L a madre della protagonista di Swing Time un giorno scende nel cortile comune con in mano una vanga enorme: indossa una salopette di jeans, non sandali, ma Birkenstock, un fazzoletto giallo sulla testa e vuole scavare la terra per piantarvi dei fiori: “Chi non amava le rose? Chi era così meschino da negare ai bambini delle case popolari la possibilità di piantare un seme? Non eravamo tutti originari dell’Africa? Non eravamo gente della terra?”. Vista dall’alto di uno dei complessi abitativi di North London quell’azione assomiglia a un rimprovero rivolto all’intero caseggiato: cosa succederebbe, pare domandarsi, “se la smettessimo di mollare sempre i nostri figli davanti alla TV a guardare i cartoni e soap opera? […] Le loro madri avevano mai pensato di ricavare un vaso dalla terra? O di coltivare un fiore da metterci dentro?”
Swing Time, il nuovo romanzo di Zadie Smith che prende il nome da un film di Fred Astaire, però, inizia non come una storia di un’emancipazione ma, più felicemente, con una ragazza normale che osserva la sua straordinaria madre dalla finestra e non sa se provare orgoglio o imbarazzo; è un romanzo che si chiede com’è crescere con una di quelle donne che sono riuscite a non diventare qualsiasi cosa la vita avesse prescritto loro. La risposta è: difficile. “Tutti noi, – dice la figlia, di cui non viene dato il nome –, oltre a essere persone che conosceva e amava, eravamo contemporaneamente oggetti di studio, personificazioni viventi di quello che stava studiando al Politecnico del Middlesex”: se lo studio, la religiosa arte dell’autoeducazione, avevano allontanato sua madre dalla comunità (“era ancora legata al gruppo, dal punto di vista intellettuale e politico –, non era più una di loro”), alla donna non importa davvero.
Le madri che conoscevamo dimostravano una sorta di menefreghismo, o forse sembrava menefreghismo agli estranei ma noi lo chiamavamo con un altro nome. […] Noi le capivamo un po’ meglio. Sapevamo che ai loro tempi avevano temuto la scuola proprio come la temevamo noi adesso, si erano sentite umiliate dalle regole arbitrarie, dalle uniformi nuove che non potevano permettersi, dall’incomprensibile mania del silenzio, dalle incessanti correzioni del loro patois e cockney, dalla sensazione di non combinarne mai una giusta. […] Dico le nostre madri, ma naturalmente la mia era diversa: lei aveva la rabbia, ma non la vergogna.
Eccezionale com’è, può camminare senza inciampi sul terreno scivoloso delle ambizioni, ripudi e aspirazioni, per riuscire a ricavarsi uno spazio vitale non solo abitabile, ma soprattutto fertile, in cui far crescere le ragazze del quartiere, sue figlie, naturali o acquisite; ma se loro non si fossero dimostrate altrettanto eccellenti, bensì ingrate, o peggio, mediocri, cosa sarebbe successo? Certa perfezione può essere fastidiosa e, come il bianco immacolato richiama lo sporco, questa richiama la trasgressione: la protagonista di questo libro sa che ha ragione la madre a impartirle le lezioni, che ha ragione quando dice che quando sei una ragazza e una ragazza di colore in una cultura in cui le diseguaglianze sono ineludibili, allora
le sole cose che importano a questo mondo sono quelle scritte. Ma ciò che fai con questo – e indicò il corpo – non avrà mai importanza, non in questa cultura, non per questa gente, così non stai facendo altro che giocare al loro gioco con le loro regole, e se lo fai, te l’assicuro, diventerai l’ombra di te stessa. Sfornerai un mucchio di figli, non ti allontanerai mai da queste strade e diventerai un’altra di quelle sorelle che potrebbero non esistere.
Conosce il destino “delle donne di travolgente successo che avrebbero potuto correre più veloci di un treno in corsa, se fossero state libere di farlo”, perché ha vissuto in mezzo alle altre persone, ha visto la vita accadere dalle finestre del suo palazzo, eppure le viene voglia di dire che non è così, di voltarle le spalle, deriderla, fallire il test per entrare in una scuola migliore, fare sesso con uno sconosciuto solo per vedere che effetto fa. Le viene voglia di dire qualcosa di cattivo a quella grande e saggia madre che sembra non sbagliare mai niente e che soprattutto non si chiede mai cosa la figlia voglia diventare: c’era qualcosa di male a essere una delle tante? Eppure basta fare la domanda ad alta voce per sentire cosa questa domanda implichi davvero.
Katharine Hepburn diceva di Fred e Ginger che “lei gli dava il sesso e lui le dava la classe”, che, insomma, ogni relazione è un rapporto di scambio: se la madre le aveva dato un futuro diverso, perché abitato dal sentimento della scelta, la figlia le aveva dato un progetto. Ma Swing Time è un libro sull’adolescenza, sull’incandescenza del ballo, sullo spirito irridente e sventato delle ragazze che crescono nonostante tutto. È un libro sull’amicizia con Tracey, la ballerina talentuosa che abita nello stesso complesso di case, che le insegna la libertà di sbagliare, di desiderare quello che ha intorno piuttosto che quello a cui potrebbe aspirare, la libertà di ridere di sua madre.
