A lfonsas Mickus, nato nel 1927 nel villaggio di Siaudvyciai, è scomparso nel 2008. Era un lavoratore della terra e, si dice, l’uomo più piccolo della Lituania. Novanta centimetri di altezza. Se fu davvero l’uomo più piccolo della Lituania, allora fu anche uno degli uomini più piccoli dell’Unione Sovietica. Per curiosità ho fatto una prova. Ho tirato fuori dal cassetto il metro avvolgibile e ho srotolato il nastro accanto al tavolo di cucina. Alfonsas doveva essere poco più alto delle zampe del tavolo.
Sono venuto a conoscenza della persona di Alfonsas Mickus per merito di una mostra fotografica allestita all’interno di Studio MiLo, rifornita e appartata libreria dell’usato a Milano, specializzata in arte, architettura e fotografia, dove non di rado mi sono imbattuto in qualche sorpresa (a MiLo è conservato anche un quadro firmato da Joseph ‘Crazy Joe’ Gallo, gangster italoamericano a cui Bob Dylan nel 1976 dedicò Joey, un brano di undici minuti). Le foto di Alfonsas erano state scattate molti anni prima da Romualdas Požerskis, fotografo lituano, e ora erano esposte a MiLo anche grazie al lavoro di un artista, Fabrizio Fortini, fondatore di uno spazio espositivo a Milano e amico di artisti e istituzioni culturali lituane. Quel giorno ero passato per caso di fronte alla vetrina della libreria. Avevo attraversato un discreto pezzo di Milano, saltando da un marciapiede all’altro, tra piazzale Piazzale Loreto e Chinatown. Forse ero salito e sceso da un tram. Non ricordo. Il ritratto di Alfonsas, esposto tra volumi di fotografia lituana risalenti agli anni Settanta e Ottanta, ha avuto su di me l’effetto di un colpo di fulmine. Mi hanno affascinato l’arcaica dignità di Alfonsas, lo stile, il medesimo sbrindellato contegno che caratterizza le apparenze di certi contadini e allevatori, che con i loro animali vivono per conto proprio, isolati dal mondo: una giacca scura a tre bottoni sporca di fango rappreso, un basco di lana fatto a mano, un orologino da polso che sembrava uscito da un angolo di bottega di un antiquario rigattiere, i maglioni indossati a cipolla l’uno sopra l’altro, i pantaloni tenuti fermi in vita da una cintola con una discreta fibbia di metallo, e infine il bastone, che serve a badare alle bestie, ma è come il segnacolo di una lotta intrapresa contro il caos e la natura fin dall’origine del mondo. C’erano in Alfonsas alcuni tratti esteriori comuni a un’umanità stremata che attraversa i secoli, osservabile ne I mangiatori di patate di Vincent Van Gogh, come nei primi piani pubblicati sui giornali dei profughi arrivati dal Sudan o dalla Siria. Inoltre, in alcuni scatti Alfonsas mi ricordava Pablo Picasso, un Pablo Picasso parallelo, rimpicciolito e dislocato nella fredda campagna lituana, eppure dal volto scottante e volitivo come l’originale.
Ad Alfonsas, Požerskis ha dedicato un libro di ritratti in bianco e nero, Mažasis Alfonsas, uscito nel 2012. È il frutto di una lunga amicizia e frequentazione. Požerskis aveva incontrato Alfonsas per la prima volta nel 1992. Me lo ha raccontato lo stesso Požerskis per email: “Mi trovavo per caso in uno sperduto villaggio lituano, quando all’improvviso ho notato questo piccolo essere umano. Alfonsas stava cercando un passaggio per raggiungere la stazione degli autobus e prendere la prima corsa per tornare a casa. L’ho fatto salire in macchina e così ci siamo conosciuti”. All’epoca Požerskis era già un fotografo affermato e un ex membro della“Lietuvos fotomenininkų sąjunga”, l’Unione dei Fotografi Artisti Lituani, una delle associazioni più avanzate tra quelle nate in URSS per valorizzare la fotografia amatoriale. Più tardi Požerskis diventerà docente di Storia ed Estetica della fotografia lituana all’Università di Kaunas.
