici di far scomparire i resti di Hitler, o quella degli statunitensi di fare altrettanto con Bin Laden). “I morti contano”, conclude Bonazzi.
Il ribaltamento della figura di Antigone non è l’obiettivo della messa in scena di Massimiliano Civica, che certo non santifica Creonte, che sentenzia con tracotanza che il posto delle donne è dentro casa. Piuttosto, ciò che il regista vuole mettere in luce è la vicenda nella sua complessità, riposizionandola dentro la sua cornice storica. Ad esempio Creonte (qui un superbo Oscar De Summa) viene normalmente visto come colui che antepone la ragion di stato ai diritti dei singoli. Ma, a ben guardare, nello spazio politico egli è soprattutto colui che afferma le ragioni comuni, della città, rispetto agli interessi della sua famiglia. Antigone è la promessa sposa di suo figlio Emone (interpretato da un Francesco Rotelli versatile e convincente, che passa con maestria dai registri tragici a quelli comico-popolareschi dei soldati a guardia del cadavere). Creonte, dunque, sceglie di anteporre la ragione della comunità a quelle della famiglia e nel farlo vuole dare l’esempio, affinché non esista eccezione di stampo tribale/familiare alle esigenze della città presa nella sua interezza. Secondo la lettura che Hegel dava del dramma sofocleo, sia Creonte che Antigone hanno ragione. Sono due figure contrapposte, seguono principi contrapposti anche se entrambi validi: il primo segue il principio razionale, maschile, del governo della città; la seconda segue la pietas, femminile, degli obblighi famigliari e relazionali. Una tesi sviluppata ulteriormente da Heidegger, che lega il personaggio maschile all’innovazione e quello femminile alla tradizione. Ma nel vedere la versione di Massimiliano Civica, nell’ascoltare la sua traduzione, si fa strada un’ulteriore ipotesi: che sia Creonte che Antigone abbiano in realtà torto.
Antigone (la cui figura di rigoroso dolore è affidata alla bravura olimpica di Monica Piseddu) è figlia di re e il suo unico obiettivo è che si tributi il giusto rispetto ai membri della famiglia reale – la famiglia incestuosa per eccellenza del dramma antico – anche nel momento in cui sono morti. Della guerra che c’è stata non le importa nulla, men che meno delle ragioni contrapposte. Vuole soltanto seppellire Polinice e lo fa a costo della vita, dileggiando inizialmente la più accorta sorella Ismene (una Monica Demuru bravissima, che plasma una figura intensa schiacciata tra due massimalismi). Ma non si tratta necessariamente di un atto di pietas, non come lo intendiamo abitualmente. Nel discutere con Creonte, Antigone dice – creando un effetto piuttosto agghiacciante – che non può accettare la legge perché quello è suo fratello. Se le fosse morto un marito o un figlio non si sarebbe accanita così tanto.
Invece Polinice è il figlio dei suoi genitori entrambi morti, non potrà mai avere un altro fratello, mentre di mariti potrebbe averne quanti ne vuole, di figli, anche nel caso morissero, potrebbe farne altri. Un discorso un bel po’ distante dalla nostra morale contemporanea, non è vero? E per questo l’effetto di una simile affermazione è devastante. Per quale ragione la morte e il mancato seppellimento di un figlio sarebbero meno gravi per Antigone? Perché non spenderebbe una parola per un ipotetico marito insepolto? Perché ciò che le sta a cuore, il motivo per cui è disposta persino a morire, è il diritto dell’oligarchia a cui appartiene – e a cui apparteneva lo stesso Sofocle. Creonte, che si oppone a questa logica in nome degli interessi dell’intera comunità, che antepone questi interessi a quelli della sua famiglia, che crede nella legge che vale per tutti, beh, Creonte non può che essere espressione di un pensiero democratico rispetto a quello aristocratico di Antigone. Creonte è il progressista. Creonte è colui che apre le porte ad un’idea moderna del diritto, che ribalta quella ancestrale. Ecco perché compare, in scena, nelle vesti di un partigiano.
Il diritto senza la legge non può reggere ma allo stesso tempo la legge non può divorare il diritto. La tenuta di una società democratica, in senso moderno, dipende dall’equilibrio tra questi due principi.
