È oggetto di discordia se il qipao — o cheongsam in cantonese — conti come abito tradizionale cinese, è indubbio, invece, che sia il vestito della prosa di Zhang Ailing. Nel 1943, poco più che ventenne, Zhang scrive un piccolo saggio informale sulla recente evoluzione di costume per le donne cinesi, descrivendo come dagli strati sovrapposti che cancellano la persona, gonfiandola in un ideale femminile ancorato al suolo, si arrivi alla linea asciutta del qipao. Gengyi ji, “Cronache sul cambiarsi d’abito”, è accompagnato da una serie di modellini disegnati da Zhang, ed è un esempio della qualità della sua attenzione, capace di rintracciare nei gesti della vita quotidiana le reazioni ai tumulti politici. Firma in ascesa dei periodici shanghaiesi nel decennio tra gli anni ’30 e ’40, figlia di una famiglia dell’aristocrazia decaduta: in un periodo di transizione che vede la Cina giovane repubblica affrontare l’invasione giapponese e una guerra civile intermittente, Zhang Ailing impara le lingue europee e schizza nei suoi albi scene di vita nella grande città.
Zhang è divertita dall’impennata improvvisa di un capo trasmesso pressoché uguale per secoli — gonna e casacca per le donne, tunica per gli uomini — indenne all’alternarsi di dinastie autoctone e straniere, ma che, fondata la Repubblica nel 1912, diventa un sobrio e pratico vestito. Il qipao è un abito dapprima adottato per la carica androgina delle sue linee dritte (spesso è abbinato a capelli tagliati corti), sempre capace di restare di moda attraverso continue iterazioni fino alla sua messa al bando — sostituito dall’uniforme maoista durante la Rivoluzione Culturale — e oggi costantemente stilizzato come la divisa sessualizzata delle donne asiatiche. Il colletto alto, alla mandarina, gli alamari pankou — i nodi di passamaneria e olivette che abbottonano la chiusura obliqua tra collo e scalfo — sono i dettagli iconici, e castigati, del qipao, mentre la manica a giro, d’ispirazione occidentale, si fa via via più stretta e corta nel corso degli anni, così come il taglio diventa sempre più aderente alle forme del corpo.
“Il risultato è una sottrazione: l’eliminazione di ogni ornamento, necessario o meno. Quello che rimase era una guaina, aderente e smanicata, che lasciava scoperti il collo, le braccia, le parti della gamba sotto il ginocchio. L’importante ora è la persona: il qipao divenne nulla più che una lamina per far risaltare fedelmente i contorni della figura”, nota Zhang. La storiografia sartoriale improvvisata da Zhang, però, non è limitata agli articoli di giornale. Avendo scelto gli anni di guerra e occupazione straniera come ambientazione dei suoi racconti (e più tardi romanzi), vestiti e mode sono spie della penuria tessile, dell’inevitabile inflazione e dello sfoggio degli abiti come indice di potere oltre che regolari significanti culturali. Stravaganze e tattiche di sopravvivenza impresse nell’abbigliamento sono cruciali per l’economia della sua prosa creativa.
Il minimalismo dei suoi racconti è una leva che, forte delle descrizioni materiali, moltiplica la presa narrativa — sui personaggi, la loro geografia emotiva e riferimenti politici autentici — mantenendo le dimensioni compresse nel tempo e sulla pagina, e simultaneamente salvaguardando le cronache intessute negli oggetti. “1921: le donne iniziano ad indossare l’abito intero” annota Zhang come didascalia a un suo schizzo, un modellino di qipao ancora largo, lungo, con le maniche scampanate. 1921: il Partito Comunista Cinese è fondato, Zhang Ailing nasce a Shanghai l’anno prima. “Tardi anni ’20: all’improvviso ogni donna del paese decide di indossare il qipao” nota Zhang, e in seguito non manca di infagottare, agghindare o strizzare dentro un qipao ogni donna nelle sue storie.