Come spesso accade nella mente degli artisti, la memoria dell’incontro con Alfonsas Mickus è un seme che germoglia con lentezza. Romualdas qualche anno dopo torna a Siaudvyciai per cercare Alfonsas. I due si ritrovano e diventano amici. Il fotografo mano a mano scopre il mondo e la vita quotidiana di Alfonsas, i suoi animali e i suoi amici. Nel 1997 comincia a fotografarlo. Uno dei primi scatti ritrae Alfonsas accanto a un cavallo. Fra i racconti di Alfonsas relativi all’infanzia negli anni Trenta, c’è l’immagine del fratello che lo solleva da terra e poi lo sistema sul dorso di un cavallo. Così mi scrive Romualdas. Il corpo di Alfonsas in questa memoria evoca il peso e la consistenza di un balocco, qualcosa con cui si può giocare, a disposizione degli altri. Alfonsas narra al fotografo la sua storia. Che cos’era accaduto al suo corpo negli anni Trenta? Come mai aveva smesso di crescere? Požerskis scrive che stando a una leggenda famigliare il normale sviluppo si era interrotto a causa di un trauma. “Un giorno un gallo era entrato di soppiatto nella stanzina dove Alfonsas dormiva da bambino, quindi si era posato con le zampe sul petto di Alfonsas e poi, quando Alfonsas aveva aperto gli occhi, il gallo aveva di colpo aperto le ali ed era volato via, facendogli prendere uno spavento, così forte che il suo corpo aveva smesso di crescere”. Alfonsas ha raccontato a Romualdas che un circo di passaggio a Siaudvyciai aveva proposto ai suoi genitori di vendergli il figlio, ma il padre e la madre si erano rifiutati. In seguito Alfonsas, come una specie di servitore domestico, aveva lavorato per la sua famiglia. Si era occupato delle faccende più umili e di tutti quei lavori che nessuno voleva fare. Questa analogia con la storia di Cenerentola non è l’unico punto di contatto tra la vicenda di Alfonsas e il mondo delle fiabe. O meglio, è lo stesso nanismo a risvegliare in chi guarda l’eco di narrazioni antichissime e di mondi fantastici. Da adulto Alfonsas era diventato un individuo autonomo, impiegandosi all’interno di un kolchoz, le aziende agricole a gestione collettiva. Con la fine dell’URSS e l’indipendenza della Lituania, negli anni Novanta era finalmente entrato in possesso di un piccolo pezzo di terra.
Nella prima parte del libro il protagonista è fotografato accanto agli animali che accudisce e gli fanno compagnia: un gregge di pecore, le oche, un cagnolino, una mucca, i maiali, una capra legata a una paurosa catena e poi un cavallo che si lascia guidare sopra la piatta campagna lituana (da un uomo inadeguato a montarlo, per via della statura troppo piccola). Nella foto con il cavallo è messa in risalto la grande sproporzione tra le due figure, la soverchiante e armoniosa massa fisica del cavallo rispetto alla sagoma minuscola e bitorzoluta di Alfonsas, ma non si può non notare anche la docilità e la mansuetudine con la quale l’animale si affida all’uomo.
In alcuni scatti Alfonsas mi ricordava Pablo Picasso, un Pablo Picasso parallelo, rimpicciolito e dislocato nella fredda campagna lituana, eppure dal volto scottante e volitivo come l’originale.