Una sostenitrice dell’interpretazione secondo cui sia Antigone sia Creonte hanno torto è stata la filosofa Martha Nussbaum. Lo ricorda Gustavo Zagrebelsky, professore emerito di diritto costituzionale, che è tornato più volte sulla tragedia sofoclea nel corso degli anni, fino ad una letio magistralis tenuta a Pisa nel 2016. Si tratta della tesi del “confronto negato”, quella secondo cui entrambi i protagonisti della tragedia hanno torto non perché sostengono delle tesi sbagliate, ma perché non si pongono in ascolto dell’altro. Sono due fondamentalisti, totalmente inabili al dialogo. Anche se Antigone resta il simbolo di chi si alza in piedi e professa apertamente le proprie idee, anche quando è scomodo (una figura, tuttavia, sempre meno presente sulla scena politica dei nostri giorni); anche se Creonte ha le sue ragioni e la legge non può cedere alle questioni familistiche, né tanto meno alle ragioni dell’emozione; il punto sostanziale è l’incapacità dei due personaggi di farsi permeare, anche solo un poco, dal punto di vista dell’altro. Il finale della tragedia sembra supportare questa interpretazione: Creonte si pente, manda a liberare la nipote ma è troppo tardi: Antigone si è già uccisa.
Il diritto senza la legge non può reggere, secondo il giurista, ma allo stesso tempo la legge non può divorare il diritto. La tenuta di una società democratica, in senso moderno, dipende dall’equilibrio tra questi due principi. E per questo il giurista rivaluta la figura di Ismene, che forse – secondo la sua interpretazione – è la vera autrice del primo gesto di pietà, quel “fine velo di polvere” che viene abusivamente sparato sul cadavere di Polinice. Ismene è la figura del compromesso, del dialogo.
Se questa è un’interpretazione che cerca, soprattutto, di mettere in evidenza come possa parlare una tragedia di 2.461 anni al nostro presente, Massimiliano Civica cerca soprattutto di capire come parlò quel testo nel 442 a. C. Sofocle è un esponente dell’oligarchia ateniese nell’epoca dominata da Pericle e dalla sua fazione democratica. È probabilmente alla sua realtà, e a quella delle fazioni in guerra nelle varie città greche del tempo, che Sofocle sta parlando. È a loro che dice “occorre ascoltarsi”. Il Coro (qui incarnato dalla figura fantasmatica e ipnotica di Marcello Sambati) lo esplicita in maniera evidente. Chi ha trasgredito la legge non ha ragione, mai, e andrebbe allontanato dalla città, dice il Coro; ma allo stesso tempo esorta il grande Creonte ad essere più malleabile, a cercare di comprendere le ragioni dell’altro, a governare secondo un principio che trascende persino, almeno in parte, le proprie giuste posizioni. E lo stesso discorso di Emone, che ha preso parte alla guerra assieme al padre, ma vuole salvare Antigone, la donna che dovrebbe sposare. Secondo Civica leggere il dramma secondo un’idea di fazioni contrapposte, che vanno supportate o contrastate con nettezza, significa non cogliere l’operazione tentata da Sofocle.
La conciliazione è possibile solo superando le posizioni politiche di partenza. Ma, cosa ancora più importante, il carattere di chi ci governa non è un fattore secondario. Creonte è inflessibile, fiero, convinto delle proprie ragioni che sono quelle del progresso democratico. Antigone, dal canto suo, non concede la minima legittimità alle leggi di Creonte, perché per lei esiste solo la legge degli dei. Quegli dei degli inferi che, poiché lei è dalla parte della ragione, accorreranno a salvarla. È da loro che deriva la legittimità delle azioni di Antigone. Ma poiché quelle entità divine, una volta che la figlia di Edipo viene murata viva nella grotta a scontare la propria pena, non si manifestano per salvarla, sono proprio esse – o meglio, la loro assenza – che finiscono per condurre la ragazza alla rovina. E al suicidio. Antigone non è meno inflessibile di Creonte, quando subisce l’accusa e la condanna dà dei “pezzenti” ai propri accusatori, come farebbe una nobile di fronte a un tribunale rivoluzionario. Se non si tiene conto di queste posizioni contrapposte non si capisce l’aspetto più scioccante della traduzione di Massimiliano Civica, la celebre frase che Antigone dice a Creonte e che tutti conosciamo formulata in questo modo: “Io non sono nata per odiare, ma per amare”. Monica Piseddu, invece, nello spettacolo dice con energica freddezza: “Io non sono nata per odiare, ma per amare chi ha il mio stesso sangue”. Se buona parte delle traduzioni precedenti hanno sistematicamente omesso la parte finale della battuta, il motivo va probabilmente ricercato nel simbolo tutto contemporaneo che, nel tempo, l’eroina di Sofocle ha finito per incarnare. Simbolo di cui questa messa in scena mette finalmente in luce tutta la controversa, irriducibile complessità.