C i sono tre parole importanti per me: ispirazione, creazione, condivisione”, dice Agnès Varda nei primi minuti di Varda par Agnès (2019), presentato lo scorso febbraio alla Berlinale 69. La regista, scomparsa il 29 marzo all’età di novant’anni, conclude la sua lunghissima carriera, cominciata alla fine degli anni Cinquanta, con un autoritratto privo di narcisismo che rivela ancora una volta la sua straordinaria capacità di mettersi in scena, di avvicinarsi e toccare personaggi, storie, paesaggi e – in questo caso così come ne Les plages d’Agnès (2008) – il suo lavoro, senza adombrarli o sovrastarli con la sua presenza.
Varda, figlia di madre belga e padre greco, nasce nel 1928 a Bruxelles, dove trascorre l’infanzia fino al 1940, anno in cui la sua famiglia, in fuga dalla guerra, si trasferirà a Sète nel Sud della Francia. Si sposta in seguito a Parigi, sua città d’adozione, per seguire i corsi dell’École du Louvre e quelli di fotografia dell’École Nationale Supérieure Louis-Lumière. Comincia presto a lavorare come fotografa alle Gallerie Lafayettes dove scatta quattrocento fotografie al giorno ai bambini che a turno si siedono sulle gambe di Babbo Natale fino a quando, nel 1951, viene chiamata da Jean Vilar a far parte della troupe del Théâtre National Populaire al Palais de Chaillot. Qui ritrae attrici e attori che si esibiscono nel famoso teatro parigino e, nel 1954, organizza la sua prima mostra personale nel cortile di casa.
È in questi anni che si avvicina al cinema da completa autodidatta fondando la cooperativa Ciné-Tamaris per produrre i suoi primi lavori. Eccentrica, colorata, curiosa e delicata, Varda è riuscita senza intellettualismi a fare del suo cinema un luogo di incontro, a trascrivere nelle immagini la sua passione per la scoperta dell’altro. Già in occasione del suo esordio con La Pointe Courte (1954), conia il termine ‘cinécriture’, cinescrittura, per ampliare il concetto di scrittura filmica come chiarirà raccontando la preparazione di Sans toit ni loi (1985), la storia del vagabondaggio di una giovane donna (Sandrine Bonnaire) che rifiuta comfort e regole sociali; film con cui Varda vinse il Leone d’oro a Cannes. In una testimonianza riportata da Renzo Gilodi in Nouvelle Vague: il cinema la vita dichiara:
Ho girato il film improvvisando giorno dopo giorno, con due sole paginette di sceneggiatura. Mi sono limitata a registrare movimenti interiori, non ho cercato di spiegare le ragioni delle scelte. […] Riflettere sul soggetto è più importante della scrittura. Cento pagine scritte non sono l’anima di un film. La sceneggiatura si elabora durante gli incontri, scoprendo paesaggi. Questo permette una completa disponibilità, l’improvvisazione istantanea di alcune sequenze. […] Un film di rigore e riflessione, con un’attenzione alla struttura e a una precisione formale che diventa bellezza. Mi sento vicina alla sofisticazione di una scrittura che chiamo “cinescrittura”, mescolanza, cioè, di progettazione, di improvvisazione e di montaggio. Ricerca, riflessione, stile sono l’essenza stessa del cinema d’autore. Sono sempre meno estetizzante. Ricerco più una bellezza semplice.
Lo stile di Varda viene spesso e a ragione definito anarchico, unico, impossibile da ricondurre a un genere preciso. Fin dai suoi primi lavori, infatti, la regista ha sfidato con estrema naturalezza il confine tra fiction e documentario, alternando e integrando i due linguaggi e sperimentando fino in fondo le nuove tecnologie – nei primi anni 2000 accolse con vivacità ed entusiasmo l’introduzione del digitale – nonché la possibilità di presentare le sue opere in nuovi contesti espositivi, come testimoniano, tra le altre, le installazioni Une cabana de cinema: La serre du Bonheur (2018), Patatutopia (presentato nel 2003 alla Biennale di Venezia) e La cabana du chat (2016).
La commistione di generi, di tecniche e di formati, di per sé non è però sufficiente a spiegare l’unicità di Varda, banalmente perché non è la sola tra i registi della sua generazione a mettersi alla prova fuori dalla sala cinematografica, basti pensare per esempio alle video installazioni di Harun Farocki e di Jean-Luc Godard. Ciò che rende davvero speciale la regista belga va rintracciato piuttosto nella natura e nella genesi della sua pratica artistica. La Pointe Courte, la storia di marito e moglie in vacanza nel sud della Francia che riflette su come negli anni è mutato il loro rapporto di coppia, ha aperto la stagione della Nouvelle Vague: l’influsso del neorealismo italiano, la presenza di attori non professionisti – i pescatori del villaggio –, la sovrapposizione tra realtà e finzione sono alcuni elementi fondamentali per il nascente cinema d’autore.
