Jonathan Zenti
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Angelo Guglielmi, fotografia Rai Cultura.
19.7.2022
Angelo Guglielmi, un modo di fare le cose
Un profilo del geniale direttore di Rai Tre dal 1987 al 1994.
Jonathan Zenti è un autore indipendente di audio e podcast. Ha collaborato per molti anni con Radio3 e con le più importanti radio internazionali come BBC, CBC e ABC Australia. Nel 2015 ha fondato il primo network internazionale di autori audio indipendenti, MIRP e 2016 è arrivato secondo a Podquest, il primo talent per podcast negli Stati Uniti. Ha vinto due tra i più prestigiosi premi internazionali per l’audio: l’Hearsay Award in Irlanda nel 2015 e il Third Coast Award a Chicago nel 2018. Oggi scrive per Internazionale, per Il Tascabile, cura i suoi podcast Problemi (in italiano) e Meat (in inglese), mentre fa delle incursioni come battitore libero dell’industria dell’audio come “esperto di rogne di cui nessuno si vuole occupare”.
L’
11 luglio del 2022 è morto Angelo Guglielmi, intellettuale e attivista culturale Italiano, ricordato soprattutto per il suo settennato di direzione del terzo canale televisivo della RAI tra il 1987 e il 1994. Come accade sempre più spesso, un persona relegata alla penombra fino al giorno prima della sua scomparsa viene celebrata dalle piattaforme editoriali esasperandone l’importanza a servizio di click, in attesa della scomparsa successiva (nel caso di Guglielmi, quella di Eugenio Scalfari arrivata tre giorni dopo). Tutti gli elogi postumi a Guglielmi si barcamenano tra “l’uomo che fece la rivoluzione in TV” e “l’uomo che cambiò la storia della televisione”.
Se così fosse stato, se davvero Angelo Guglielmi avesse rivoluzionato la televisione o ne avesse cambiato la storia, oggi, sgranando le centinaia di canali che abbiamo a disposizione sui nostri televisori, avremmo la possibilità di scegliere qualcosa di “colto”. Qualche programma in grado di trasformare un nostro vuoto in un momento di conoscenza. O qualche programma disgustoso, incomprensibile, che ci ripugna, ma che in qualche modo la sera successiva ci fa venire voglia di ritornare da lui. Purtroppo però, questa occasione, per noi spettatori del nuovo millennio, non capita quasi mai, almeno che non si incappi proprio in qualche fortunata replica o in una evoluzione di qualcosa che è stato inventato nella sua Rai Tre tra il 1987 e il 1994, a cavallo cioè tra la nomina di Mario Chiesa a presidente del Pio Albergo Trivulzio e la nomina di Silvio Berlusconi a presidente del Consiglio.
Ma l’Italia non è un paese in cui si cambia il corso della storia o in cui si fanno le rivoluzioni. Il massimo a cui si può aspirare è che si creino dei vuoti, dei cortocircuiti, dei quali approfittare per fare un’incursione rivoluzionaria prima che il guasto non venga riparato e tutto torni allo stato precedente. Il grande merito di Angelo Guglielmi è stato di aver avuto l’intuizione di un corto circuito e di averne approfittato in un modo unico che, sebbene non abbia fatto scuola, è rimasto come esempio.
La televisione, diretta da Ettore Bernabei, era ingessata nel suo mantra ‘educare, informare, intrattenere’ ereditato dalla BBC, incapace di stare nel cambiamento vorticoso dell’Italia del boom economico.