Leggendolo mi sono chiesta cosa questa ragazza le desse in cambio: se la radicale normalità di Tracey non servisse solo come metro di paragone per il mondo che le aveva offerto sua madre, se la sua crescita non fosse avvenuta a dispetto di quella dell’amica. Se l’arrivo di Tracey nella scuola modello in cui la madre l’aveva iscritta da bambina le fosse servita solo a capire che quella “non era una stanza piena di bambini […] era un esperimento sociale”, con la figlia dell’addetta alla mensa seduta vicino al figlio del critico d’arte e il bambino col padre in prigione che giocava col figlio del poliziotto; mi ero interrogata se fosse possibile fornire un modello di emancipazione a quella ragazza o se tutto quello che le avevano donato in quegli anni era uno sguardo che sembra giudicarla silenziosamente per la sua incapacità di aspirare a qualcosa di più, di meglio, per sé? A chi serviva davvero quell’esperimento sociale: a dare un contesto sociale ai bambini privilegiati (qualunque fosse il loro privilegio) o era possibile andare oltre quella che assomigliava a una lezioncina adatta a un corso di antropologia? A chi parlano, a chi servono i libri di Zadie Smith, insomma: a Tracey o alle persone che credono più o meno sinceramente di vivere in una società egualitaria?
Swing Time non è un romanzetto a tesi sulla caduta e la rovina delle ragazze che avevano fretta di crescere, non è un manuale moralista che vuole educare chi lo legge.
Perché quando viene il momento per Tracey di varcare la soglia della adolescenza non c’è nessuno a guidarla, a consigliarla, e neppure a dirle che stava varcando una soglia, c’è solo la vertigine di chi si deve affidare a se stessa. Solo a questo punto la protagonista riuscirà a ringraziare sua madre, perché il suo sacrificio è stato il primo passo per un futuro diverso e, se non migliore, per lo meno abitato dal sentimento della scelta: si era potuta permettere un lavoro frivolo, il disimpegno politico, di dimenticare un ragazzo che voleva fare di lei la Regina d’Africa, di desiderare movimento, vita, perché qualcuno si era preso cura di lei e questo era un privilegio.
Ma Swing Time è un libro abbastanza intelligente per non diventare un romanzetto a tesi sulla caduta e la rovina delle ragazze che avevano fretta di crescere, non è un manuale moralista che vuole educare chi lo legge: nel libro c’è soprattutto la libertà di dire che ci sono abbastanza condizionamenti nella vita di Tracey perché sia ritenuta obbligata a essere più giudiziosa o lavoratrice delle altre, il libro racconta che forse Tracey sposerà l’uomo sbagliato, rimarrà incinta prima del tempo e prenderà decisioni sbagliate, spenderà i soldi in articoli che non le servono affatto, o forse no, ma sarà libera di farlo. A far arrabbiare non è una ragazza che sprechi il proprio talento – o il proprio non talento, perché splendere non è un obbligo – ma le condizioni strutturali della sua vita: l’ingiustizia sociale in cui è cresciuta (“il potere che senz’altro esiste nel mondo, che pochi detengono e al quale la maggior parte di noi neppure si avvicina, un potere di cui la mia vecchia amica, a quel punto della vita, doveva sentirsi completamente priva”) è imposizione tanto forte già di per sé che possiamo anche non doverle aggiungere anche l’obbligo alla infallibilità; sarebbe un moralismo insopportabile ed ingiusto. Sarà felice o infelice, perché questo non è un traguardo morale e non dipende solo dalla sua capacità di autodeterminazione: chi è felice, del resto, tra gli altri?
Quando ho finito Swing Time mi sono chiesta cosa sarebbe successo se Zadie Smith, la scrittrice capace di trasformare ogni storia in un’impeccabile dinamica di potere, di appropriazione e ambizione al miglioramento, fosse stata meno talentuosa di così. Se non fosse la sua capacità di controllare la materia ad averla tenuta sempre a un passo di distanza da me, se quella madre bionica non fosse insomma un’emanazione dell’autrice contro cui mi volevo ribellare: mi aveva detto cose molto giuste, ma alcune non avevo voluto sentirle – le sapevo già e, di fronte a tutta quella ragione, desideravo l’errore. Era solo con NW, con la sua deliberata frammentarietà e fallibilità, che ero riuscita ad amarla, non perché avesse dimostrato quanto fosse costato nascondere le impalcature, i fili, lucidare le frasi fino a ottenere una programmatica pulizia, ma perché in quella frizione tra forma e contenuto avevo visto qualcosa di vero.
L’avevo amata soprattutto perché in NW, le tesi della sociologia, le teorie sulla decolonizzazione dell’immaginario si erano scontrate con la carne e il sangue di Leah e Natalie, il desiderio di migliorare la propria condizione con la paura di tradire il posto da cui si veniva, l’unico posto che si sarebbe potuto definire ancora casa: le questioni identitarie avevano incrociato la classe sociale. Swing Time aggiunge un altro tassello a questo discorso: la sofferenza di chi si trova a metà di una strada e non ha abbastanza talento per diventare qualcos’altro né abbastanza rassegnazione per accettare l’assenza di una metamorfosi. Qua, però, della frammentarietà non c’è più traccia, sostituita nuovamente da una struttura forte e impeccabile, incapace talvolta di provocare quell’attrito che avevo trovato fertile. Forse, però, è il libro che Zadie Smith si è potuta permettere di scrivere: liberatorio, felice, come due ragazze che ballano solo per se stesse.