L a figura retorica dell’allegoria deve la sua etimologia al greco antico: “altro dico”, dire qualcosa per qualcos’altro; è un simulacro, una sorta di magia della parola che consiste nell’affiancare un concetto astratto a un’immagine concreta per celare un simbolo (non è un caso se in molte culture, una per tutte quella indù, il processo di creazione del mondo avvenga tramite nominazione). L’allegoria è classificata una figura retorica di pensiero – seguendo la suddivisione in figure di parola e di pensiero tramandata nell’ambito della retorica classica – che si basa sul contenuto. È la mente, ovvero il pensiero stesso, di chi scrive, che istituisce l’associazione fra concetto astratto e contenente concreto. Se Dante non avesse pensato a una “selva oscura” per nascondervi dentro le insidie della sua umana tempra avremmo perso l’incipit di una delle grandi opere fondative del canone occidentale.
Così, dicendo qualcosa in luogo di qualcos’altro, è possibile arrivare al tema centrale di questa riflessione. Perturbamento è un romanzo di Thomas Bernhard, uscito per la prima volta in Germania nel 1967 e pubblicato in Italia da Adelphi. Il romanzo racconta la storia del giro di visite che un medico di provincia tedesco compie, spostandosi in macchina accompagnato dal figlio, attraverso un paese della Stiria. Si passa dalla moglie dell’oste, rimasta uccisa da un colpo datole da un operaio ubriaco nel mezzo di una rissa, a un maestro di scuola moribondo, fino ad arrivare all’industriale che isola se stesso e le sue sorelle da ogni possibile influenza esterna nel tentativo di completare un’opera scritta, capolavoro della sua vita. Da qui in poi il libro diventa sempre più paradossale; il giovane figlio del medico condotto assiste all’uccisione di una quantità folle di uccelli, eliminati perché dopo la morte del loro proprietario nessuno se ne prende cura e il loro stridio causa troppo disturbo.
Le tappe effettuate presso i pazienti sono tutte contraddistinte da una forte carica perturbante, in una doppia declinazione fisica e spirituale, così come è duplice anche il perturbamento che caratterizza il romanzo, in un’unità che accomuna paesaggio esteriore e interiore. L’opacità delle dimensioni paesaggistiche è resa possibile dall’atmosfera che permea il romanzo ed è, per l’appunto, perturbante, ma non (sol)tanto in un’accezione freudiana – l’un-heimlich, “l’in-familiare” che spiazza nel familiare –, quanto in un’interpretazione letterale del termine. “Tutto è sempre interpretazione letterale” è il principio – pronunciato dal personaggio più interessante del libro, il principe di Saurau – che spiega le ragioni del perturbamento generale il quale, tuttavia, è in tutto e per tutto allegorico.
Com’è possibile interpretare alla lettera la categoria dell’allegorico – che per definizione è in conflitto con il concetto di ‘letterale’? È qui che entra in gioco il paradosso.
Ma com’è possibile allora interpretare alla lettera una categoria – quella dell’allegorico – che per definizione è in conflitto con il concetto di “letterale”? È qui che entra in gioco il paradosso, parola che, frammentata nella sua apparenza letterale, diventa “contro/oltre l’opinione comune”; contro i criteri razionali e oltre l’apparente logicità delle formulazioni comunemente accettate: e qui, ancora una volta, un paradosso; la pietra d’inciampo che ci invita ad andare oltre la parola, in un angolo recondito della quale si cela qualche residua particella di meraviglia del pensiero, che a tutto risponde fuorché ai puliti canoni della razionalità occidentale. Per dirla con le parole di Paola D’Alessandro, è necessario stare “al di dentro del gioco testuale, nell’infrastruttura del voler dire che costituisce l’inespresso-invisibile”.