Quando l’Italia del dopoguerra inizia a ruggire Angelo Guglielmi ha venticinque anni. Laureato in lettere a Bologna, segue il suggerimento della madre e partecipa a un grande concorso della RAI che sta per lanciare la Televisione. Insieme a lui si candidano altre 8 mila persone e soltanto in 20 tra loro passeranno. Dopo un anno alla radio, Guglielmi viene chiamato alla televisione dove inizia ad occuparsi, tra le altre cose, dei “programmi di servizio”: la messa delle domenica mattina, i programmi per i soldati di leva e le loro famiglie, i programmi per i preti e le suore, i programmi didattici. Nel frattempo a Roma trova il terreno sociale più fertile per approfondire la sua passione per la letteratura, iniziando a frequentare alcuni dei nomi che poi confluiranno nel Gruppo 63, come Alberto Arbasino – di cui divenne grande amico – e Nanni Balestrini. Sono queste due esperienze, quella aziendale e quella sociale, a far nascere per la prima volta in Angelo Guglielmi una “intuizione”. La televisione, diretta da Ettore Bernabei, era ingessata nel suo mantra “educare, informare, intrattenere” ereditato dalla BBC, incapace di stare nel cambiamento vorticoso dell’Italia del boom economico, con le sue produzioni mastodonticamente obsolete come l’Odissea di Franco Rossi, gli Atti degli Apostoli di Roberto Rossellini o i Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli. L’esperienza dei programmi di servizio aveva reso evidente a Guglielmi come il dialogo tra un militare e la sua famiglia, il racconto della giovane ragazza di paese che diventa probanda, la messa in scena del rito festivo della messa o di quello feriale della scuola, fossero in grado di creare una connessione istantanea e vitale tra il mezzo televisivo e il pubblico che a quel punto non era più spettatore, ma utente, ovvero partecipe di quello che vedeva di cui in qualche modo si faceva qualcosa. Nasce così il ciclo delle “Vite”, agglomerati che univano la moda del momento, lo sceneggiato televisivo, con degli inserti di documentari didattici tipici dei programmi di servizio. La prima ad entrare in produzione del 1963 è Vita di Michelangelo, con la regia di un giovane proveniente dall’avanguardia politica del Piccolo Teatro di Milano, Sergio Blasi, e un attore che frequenta ancora le retrovie dello spettacolo, appena scritturato per Un Pugno di Dollari di Sergio Leone, Gian Maria Volonté.
Le “Vite” piacciono al pubblico: il Michelangelo di Volonté non è un eroe distante come Omero o Gesù di Nazareth, ma è un uomo che cerca di costruire una sua via nelle contraddizioni del suo tempo, esattamente come stavano facendo i nuovi impiegati e operai degli anni ‘60. Le produzioni continuano con, tra gli altri, un più classico Vita di Dante, un a tratti surreale Vita di Cavour, fino a chiudere il cerchio nel modo più classico e più RAI possibile, nel 1967. Ricomposta la stessa squadra dell’esordio, con Blasi alla regia e Volonté protagonista, in Vita di Caravaggio Guglielmi compie l’azzardo di approvare – ovvero, di non censurare – una scena in cui Caravaggio vede passare su un carro dell’inquisizione Giordano Bruno, legato e con la mordacchia alla bocca – mentre viene portato al rogo. Il Presidente Bernabei, esponente di primo piano di Opus Dei, convoca Guglielmi e lo manda al “confino” in un centro di produzione esterno, lanciandogli, sulla soglia di uscita, un presagio: “Non si preoccupi Guglielmi, tornerà buono in un altro momento”.
Angelo Guglielmi continua la sua vita divisa tra quello che lui chiamava “il mestiere”, ovvero tutto quello che comportava essere un dipendente RAI, e la sua passione per la letteratura, che coltivava più come critico che non come scrittore. Dice di sé Guglielmi, ricordando la sua giovinezza: “Ero intelligente, moderatamente bravo a scuola […] ma non avevo talento. Per talento intendo la capacità di riuscire negli impegni pratici e quotidiani senza sconfitte (o peggio, rinunce). Ricorrevo quasi sempre alla rinunce per evitare le sconfitte”. Forse anche per questa convinzione si è concentrato più sulla critica e sulla saggistica che non sulla creazione. Sul fronte del mestiere, invece, Guglielmi fa quello che deve fare e che gli dicono di fare: dalla produzione esterna torna alla produzione interna, da dipendente a funzionario: diventa capostruttura di Rai Uno e responsabile della produzione di via Teulada. Fino a che non si presenta, inaspettata, l’opportunità di una direzione di rete.