Mentre Zhang, adolescente, studia al collegio cattolico per sole ragazze, i giapponesi premono dalla Manciuria, passano la Grande Muraglia e spingono verso sud, verso Shanghai e i suoi porti sul Fiume Azzurro e sul Pacifico. La capitale della Repubblica migra — Pechino, poi Nanjing, infine Chongqing — e la madre scapestrata di Zhang parte per l’Europa; Zhang resta a vivere e litigare col padre oppiomane e la moglie-concubina. Non c’è alleanza, al massimo una tregua di fronte al comune nemico giapponese, tra truppe regolari del Guomindang e guerriglieri del Partito Comunista sempre meglio radicato nelle zone rurali. Zhang si ammala di dissenteria e passa sei mesi rinchiusa in camera, senza cure. Diploma in inglese in tasca, nel 1939 parte per Hong Kong, dove si iscrive all’università per studiare letteratura. Zhang è iscritta all’ultimo anno di corso quando Hong Kong (colonia britannica) è attaccata dai giapponesi: “quando scoppiò la guerra a Hong Kong gli studenti erano fuori di sé dalla gioia perché l’8 dicembre era il primo giorno della sessione d’esami” annota Zhang nel saggio autobiografico Jin yu lu, “Dalle ceneri”. La resistenza di Hong Kong dura diciotto giorni, l’occupazione giapponese dal 1941 fino alla fine del secondo conflitto mondiale. Jin yu lu non è tanto la testimonianza della partecipazione di Zhang alla battaglia per le strade della città-colonia, quanto la sua rassegna divertita delle reazioni tragicomiche delle compagne studentesse.
A Hong Kong, quando ricevemmo le prime notizie della guerra imminente, una delle ragazze del dormitorio si fece prendere dal panico, ‘Che faccio? Non ho niente da mettere!’ Era un’abbiente cinese espatriata per la quale ogni occasione sociale richiedeva un abbigliamento consono. […] Alla fine riuscì a farsi prestare un abbondante vestito trapuntato di cotone nero, che deve aver pensato non potesse apparire affatto allettante visto dall’alto degli aerei da combattimento che ci ronzavano sulla testa”. Gli edifici civili crollano sotto le bombe, i feriti sono curati alla meglio, Sureika, infermiera volontaria della Croce Rossa, “si accovacciava su un fianco per raccogliere legna da ardere e accendere falò, il tutto avvolta da un abito di broccato rosso rame, ricamato in verde con il carattere per ‘longevità’.
Una tenuta che, Zhang ritiene, le avesse concesso “un livello di sicurezza in sé senza precedenti, senza il quale non sarebbe stata in grado di mescolarsi così bene insieme ai suoi colleghi maschi”.
Zhang resiste ancora qualche mese, ma le lezioni non riprendono, le famiglie improvvisate di fuorisede combattono la noia sposandosi o leggendo i classici in solitaria. Zhang torna a casa, a Shanghai, occupata dai giapponesi già dal 1937, dove le enclave europee rifugiate entro i confini delle concessioni internazionali vedono i propri privilegi smantellati, la crescente popolazione di rifugiati ebrei si trova costretta ad accamparsi nei due chilometri quadri del suo ghetto. Il ritorno in Cina coincide con il picco creativo e l’arrivo della celebrità intellettuale per Zhang. I suoi racconti e articoli di costume appaiono — sia in cinese che in inglese — su pubblicazioni che sopravvivono collaborando con il regime fantoccio sotto controllo nipponico. Per esempio, una delle riviste con cui collabora regolarmente scrivendo rubriche di pettegolezzi, recensioni di film e teatro, The XXth Century, è un mensile in inglese stampato e distribuito a Shanghai, ma finanziato direttamente dall’ufficio berlinese per la propaganda nazista. I migliori saggi scritti in cinese per giornali e riviste vengono raccolti in un volume, Liuyan (“Parole galleggianti”, ma anche “Pettegolezzi”) nel 1945: scritti su pittura e “poesia e nonsense”, una piccola guida all’opera pechinese ad uso degli stranieri, eleganti frammenti sulle carote, riflessioni sugli ombrelli come metafora — “i poveri che cercano riparo sotto il bordo dell’ombrello dei ricchi si infradiciano di più che sotto la pioggia”.