Tornando al romanzo, è possibile notare che l’eziologia delle malattie manifestate dagli ultimi e specialissimi pazienti, visitati dopo la svolta paradossale rappresentata dal genocidio pennuto, è via via più ascrivibile a cause ‘spirituali’ o perlomeno le cause fisiche sono solitamente taciute. I due viaggiatori, in un percorso ascendente e insieme spiralico, arrivano in cima al paese, luogo in cui svetta il castello del principe Saurau, posto accanto a una profondissima gola, pericolosamente costeggiata in macchina da medico e figlio nella loro discesa/ascesa – la salita effettiva è complementare e correlativa alla discesa simbolica – verso il castello. La gola, che verrà nominata numerose volte dal principe nel suo folle e disconnesso soliloquio, sembra quasi rappresentare il luogo d’origine del perturbamento generale (fa pensare un po’ alla caverna della serie tv tedesca Dark, da cui ha origine il perturbamento temporale alla base di tutta l’intricatissima vicenda).
Il soliloquio in cui si lancia il principe è connotato da un’alta carica metafisica, costellato di richiami ricorrenti e ossessivi, frammentario e del tutto incompatibile con criteri di analisi logica e razionale. Il percorso ascendente di padre e figlio, che culmina proprio con l’arrivo al castello, va di pari passo con la progressiva rarefazione metafisica del romanzo: le venature oniriche e di riflessione sono presenti già in nuce dall’inizio, ma via via permeano completamente l’atmosfera. Ma bisogna tornare ancora indietro per poter andare avanti, perché la letteratura è fatta di corsi e di ricorsi, è un fiume carsico che scorre e talvolta incorre nella superficie visibile dei fenomeni leggibili.
Già nelle parole del giovane figlio del medico, nelle prime pagine del romanzo, si intravede un’eco anticipatoria della estrema quanto deleteria mindfullness, come oggi forse verrebbe definita, del principe. Ci si potrebbe azzardare a dire che le riflessioni iniziali del figlio del medico preannunciano, in una chiave di lettura “figurale”, quanto avverrà dopo. Se le parole rimangono elementi in collisione esiziale nella testa di Saurau, il figlio del medico sembra affrancarsi da un destino simile al suo, spostando – un po’ come nella teoria degli atomi democritea – la direzione dei pensieri; questi si separano per formare aggregati di molecole e spezzano il corso prestabilito degli eventi con una massima che viene pensata – perché in Perturbamento la parola è fondamentalmente pensante e pensata, raramente agita – “bello è ciò che non si è previsto”.
Bisogna tornare indietro per poter andare avanti, perché la letteratura è fatta di corsi e di ricorsi, è un fiume carsico che scorre e talvolta incorre nella superficie visibile dei fenomeni leggibili.
Le tensioni figurali che si delineano tra i personaggi del romanzo seguono una linea che attraversa, in uno schema di richiami ricorrenti, la figura/personaggio del figlio del medico, simile ma differente rispetto al figlio del principe, da quest’ultimo spesso nominato, e passa per la figura dell’industriale, preannunciando quella del principe, con un progressivo accrescersi degli elementi deliranti. Il figlio del medico spezza però la linea di successione allegorica e, perpendicolare alla sua traiettoria, passa quella del padre-medico, elemento di raccordo raziocinante della vicenda. In ogni caso, tutte le linee tracciate puntano verso una direzione: il castello del principe. Mentre lui parla ci sentiamo come dentro a un acquario, sommersi dalla facondia opprimente di questo genio della riflessione. Chi legge abbandona l’ormeggio della realtà e viene tradotto in una dimensione altra per più di cento pagine, costretto a lasciar andare anche i consueti criteri temporali, perché il soliloquio di Saurau è qualcosa che elude tempo e spazio, nella sua matta e vitale produzione di senso.