Non si preoccupi Guglielmi, tornerà buono in un altro momento.
La Rai Tre di Angelo Guglielmi nasce in una combinazione di condizioni irripetibili. Nel 1987 una nuova riforma della RAI, che interviene su una riforma del 1975 che si era dimostrata completamente inefficace e inefficiente, mette a sistema la “lottizzazione” delle reti e delle testate giornalistiche, ovvero la spartizione partitica del servizio pubblico: Rai Uno, il canale principale, viene consegnato alla Democrazia Cristiana mentre Rai Due diventa l’ammiraglia del Partito Socialista di Bettino Craxi. Al Partito Comunista Italiano tocca Il Terzo Canale, una rete nuova che era stata usata fino a quel momento solo come coordinamento delle reti regionali e come incubatore di format per le altre due reti. Nel 1987 il PCI ha ben altro a cui pensare: Berlinguer era morto da nemmeno tre anni, il nuovo segretario Natta era inviso a quasi tutta la dirigenza e si stava già preparando il terreno per “il nuovo PCI” di Achille Occhetto, quello che prenderà in faccia la caduta del muro di Berlino, il discioglimento del blocco comunista, la discesa in campo di Silvio Berlusconi.
Il responsabile culturale di quel PCI alla deriva è un giovanissimo Walter Veltroni, appena travasato dalla fervente FGCI romana e figlio di Vittorio Veltroni che, nel 1955, aveva voluto Guglielmi nella sua televisione. È in quel momento che si avvera la profezia lanciata decenni prima da Bernabei: mentre la direzione del telegiornale viene affidata a un comunista di fiducia come Sandro Curzi, per la direzione della rete “torna buono” un capostruttura di mestiere di cui tutti si fidano: Angelo Guglielmi. L’altra condizione fondamentale per capire l’eccezionalità di questo momento storico, e che curiosamente non viene mai citata quando si ricorda la Rai Tre “rivoluzionaria” di Guglielmi, è che tutto accade durante l’esplosione politica, finanziaria e culturale della televisione privata di Fininvest e Silvio Berlusconi.
Tutto accade durante l’esplosione politica, finanziaria e culturale della televisione privata di Fininvest e Silvio Berlusconi.
Tra l’84 e l’85 Fininvest aveva ottenuto legittimazione nazionale grazie ai decreti voluti e imposti da Bettino Craxi, e nel 1987 aveva scippato alla RAI il suo asset più prezioso, il “varietà”, mettendo sotto contratto in un colpo solo Pippo Baudo, Lorella Cuccarini e Raffaella Carrà. Nel frattempo il Drive-In di Antonio Ricci, con i vuoti tormentoni dei suoi comici mediocri e la procacità pruriginosa delle sue vallette diventava il modello culturale di una nuova classe media italiana stimolata nei suoi istinti più viscerali, interessata al denaro e al potere, pronta di lì a pochi anni a lanciare monetine su una prima repubblica nei confronti della quale non sentiva più alcun legame di esistenza.
Guglielmi dice di sé anche di essere sempre stato “intuitivo”. “Il momento dell’intuizione non rappresenta uno stato di continuità ma uno stato improvviso e di eccezione”. Quello che trova, infatti, è una eccezione improvvisa: una rete vuota da mettere in piedi durante un vuoto di potere. Ed è qui che la sua intuizione fa la differenza: se su Rai Due il carrozzone di Indietro Tutta! di Renzo Arbore era costretto alla parodia del mondo Fininvest, sul terzo canale c’erano le condizioni per costruire qualcosa di nuovo. “Una televisione colta”, come lui stesso amava chiamarla, una televisione che non si limitava a incorniciare i prodotti culturali, ma che trasformava la televisione per diventare un prodotto culturale essa stessa. Il motto della sua Rai Tre diventa “la cultura non è una cosa, ma è un modo di fare le cose”. Le manifestazioni di quel modo di fare le cose sono quelle più note e sono quelle che per fortuna, negli ultimi anni, sono state pienamente riconosciute per il loro valore storico. Ne cito alcune, sapendo di tralasciarne molte.