La prima raccolta di racconti esce invece nel 1944, Chuanqi (“Novelle romantiche”): “storie d’amore hongkonghesi scritte per lettori shanghaiesi, ma anche “storie del grottesco” che rispondono alla tradizione chuanqi di epoca medievale Tang. Dai chuanqi di Zhang spariscono fantasmi e demoni, l’azione si svolge riparata in interni ammorbiditi dalla quantità di giorni vissuti entro quattro pareti, funzionali e identificativi, mai pittoreschi o poetici. Descrivere stoffe e bottoni, per Zhang, significa caratterizzare necessità e contingenze quotidiane, non per bellezza, ma per utilità. Il rifiuto di Zhang dei facili tropi sdolcinati — non ricorre mai a matrimoni idilliaci e risolutori — è secco e in parte ispirato dagli ideali del Movimento del Quattro Maggio 1919, che promuoveva una nuova letteratura in baihua, la lingua quotidiana al posto del cinese classico, lo stesso vernacolo con cui cantare slogan a favore di parità tra i generi e politiche democratiche.
La devozione per la spinta verso la modernità e l’occidentalizzazione del Movimento del Quattro Maggio, tuttavia, suscitano lo scetticismo di Zhang, che preferisce sempre inscenare la frizione tra protagoniste e il contesto rigido in cui si trovano a dover vivere, piuttosto che avallare modelli posticci di emancipazione importata. Zhang è particolarmente abile nell’evidenziare le ostilità che colpiscono a un livello microscopico, senza per questo minarne l’effetto destabilizzante. Riesce a stillare interi sistemi di imbarazzo e miseria in singole scene. In Hongyuanxi, “Grande felicità”, Liqian, invitata al matrimonio della cugina, arriva insieme alla madre e alle quattro sorelle — “le maggiori erano ragazze abbastanza carine, ma non erano più giovani e iniziavano ad innervosirsi”.
[Liqian] si era fatta fare un cheongsam sfoderato apposta per l’occasione. Tuttavia, non era preparata al calo improvviso delle temperature dopo due giorni di pioggia. Era troppo presto perché l’hotel accendesse il riscaldamento e quindi non poteva togliersi il suo vecchio soprabito, non perché non tollerasse il freddo, ma perché non sopportava le domande preoccupate, ‘Non hai freddo?’.
Liqian, “nata sfortunata”, è molto meno di un personaggio, è una parente sulla lista degli invitati obbligatori, e sparisce poche righe dopo, in piedi appoggiata a una colonna perché, “nonostante fosse arrivata presto non aveva trovato posto a sedere”.
Zhang sa benissimo quanto un abito scomodo possa influire sul modo d’essere di un personaggio, e non manca mai di inserire vestiti che tirano, graffiano, stringono. In Hongyuanxi, la futura suocera Lou taitai è la consorte di lunga data, la madre di figli adulti che tenta di compiacere e rendersi utile, finendo per irritare tutti. Suo marito, dopo averla rimproverata, guardandola continua a sgridarla col pensiero: “Devi proprio tagliarti i capelli così corti? Se è la comodità che vuoi, raditi la testa. Perché devi metterti le calze lilla? E devi proprio arrotolarle fin sotto le ginocchia? Devi proprio far vedere che la sottoveste nera ti esce dallo spacco del cheongsam?”.