Lo stile di Varda viene spesso e a ragione definito anarchico, unico, impossibile da ricondurre a un genere preciso.
Varda però non riceve il riconoscimento degli uomini del movimento cinematografico francese né quello della maggior parte dei critici e degli storici del cinema che si sono limitati a darle l’appellativo di ‘nonna della Nouvelle Vague’, tenendola così fuori dal gruppo e dimenticando per altro che la regista era coetanea di Claude Chabrol, Jaques Demy (suo compagno di vita), Godard, Jacques Rivette, Eric Rohmer, François Truffaut e Alain Resnais (che fu il montatore del suo primo lungometraggio). Nessuna reazione astiosa da parte di Varda, se non un’immagine piuttosto eloquente in Les Plages d’Agnes (autoritratto che la regista si concede alle soglie degli ottanta anni) in risposta al cartone animato del gatto di Chris Marker che, dopo aver elencato i maggiori registi della Nouvelle Vague, le chiede in voce fuori campo ‘e la Varda?’. Ecco apparire dentro un’unica inquadratura i volti degli autori francesi che incorniciano una foto di Varda, al centro, con gli occhi chiusi e il dito indice sul naso a indicare di fare silenzio.
La protesta, tutt’altro che muta, di Varda contro ogni canone, il suo essere femminista ed ecologista sono sempre stati tratti profondamente radicali perché la sua ricerca ha scompigliato dicotomie, semplificazioni e moralismi che ancora (e per certi versi soprattutto) oggi caratterizzano la nostra società così come molti dei tentativi di analizzarla e criticarla senza provare a uscire dal gioco del consenso e dalle mode. Incinta della sua prima figlia, la regista parla dell’Opéra-Mouffe (1958) come di un film in grado di mostrare la ricchezza e l’inconciliabilità delle contraddizioni vitali: si può essere incinta, immensamente felici e, allo stesso tempo, consapevoli di come non ci sia scampo alla sofferenza e all’invecchiamento. Una considerazione piuttosto semplice ma affatto scontata quando si traduce nella capacità di osservare la realtà senza la smania di descrivere e nominare un fenomeno.
In questo senso, l’unicità di Varda risiede indubbiamente nella vitalità, nella giocosità, nella serietà e nella complessità con cui ha esplorato sentimenti e vissuti, sabotando le gerarchie tra ragione e pulsioni e mostrando sapientemente che pensiero critico, sensi ed emozioni non sono esperienze antitetiche. Incontrare gli altri e le loro storie rende visibile la moltitudine di anacronismi che vengono dissipati dalle narrazioni omogenee. È il caso per esempio del recente Visages, villages (2017) in cui Varda e lo street artist JR viaggiano con il camper-macchina fotografica di quest’ultimo attraverso la provincia francese, un mondo assolutamente differente dalla metropoli parigina. Nella loro esplorazione della Francia anonima, la coppia visita città abbandonate, fotografa gente incontrata per strada, intervista operai e contadini, si scontra con le contraddizioni quotidiane del progresso tecnologico, come il contadino che si è ritrovato a gestire la sua azienda da solo e controlla coltivazione e produzione tramite il suo computer.
Raccogliere, collezionare, riciclare, ricomporre e riposizionare materiali di scarto – siano essi oggetti, ruoli sociali, biografie o punti di vista – è il processo con cui Varda racconta senza romanticizzare ciò che viene relegato ai margini perché ritenuto insignificante o incompatibile con il sistema: Monà, l’anarchica protagonista di Senza tetto né legge, gli spigolatori contemporanei ne Les Glaneurs et la glaneuse, le donne vedovi in Quelques Veuves de Noirmoutier (2005), Emilie, la ragazza madre di Documenteur (1981).
La cosa più affascinante, con le immagini, è che la gente non dice mai quello che ti aspetti, ognuno ha la propria visione. Poi il contributo dell’osservatore scorre via, come un’onda, e resta solo la foto, con il suo mistero. È proprio questo rapporto con l’immagine che amo nella fotografia; un rapporto che il cinema riesce a registrare. Una trappola per pensieri e sentimenti.