Lio Beghin, che aveva collaborato con Guglielmi ai programmi di servizio, si occupa di mettere in piedi la nuova “TV-Verità”: programmi che mettono in relazione la vita quotidiana dei cittadini con lo studio televisivo. Il Telefono Giallo di Corrado Augias, il cui filo mette in relazione gli spettatori con i casi di cronaca nera; Chi l’ha visto di Paolo Guzzanti e Donatella Raffai che si addentra nel mistero delle persone scomparse; Un Giorno in Pretura di Nini Perno e Roberta Petrelluzzi, che porta nelle case Italiane le vite che si decidono nei tribunali italiani (non solo “i grandi casi” come fa oggi, ma anche le piccole beghe, come il caso della Signora Signorello). Ci sono poi i programmi politici come quelli del conosciuto Andrea Barbato, ma anche Linea Rovente di Giuliano Ferrara (con una delle sigle più belle degli anni Ottanta televisivi), il Samarcanda di Michele Santoro, Ultimo Minuto di Simonetta Martone e Maurizio Mannoni e Il Porta Lettere di Piero Chiambretti, che riesce a strappare un saluto romano a un Gianfranco Fini che di lì a poco avrebbe affondato il Movimento Sociale Italiano.
C’è poi la parte di palinsesto comica, quella che ancora oggi tutti ricordano come la più irripetibile, in diretta e sfacciata sfida con la poetica del Drive-In di Fininvest. Affidata alla cura di Bruno Voglino, sfornerà programmi indimenticabili come La TV delle Ragazze, dove, in contrapposizione con il modello culturale Fininvest, le “ragazze” sono autrici, attrici e curatrici del loro programma, e non ancelle al servizio di una struttura prepotentemente maschile – il trio femminile Amurri-Brunetta-Dandini, che poi creeranno anche a Avanzi, Maddecheaò e Tunnel, i programmi in cui hanno preso vita i primi personaggi di Corrado Guzzanti. E poi c’è il palinsesto d’avanguardia (o, come avrebbe detto Guglielmi, di “neo-avanguardia”), affidato a Enrico Ghezzi: dalle prime dieci maratone notturne di Fuori Orario, che, come disse lo stesso Ghezzi, “è stato forse il programma con il costo per spettatore più alto della storia della RAI”, da cui poi nascerà Blob – che sarà forse quello con il costo minore per spettatore, dato il successo e il bassissimo costo di produzione – e intorno ai quali graviteranno i microfilm televisivi di Ciprì e Maresco con Cinico TV e della coppia Antonio Rezza-Flavia Mastrella. “L’improvvisa eccezione” dura sette anni, fino al 1994, quando la nuova presidente della RAI Letizia Moratti, nominata dopo l’inaspettata vittoria del Cavalier Berlusconi alle prime politiche post-Tangentopoli, silurerà Guglielmi non appena entrata in ufficio, dando la poltrona a un più mansueto e controllabile Locatelli che traghetterà la rete fino alla restaurazione di Giovanni Minoli (genero di Bernabei) nel 1996.
Alla fine della stagione il programma venne cancellato, ma il risultato è che, per almeno una stagione, quel programma venne fatto.