Il matrimonio, breve e infelice, tra Zhang e un funzionario collaborazionista rende ancora più problematica la sua sopravvivenza sul suolo cinese dopo il 1949. Mentre la Repubblica Popolare si prepara ai disastri della svolta maoista, Zhang si rifugia a Hong Kong, dal 1952 al 1955, dove si sostiene traducendo dall’inglese e inizia a scrivere romanzi. Il racconto più celebre di Zhang, Se, jie, “Lussuria, cautela”, è il testo più esplicito nell’inquadrare la scena shanghaiese durante gli anni dell’occupazione. Non a caso è stato scritto a guerra conclusa, durante gli anni dell’esilio a Hong Kong. Corretto e rimaneggiato negli anni ’50, Se, jie viene pubblicato solo molto tempo dopo, nel 1979, quando Zhang ha lasciato la Cina per sempre, rifugiandosi in California dove vive nell’anonimato quasi completo, dietro al nuovo nome Eileen Chang, fino alla morte nel 1995.
Wang Jiazhi, la studentessa-spia di Se, jie, fa del suo meglio per presentarsi all’altezza delle sue prestigiose ospiti: “il qipao senza maniche di raso marezzato blu elettrico le sfiorava le ginocchia, il colletto tondo alto mezzo cun [un centimetro e mezzo, n.d.a.], all’occidentale. Una spilla fissata al colletto si abbinava agli orecchini a bottone, zaffiri bordati di diamanti”. La scena si apre su una partita a mahjong tra le mogli degli alti quadri del governo filo-giapponese, tra le mani delle taitai tintinnano tessere del gioco e anelli:
proprio una vetrina di diamanti questo tavolo, pensò Jiazhi. Solo lei non indossava anelli, quel suo gioiellino di giada nemmeno se l’era messo, sapeva che si sarebbe fatta deridere, meglio che nessuno glielo vedesse.
Wang Jiazhi è la giovane protetta della padrona di casa, la signora Yi, ma in realtà è un’esca per suo marito, capo dei servizi segreti sotto il governo collaborazionista: suo compito è di sedurlo e condurlo a un’imboscata.
Stella della compagnia teatrale dell’università, Jiazhi non sembra animata da particolari ideali politici, non ha tempo o quiete necessari per riflettere sul suo ruolo nella resistenza clandestina, neppure si ferma a esaminare i suoi sentimenti. Lo fa, per la prima volta, quando si trova seduta in un caffè costretta ad aspettare l’arrivo del suo amante, il signor Yi. Jiazhi, però, è un corpo femminile ben visibile nello spazio pubblico prima che un’agente in incognito. Zhang dimostra come il flusso del pensiero privato deve per forza snodarsi tra altre paranoie legate al sentirsi seguita da uno sguardo costante, autentico o immaginato che sia: mascherare l’impazienza riapplicando il profumo, imporsi di bere il caffè con calma per giustificare il dilatarsi della sua permanenza, controllare il tono in cui si parla al telefono pubblico per non destare sospetti. È in un altro interno opprimente, il retrobottega del gioielliere indiano dove si sta preparando l’agguato, che Jiazhi soppesa la qualità dell’affetto che ha covato per il signor Yi contro la promessa fumosa di una patria più libera grazie al suo sacrificio.
La forza devastante del desiderio di Jiazhi, desolato e autodistruttivo, annichilisce ogni tentativo morale o chimera patriottica ed è, forse, l’unica (micro) rivoluzione narrata da Zhang. Il rigetto della mitografia di regime non solo ha incanalato Zhang verso l’esilio volontario, ma ha modellato la facciata di realismo miope nella sua prosa, stretta da vincoli sia contingenti che autoimposti. Nelle piccole storie di Zhang la tristezza rischia di apparire insensata se non si ci si ricorda che, fuoricampo, la spinta di un disegno politico sfocato, ma soverchiante, è in atto. La fattura dei bottoni e il bagliore cangiante della seta sono diversioni, e mai leggeri diversivi.