Nel 1992, all’epoca del primo incontro con il fotografo, Alfonsas non aveva più un tetto. “Un giorno”, scrive nell’email Romualdas, “si era recato a un appuntamento organizzato da alcuni ex lavoratori collettivi della terra. In quel mentre i figli di suo fratello, giocando con i fiammiferi e delle sostanze infiammabili, avevano dato fuoco alla sua abitazione. Quando Alfonsas era tornato, aveva trovato la casa distrutta”. Le fotografie di Požerskis hanno in parte risarcito l’esistenza di Alfonsas, regalandogli una certa notorietà. Il suo è un caso di popolarità acquisita non per mezzo di un film o della televisione, ma grazie alla storia raccontata da un fotografo. Alfonsas è stato ospite di un programma tv, ha ricevuto le visite di una serie di uomini politici e poi di parecchi curiosi, arrivati perfino dalla Svezia; ma soprattutto un giorno si è fatto vivo un benefattore che ha pensato di regalargli una casetta di legno completa di mobilio. Požerskis aggiunge che Alfonsas era l’unico nel vicinato a ricevere e leggere i giornali. Perciò spesso i vicini andavano a trovarlo per informarsi su quello che succedeva nel mondo. Inoltre, avendo ricevuto una casa in regalo, Alfonsas aveva a sua volta ospitato persone in difficoltà e bisognose di un tetto. La circostanza è documentata da foto straordinarie, collocate nella seconda metà del libro, dove Alfonsas divide la tavola, apparecchiata con fogli di giornale, insieme a uomini e donne dall’aspetto tanto socievole quanto sofferto e masticato, tagliuzzato dalla realtà di quegli anni, sovietica e post-sovietica.
Da bambino Alfonsas era stato nascosto in un cassetto per sfuggire ai rastrellamenti dei soldati nazisti durante la seconda guerra mondiale. Esiste poi un Alfonsas “politico”, minacciato di finire in Siberia per aver canticchiato una canzoncina su Stalin, e infine un Alfonsas che risponde a una nuova chiamata ed è presente nel 1992 a Vilnius, insieme a migliaia di altri lituani, schierato a difesa del parlamento durante il tentativo di colpo di stato da parte delle forze armate russe.
“Alfonsas ha avuto una vita lunga e piena e ha amato molte donne”, mi dice Požerskis. Volevo appunto domandare quale fosse stato il rapporto tra Alfonsas e l’altro sesso, tra Alfonsas e il piacere, tra Alfonsas e l’amore, la consolazione, specie dopo la sorpresa provata sfogliando le magnifiche pagine in cui Alfonsas figura accanto a Raminta, una splendida modella lituana che oggi vive a Berlino. L’incontro con Raminta è il cuore del libro, è la radura in cui il racconto si apre verso un mondo possibile, la realtà si tinge di immaginazione e il rapporto tra Alfonsas e Požerskis si fa più vero e solidale.
Il legame tra i due culmina in occasione di una gita fuori porta nel giorno del settantesimo compleanno di Alfonsas. Požerskis fotografa Alfonsas lungo un fumoso spiaggione bianco di fronte al mar Baltico. È il regalo del fotografo per l’amico. Nonostante Siaudvyciai si trovi a circa trenta miglia dalla costa, infatti, Alfonsas non aveva mai visto il mare. Ma soprattutto sulla spiaggia è sopraggiunta Raminta, giovane dal corpo statuario, olimpico, creatura mitologica che somma la propria apparizione all’epifania del mare. Požerskis prima la fotografa, libera e senza veli, mentre corre sulla spiaggia, di fronte ad Alfonsas, poi mentre lei prende lui per la mano o gli siede accanto per suonare un piccolo flauto. Sembra d’intuire un movimento e un retroscena. Požerskis deve essersi calato nelle fantasie e nei desideri più umani e ultimi di Alfonsas, scoprendo che erano i suoi stessi desideri e le sue stesse fantasie, e così, come un pittore che dipinge la volta di una cappella, ha pensato di apparecchiare per entrambi un sublime ed eterno sogno maschile: una donna florida e bellissima che corre senza veli lungo una spiaggia deserta. Una visione, verrebbe da aggiungere, che nel regalo di Požerskis per l’amico si manifesta non solo al tramonto della vita di quest’ultimo, ma al termine di una storia dura e implacabile, come quella dei popoli vissuti dentro la storia russa e sovietica.
Il libro si chiude con una sequenza di tre foto scattate in ospedale. Nell’ultima osserviamo un gesto di Alfonsas. È così ingenuo e istintivo che sembra riaffiorare direttamente dal vocabolario dell’infanzia: una manina che fa ciao, sul letto di morte. Alfonsas sorride, puro come un ottenne, e noi, rivedendolo di nuovo sdraiato su un lettino, ripensiamo a quel giorno in cui un gallo entrò dalla finestra e gli posò le zampe sul petto.