Ma come si può delineare questo “modo di fare le cose”? Se, come abbiamo detto, le condizioni dell’eccezione sono state dettate dal caso, quali sono state le manovre di direzione che hanno reso quella eccezione possibile? Un altro grande merito di Angelo Guglielmi è stato quello di non approfittare di un’occasione per togliersi uno sfizio personale. Di fronte agli ampi margini di manovra che una conduzione di una rete “culturale” poteva dargli, Guglielmi ha mantenuto distinti il mestiere e la passione: non ha riempito il palinsesto degli “amici” o dei letterati che ha frequentato nel corso della sua vita, ma si è dedicato a pensare a qualcosa che potesse funzionare.
Il suo strumento elettivo era il “lasciar fare”: per capire se un programma poteva funzionare bisognava provarlo, misurarlo, anche confrontandosi senza timore con l’Auditel, e magari aggiustarlo per la stagione successiva. C’è un aneddoto che spiega bene questo approccio di Guglielmi alla direzione, raccontato da lui stesso in un’intervista del 2021 su Il Fatto Quotidiano. Nel 1988 Craxi era stato “spallato” dalla Democrazia Cristiana di De Mita e non era più al governo, ma rimaneva comunque uno degli uomini più potenti della politica Italiana. Uno dei primi programmi di Rai Tre era Va’ Pensiero di Andrea Barbato e Oliviero Beha, durante il quale viene mandato un finto servizio del telegiornale dal titolo “L’onorevole Craxi visita gli Zingari”: si vede un Bettino Craxi (interpretato da Vincino) in visita in un campo nomadi per sostenere la causa di un “nomadismo socialista e riformista”, ma alla fine dell’incontro gli abitanti del campo si accorgono che Craxi si è rubato tutto. Guglielmi venne subito chiamato da Enrico Manca (presidente) e Biagio Agnes (direttore generale) che gli chiesero conto di quello sketch: lui rispose che non l’aveva visto perché non è sua abitudine controllare quello che va in onda. Qualche mese più tardi dovette difendere di nuovo il programma dopo che Oliviero Beha aveva attaccato duramente l’allora intoccabile Enzo Biagi. Alla fine della stagione il programma venne cancellato, ma il risultato è che, per almeno una stagione, quel programma venne fatto.
Per capire quale fosse l’approccio di Angelo Guglielmi alla direzione viene in aiuto un piccolo pamphlet scritto nel 2014 insieme a colui che era stato il suo vice direttore a Rai Tre, Stefano Balassone, dal titolo Finalmente la Riforma della RAI, edito da Bompiani. Inaspettatamente la domanda cruciale da cui era partito Guglielmi era: “perché la RAI è così inquieta? […] Perché i dipendenti della RAI soffrono di frustrazione professionale lamentando di essere scarsamente (o per nulla) utilizzati e offesi nelle loro capacità e competenze?”.
Se la cultura è un modo di fare le cose, è chiaro che quel modo si deve occupare anche delle motivazioni di chi partecipa di quel modo e della salute relazionale di una struttura organizzativa: le persone che lavorano ai programmi devono essere soddisfatte dei programmi a cui lavorano, e devono trovare una motivazione. Alla luce di questo ragionamento si può capire facilmente che la scelta di far fare la televisione quasi esclusivamente a persone sconosciute (pescate dalla stampa come Corrado Augias, tra gli autori come Corrado Guzzanti o dalla radio come Donatella Raffai) crea nel sistema un clima di sfida verso l’establishment, di armata Brancaleone che si avvia alle crociate, di Davide contro Golia, che compatta la struttura verso un obiettivo e le dà una direzione.
Per potersi legare alla realtà la televisione deve stare nella realtà, deve portare le camere a spalla nella strada, e deve usare l’Auditel come uno strumento di valutazione di una performance e non come censore di possibili idee future.