La letteratura è sempre ricca di parallelismi e di richiami ipertestuali, intertestuali e così via. Ma spesso, fra due eco parallele, il cui punto di incontro è l’inarrivabile, la cosa più interessante non è la somiglianza quanto la differenza nella somiglianza. Parliamo dei rapporti differenziali, su cui si sofferma Giovanni Bottiroli quando, nel suo Che cos’è la teoria della letteratura: fondamenti e problemi, cita Hjelmslev sulla necessità di trovare “dei frammenti mobili, la cui situazione differenziale genera senso”.
Nel 2020 è uscito l’ultimo film di Kaufman, I’m Thinking of Ending Things, la cui materia – parafrasando molto alla lontana una frase di Mengaldo secondo cui la comparazione aiuta nella comprensione delle cose – si presta a un’interpretazione bernhardiana. Una giovane coppia viaggia in macchina verso la casa dei genitori di lui: tutto intorno soltanto neve e desolazione. Come Perturbamento, anche la surreale pellicola di Kaufman si apre con un viaggio in macchina e, fin dal suo inizio, si intuisce la predominanza che la parola assume nello svolgimento della vicenda. Il termine “vicenda” non riassume però, proprio a causa della sua totale abdicazione al concetto di linearità, gli avvenimenti del film; così come il termine “avvenimento” non va considerato nella sua accezione evenemenziale, ma allargato al massimo della sua portata, perché possa contenere qualcosa che, parafrasando Dante, la memoria umana non può trattenere.
Come ‘Perturbamento’, anche la surreale pellicola di Kaufman si apre con un viaggio in macchina e, fin dal suo inizio, si intuisce la predominanza che la parola assume nello svolgimento della vicenda.
Il film di Kaufman condivide con il romanzo di Bernhard anche l’opprimente perturbazione complessiva, evidente innanzitutto nella sua visibile manifestazione meteorologica: le condizioni climatiche passano dalla nevicata alla tempesta di neve; i colori di interni ed esterni sono tutti accomunati da un generale grigiore, fatte salve delle rare occasioni, e non compaiono mai atmosfere ‘calde’. Dopo una lunga conversazione in macchina durante la quale la protagonista femminile recita una sua poesia, leitmotiv in filigrana dell’intero film, i due protagonisti arrivano a casa dei genitori di lui. Prima dell’ingresso nella casa e della cena con i genitori di Jake – che si rivelerà una sorta di buco nero o di canto di Natale sui generis all’insegna della violazione dei confini spazio-temporali – la fidanzata viene portata a fare un inquietante tour della stalla, in un angolo della quale si trova un quadrato nero di terra bruciata. Qui le verrà racconta la storia di due maiali divorati dai vermi, allegoria della vanità della sostanza umana, destinata a una fine analoga a quella dei due animali. Questa scena rappresenta un’iniziale incursione in un territorio simbolico e allegorico; gli elementi surreali permeano l’atmosfera generale e l’intera narrazione in uno schema di ripresa ricorsiva, proprio come accade in Perturbamento via via che il viaggio procede.
Il primo aspetto che accomuna il film di Kaufman e il romanzo di Bernhard è proprio la difficoltà di fornirne una “trama”: sfuggono entrambi alla linearità narrativa e, di conseguenza, alle categorie razionali che siamo abituati a usare per formulare categorie e classificazioni. L’opera di Kaufman, nella quale il protagonista maschile sembra poter leggere i pensieri della sua camaleontica fidanzata proprio perché frutto della sua ideazione, e il romanzo di Bernhard spingono i nostri pensieri verso il calderone del nonsense; ci fanno attraversare lo specchio come Alice, mostrandoci la facoltà pensante in una caleidoscopica e ossessiva distorsione ricorsiva. La scena della stalla nel film e quella dei pavoni uccisi nel romanzo possono essere considerate parallelamente, – tornando ai rapporti paralleli e/ma (contro/oltre) differenziali – i momenti di svolta metafisica a partire dai quali la linearità narrativa viene abbandonata e il testo, inteso come tessuto di significati in potenza e in movimento, si inoltra nel territorio dell’allegorico e dell’ineffabile. L’uso della parola diventa non funzionale alle finalità comunicative consuete – rivelando la sua natura allegorica – e si fa tramite di concetti e di dimensioni spazio-temporali e metafisiche difficilmente riferibili. La razionalità è scalzata in nome di una a-logicità non comune nel mondo filosofico occidentale, privilegiando le coppie degli opposti correlativi (nelle quali credeva anche Derrida) in base a cui, parafrasando una frase di Bottiroli che cita una celebre poesia di Emily Dickinson, uno più uno può fare uno in ambito letterario. “La logica flessibile, che evita la paralisi” fa sì che anche laddove scorgiamo contraddizione rimanga viva la “fabbricazione del testo”; “i correlativi sono opposti interdipendenti, che si negano nella stessa misura in cui si implicano e si presuppongono. Relazione paradossale, ma non contraddittoria”.
La razionalità è scalzata in nome della a-logicità, privilegiando le coppie degli opposti correlativi in base a cui, uno più uno, in ambito letterario, può fare uno.
È l’ipertrofia della facoltà pensante che permette di paragonare i due personaggi principali, la loro capacità di originare oltre-mondi metafisici. La follia è una folla di pensieri nella testa del principe di Saurau; le elucubrazioni e proiezioni mentali sono all’origine del corto circuito spazio-temporale con cui Kaufman mette in scena l’allucinatoria esistenza di Jake e dell’inserviente suo alter-ego, con il suo disperato quanto irrealizzabile desiderio di amore. Le parole pronunciate dal personaggio di Bernhard forniscono le coordinate per un confronto con l’anti-eroe della trasposizione cinematografica di Kaufman anche se, paradossalmente, i due personaggi non potrebbero essere più differenti. Jake è l’inetto, l’uomo senza qualità, assillato dai suoi complessi di inferiorità, come sottolinea il qui pro quo fra i termini ‘genus’ e ‘genius’ scambiati dalla mamma nel raccontare di una partita a Trivial. L’ologramma del maiale, che l’inserviente segue a fine film, è un chiaro richiamo al racconto iniziale sulla fattoria. Jake rimane al punto zero delle sue elucubrazioni; non scegliendo sceglie di rimanere un maiale, nell’allegoria introdotta dal film, sulla cui sostanza effimera banchetteranno i vermi. Saurau è anch’egli un inetto, ma in questo caso la sua attività intellettuale è quella del genio; è l’Amleto, incapace di azione a causa della paralisi che il suo troppo pensare comporta. I due sembrano tuttavia – oltre e contro il tempo e lo spazio di genesi della trama testuale che abitano – perfettamente adatti e adattabili ai pensieri di Saurau al cui soliloquio, proprio per ragioni preminenza intellettuale, spetta di dettare i termini del confronto.
Tutto è sempre nelle teste delle persone. Esclusivamente nelle teste di tutti. Fuori dalle teste non esiste nulla […] ognuno discute ininterrottamente con se stesso e dice: il me non esiste. Ogni concetto implica in sé un numero infinito di altri concetti. Fin dai tempi della mia infanzia ho sempre sentito il bisogno di addentrarmi nelle mie fantasie, e ci sono sempre entrato nelle mie fantasie, sono andato molto lontano in esse, più lontano, sempre, di coloro che ho portato con me nelle mie fantasie.
La propensione alle fantasie spinge il principe a un blocco totale, alla paranoia e al pensiero costante della morte: “tutto è malato e triste […] effettivamente malato e triste”. Il principe è la causa allegorica del malessere fisico e spirituale di tutto il paese, nella sua declinazione degenerativa in duplice accezione di morte per malattia o volontaria. La gola, nominata ossessivamente dal principe e pericolosamente costeggiata in macchina dal medico accompagnato da suo figlio, sembra il luogo dove ha origine “l’aria metafisica”. Il senso delle cose è in fuga verso qualcosa che lo attira a sé, come una forza centrifuga che lo spinge dal paese verso il castello e sprofonda poi nella gola, in un ciclo che si rinnova in un loop infinito ed è la causa del patologico overthinking del principe.