Sono tre i fronti su cui Angelo Guglielmi lavora durante il settennato, e tutti concorrono al successo di quell’esperienza. Il primo fronte, fondamentale, è il rapporto con il pubblico. “La televisione è già guardata dagli Italiani che restano a casa”, quindi o si continua a rubarsi lo stesso pubblico l’uno con l’altro, oppure si crea una televisione in grado di mettere per qualche ora davanti allo schermo chi la televisione non la guarda, “così come farebbe una partita della Nazionale di Calcio”. Se Guglielmi è riuscito a difendere quella tv politicamente scomoda per tanti anni è per i risultati: partendo da un indice di share che a stento arrivava all’1% di ascolti, gli viene delegato dall’azienda un obiettivo del 2% e lui raggiunge la media del 6%, con picchi che arrivano anche fino all’8% o al 9%. Per potersi legare alla realtà la televisione deve stare nella realtà, deve portare le camere a spalla nella strada, e deve usare l’Auditel come uno strumento di valutazione di una performance e non come censore di possibili idee future. La televisione deve essere il prodotto di un “disegno intelligente” che consenta di creare i contenuti “a priori” – e quindi di immaginarli secondo una visione – anziché “a posteriori” – ovvero creati partendo da dei dati che ci dicono cosa già funziona. Quello che funziona già non può creare un pubblico nuovo, l’unico modo per farlo è studiare il pubblico che manca e costruire con lui una televisione per lui.
Il secondo fronte su cui lavora Guglielmi è quello del quadro d’insieme. La RAI, come qualsiasi altra azienda, non esiste al di fuori della cornice politica che la governa e del quadro complessivo in cui si inscrive. L’azienda prima deve conquistare una sua autonomia, non solo dai partiti ma anche dai protettorati interni, e poi deve immaginarsi in un panorama complessivo, che comprendeva (allora) Fininvest e la nascente imprenditoria privata nel settore dei media. Solo una conoscenza e una gestione di quel quadro consente di capire qual è il posto vacante e di pensare a come occuparlo. “La televisione colta” di Guglielmi non ha avuto quel successo solo perché “era colta”, ma ce l’ha avuto perché in quel momento nessun altro la stava facendo.
Il terzo fronte è quello della gestione delle risorse. Uno dei motivi per cui in RAI “infuria il malcontento” è proprio la gestione del personale in relazione alla mole di produzione: se alla BBC per ogni milione di euro di ricavi ci sono 7,14 persone al lavoro, in RAI ce ne sono quasi la metà, 4,86. Il che vuol dire che, per produrre un milione di ricavi, in RAI i dipendenti devono lavorare il doppio: se a questo aggiungiamo le disparità di rappresentanza sindacale tra le diverse categorie, i favoritismi, l’assenteismo e altri problemi endemici dell’azienda, si può facilmente intuire quanto il peso della struttura gravi sulla forza lavoro. Nella Rai Tre di Guglielmi non si buttava via niente. Il costosissimo primo Fuori Orario di Ghezzi, una volta sospeso, divenne materiale per altre centinaia di ore di programmazione. Se Corrado Guzzanti era un bravo autore si correva l’azzardo di passarlo alla scena, anziché costringerlo a scrivere per il costosissimo talent di turno. A guidare la progettazione era il “come”, non il “cosa”. Se lo sforzo produttivo si concentrava sul corretto e virtuoso funzionamento della macchina produttiva, allora qualsiasi contenuto poteva diventare un contenuto di successo.
La visione operativa di Angelo Guglielmi è stata cacciata dalla RAI assieme a lui, che andrà a portare dei cambiamenti anche all’Istituto Luce, traghettando l’archivio nell’era digitale e dando vita al “Circuito Cinema” che oggi mantiene in vita le sale d’essai in Italia. Il suo ultimo dono è quello di essere scomparso in tardissima età, a 93 anni, di essere stato lucido fino alla fine e di averci lasciato tantissimo materiale su cui riflettere e studiare. L’Italia non è un paese in cui si possa davvero fare scuola, cambiare la storia o dare vita a delle rivoluzioni. Ma ogni tanto si presentano delle “improvvise eccezioni” di cui è sempre opportuno approfittare. Angelo Guglielmi è stato un esempio di come si possa trovare un modo per fare le cose quando se ne presenta l’opportunità.