Il baratro è in cima e coinvolge tutto; ogni cosa avvizzisce e il senso è prosciugato: “non mi sono mai divertito”, dice il principe ai due spettatori del suo lunghissimo soliloquio. La myse en abyme generazionale che assume i connotati della rinuncia alla vita passa attraverso i discorsi sul figlio – che come il figlio del medico è uno studente “fuorisede” – in volontario esilio a Londra e che Saurau predice farà marcire l’intera tenuta di famiglia, e sul padre, morto per suicidio nella sua stanza – destino che attende forse anche il principe. Il cerchio è chiuso e il movimento non si apre mai verso una spiralica redenzione. L’intera dinastia di Saurau abdica alla vita, al compito di far prosperare i frutti della terra, sempre leggendo alla lettera tutto il paradossale discorso del principe
La rarefazione del discorso logico sposta la narrazione su concetti che hanno la qualità linguistica del Paradiso dantesco ma senza redenzione né beatitudine; come si sale verso il castello del principe l’aria si fa densa di pensieri, “si respira un’aria metafisica quassù”. Lo stesso percorso si può notare con l’avanzare della pellicola di Kaufman, dove la tormenta di neve si intensifica in maniera direttamente proporzionale all’accrescersi della confusione delirante di Jake.
Le supposizioni sono vere. Sento la paura crescere. Ora è il tempo per le risposte. Una domanda a cui rispondere, una domanda.
Tutto il mondo è anche nella testa dell’inserviente Jake; l’atrofia del senso delle cose è il risultato del suo perdersi nelle sue ideazioni che, come il titolo del film suggerisce, sono anche in questo caso, forse, suicidarie. La cantina proibita in casa dei genitori è la cantina buia dell’inconscio, che nasconde un’inquietante coazione a ripetere (la scena in cui la ragazza tira fuori dalla lavatrice una serie di magliette da inserviente tutte identiche). A questo punto si può scorgere un parallelo fra l’immagine della cantina e l’immagine della gola, luoghi fatati o meglio, maledetti, in cui si annida l’asfittico afflato della perturbazione.
Volendo tentare un salto mortale tra i due “testi” – osservando i frammenti di senso nel loro dialogo “funzionale e relazionale” – la ragazza di Jake è paragonabile al figlio del medico perché, agendo anche lei in conformità con una massima, stavolta urlata in modo inquietante dalla metamorfica nuora, “live dangerously”, osa discendere nell’inconscio del suo ragazzo e questo, in modo del tutto paradossale e contro ogni logica temporale, è quello che la salva dalla relazione sentimentale in maniera ante-litteram, prima che essa stessa possa accadere.
Nel film di Kaufman, durante il viaggio di ritorno dalla casa dei genitori, vengono pronunciate due frasi significative che sembrano riecheggiare, anche se in maniera differenziale, le parole scritte da Bernhard. La prima, “a volte il pensiero è più vicino alla verità, alla realtà, di un’azione. Puoi dire qualsiasi cosa, fare qualsiasi cosa, ma non puoi fingere il pensiero”, rimanda ancora una volta al potere demiurgico del pensiero e della parola, con la sua facoltà di creare mondi altri. La seconda, “il mondo è più grande dell’interno della tua testa”, è pronunciata come un memento e proprio per questo motivo si contraddistingue per la sua ironia tragica. Jake vive a tutti gli effetti nella sua testa; il momento voyeur in cui l’inserviente sbircia il bacio con la ragazza è la prova del cortocircuito mentale cui è relegato. La seconda parte della poesia citata a inizio film, “che tu abbia una moglie o una solitudine travestita da moglie”, rispecchia perfettamente la sua vita.
Si può scorgere un parallelo fra l’immagine della cantina e l’immagine della gola, luoghi fatati o meglio, maledetti, in cui si annida l’asfittico afflato della perturbazione.
Saurau e Jake sono intrappolati nel loro delirante soliloquio, cadenzato da richiami ricorrenti, e in entrambi i casi la loro tracotante facoltà pensante è all’origine del perturbamento. Li accomuna una dolorosa solitudine e incomprensione insieme alla mancanza di punteggiatura dei loro pensieri e all’assenza di confini fra il mondo degli enti reali e il mondo nelle loro teste. Una volta attraversata la strettoia del pensiero non sembra esserci ritorno, “la gola diventa ancora più stretta”. I due “riescono a trovarsi in un momento in cui la vita è sopportabile” sia nel film che nel romanzo soltanto in occasione di uno spettacolo. Nella tenuta di Saurau si tratta di uno spettacolo teatrale che viene allestito ogni estate nelle mura esterne del castello. “Non so se fu per la stanchezza dopo lo spettacolo o per la follia prima del crepuscolo o per la follia e la stanchezza dopo lo spettacolo e prima del crepuscolo, comunque in quella notte gli elementi dissolutori e distruttori provenienti dalla nostra famiglia sembravano tenuti a freno […] un gruppo di persone […] vedeva trasformarsi una giornata filosofica e insopportabile in una giornata non-filosofica e sopportabile”.
Nel caso di Jake lo spettacolo è una rivisitazione del musical Oklahoma, visibilmente fittizia per via del posticcio trucco invecchiante indossato da lui e dagli spettatori in platea, che simboleggia un momento di tregua dal pungolo dell’angoscia, di rivalsa e riscatto personale; esso rappresenta l’idea di un mondo in cui i suoi meriti intellettuali siano riconosciuti pubblicamente e diventi degno di amore. “Ecco cos’è per me il mio pensiero: delle velocità che non riesco a vedere”, dice il principe di Saurau nel suo personale spettacolo interiore cui assistono padre e figlio. Travolti dalla velocità dei loro stessi pensieri, Jake e il principe sono due personaggi relegati “allo spettacolo interiore”; la loro “componente mistica li porta direttamente alle allegorie dell’intelletto: una cosa disperante”. Il senso rimane costretto nelle teste di questi surreali personaggi, generati da un bug metafisico che replicano all’infinito e, fondamentalmente, non sanno vivere, pericolosamente e pericolosamente, all’insegna della massima: “bello è ciò che non si è previsto”.
Travolti dalla velocità dei loro stessi pensieri, Jake e il principe sono due personaggi relegati ‘allo spettacolo interiore’; la loro ‘componente mistica li porta direttamente alle allegorie dell’intelletto: una cosa disperante’.
Se la paralisi del senso è la sostanza dei soliloqui del principe e di Jake, sia Perturbamento che la trasposizione di Kaufman rimangono, a tutti gli effetti e paradossalmente, due opere sul senso delle cose, in cui i procedimenti di significazione sono vivi in virtù dello slittamento del senso delle parole/pensieri. Le parole si muovono nel testo, fatto di maglie larghe e strette, simile a una tela in cui gli stessi punti vengono intessuti più volte, per andare oltre. Come dice Ferraris a proposito di Derrida, è necessario attraversare “l’abisso” – la gola di Perturbamento – per “preservare il testo dalla sua morte”. Questa magia del senso, che è anche magia della parola allegorica, spiazza la linearità logico-narrativa, opera soprattutto nelle parole del principe di Saurau e risiede nei meccanismi descritti da Derrida nella Farmacia di Platone, per mezzo dei quali vengono mantenuti tutti i significati e “gli slittamenti dei significati sui significanti” operanti in un testo – textum –, tenendo in vita le “possibilità” e sbaragliando “un’ermeneutica esiziale” che sopprimerebbe le “alterità”, “contro una critica che creda di dominare il senso”.