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ono anni che penso ad alta voce” scrive Zadie Smith nell’introduzione al suo ultimo libro. Leggendo i saggi pubblicati tra il 2010 e il 2017 raccolti in Feel Free (edizioni Sur, traduzione di Martina Testa) in effetti si ha l’impressione di vederla pensare sulla pagina. Dentro Feel Free si trovano riflessioni sull’arte rinascimentale e spezzoni di vita famigliare, un’intervista a Jay-Z e ricordi dell’infanzia a Willesden, il quartiere di Londra che non smette di tornare nei suoi romanzi, dove il padre inglese e la madre giamaicana si affacciarono al mondo della piccola borghesia. Ci sono gli autori che hanno influenzato la sua scrittura, dai personaggi di Philip Roth all’incontro elettrizzante e rivelatorio con Il Budda delle periferie di Hanif Kureishi, “che ho letto sentendo qualcosa di impossibile sciogliermisi dentro.”
Un romanzo che ha aperto la strada al suo esordio Denti Bianchi nel 2000. Da allora Zadie Smith ha pubblicato altri quattro romanzi e due raccolte di saggi e ha iniziato a insegnare scrittura creativa alla New York University. Collabora con riviste e quotidiani e ha costruito una voce che sa intrecciare senza attrito il fenomeno pop mondiale Justin Bieber con il filosofo ebreo Martin Buber: “Bieber e Buber sono varianti ortografiche di uno stesso cognome tedesco. Chi sono io per ignorare questi segnali che mi manda l’universo?” In Feel Free Smith raccoglie questi segnali e lascia che si diramino in associazioni libere ma rigorose, formando il tessuto di saggi che avvicinano mondi distanti lungo la traccia del suo pensiero.
Hai pubblicato il tuo primo romanzo, Denti bianchi, molto giovane, ed è stato subito un successo. Poi non hai più smesso. Com’è, per uno scrittore, crescere in pubblico?
Quello che mi sorprende è vedere la gente venire ai miei eventi con la pila di libri che ho scritto. Mentre lavori non te ne accorgi. Mi sembra di essere in uno stato di emergenza costante, devo sempre finire un certo racconto o un certo saggio. Solo quando li vedo impilati sul tavolo diventa ovvio che li ho scritti io tutti quei libri. Fa sempre uno strano effetto. Forse dovrei riflettere di più su me stessa, ma alla fine non lo faccio. Non mi guardo spesso indietro, mi concentro sul lavoro che sto facendo.
C’erano cose che non sapevi fare nel primo romanzo e che adesso sai fare?
Come per tutte le cose che fai a lungo, le tue capacità in senso pratico migliorano. Impari a muoverti con una certa leggerezza e fluidità, mentre da giovani è più facile rimanere bloccati. Ci sono cose che adesso riesco a fare con più agilità per quanto riguarda la scrittura di saggi e racconti. Ho molta meno energia, però. Non credo sarei in grado di scrivere un libro come Denti bianchi adesso, e nemmeno vorrei farlo. Quindi va bene così.
Il tuo ultimo libro si intitola Feel Free, è una raccolta di saggi molto variegata per i temi trattati e il tono. A che libertà si fa riferimento, nel titolo, libertà di forma o di contenuto?
Per me è soprattutto libertà di pensiero. Ovviamente non voglio illudermi che il mio pensiero sia mai completamente libero da idee convenzionali, da idee di altre persone o da influenze culturali in un verso o nell’altro. Non è mai perfetto, ma posso aspirare a un certo grado di libertà da una forma di pensiero collettiva, provo a pensare in modo indipendente. È sempre il mio obiettivo quando scrivo un saggio. Ed è anche una questione pratica.
Per esempio, se devo recensire Black Panther non leggo assolutamente altre recensioni, non voglio essere condizionata o indotta in modo artificiale a pensare in un certo modo. Di solito prima finisco di scrivere la mia recensione e solo allora mi guardo intorno e leggo altri commenti. E solitamente quando lo faccio divento retrospettivamente ansiosa o timida perché mi rendo conto che non penso quello che pensano le altre persone. Ma a quel punto è troppo tardi.
Cerchi sempre di escludere le opinioni degli altri mentre sei concentrata sul tuo lavoro?
Sì, sono come chiunque altro. Voglio piacere alle persone, voglio che pensino bene di me, ma è difficile scrivere se sei distratto da queste preoccupazioni. Quindi cerco di tenere una visuale molto limitata fino a quando non ho finito di scrivere. È interessante l’approccio che molti giovani hanno alla produzione culturale: è come se ogni persona che produce cultura diventasse per loro un rappresentante politico, come se fosse un dovere prendere in considerazione il loro parere, quasi dovessero eleggerli. Credo sia meglio resistere a questa tentazione. Anche perché c’è qualcosa di completamente antidemocratico nella scrittura, è una comunicazione a senso unico. Ovviamente il grande finale democratico è che il lettore può semplicemente dire no, non mi interessa, quello che ho letto è noioso, è stupido. È completamente libero di farlo. Ma l’idea di dover dire la propria su tutto e di trovarci in un circolo di feedback di consumi culturali come quando si compra una macchina o si beve un caffè o si lascia una recensione su Yelp, è una concezione letale.
E mi sento sempre un po’ male quando penso a quei giovani scrittori che si ritrovano a dover rispondere al giudizio di migliaia, a volte milioni di persone sui social. Riesco a ricordarmi un tempo in cui scrivevi un libro o un film o qualsiasi cosa, usciva nel mondo e ricevevi quattro o cinque recensioni, alcune anche negative, ma non avevi accesso alle menti e alle opinioni di tutti. Solo perché qualcosa è tecnologicamente fattibile non significa che un essere umano sia capace di processare quel tipo di input. È un modo completamente diverso di essere vivi.
Nei saggi parli spesso di tecnologia, e sembri al tempo stesso affascinata e respinta dall’invasione di spazio mentale e personale di social media e internet.
Mi interessa molto osservarla. La cosa che ho notato – è solo la mia esperienza personale – è che alcune delle persone che conosco sono in certo senso delle star dei social. Hanno milioni di follower. Osservo queste persone e sembrano molto felici, sembra tutto bellissimo, la notorietà li diverte e le persone si divertono con loro. Ma poi, ogni tanto, dietro le quinte, alcuni amici che hanno questo tipo di seguito crollano completamente. Fa abbastanza impressione vedere questo processo. Posso solo fare ipotesi – ma la mia idea è che è vero la tecnologia ha una forza trasformativa, potente e bellissima, ma l’essere umano è sempre l’essere umano. Non siamo costruiti per svegliarci una mattina e trovare sei milioni di persone che disapprovano intimamente qualcosa che abbiamo detto o fatto. Non è quello per cui le persone sono fatte, non ancora almeno. Forse succederà nel futuro. Ma c’è ancora una parte di noi che è ferma nel villaggio, dove se quattro persone ti ripudiano per strada, vai nella tua capanna e ti impicchi. Ho un’idea molto diversa di quello di cui le persone sono capaci e dei loro limiti, e penso che l’essere umano non debba diventare quello che hanno deciso poche persone nella Silicon Valley. Non ho votato queste persone e non governano la mia vita.
L’articolo in cui parli di internet è un buon esempio di come costruisci i tuoi saggi: si parte dalla tua esperienza personale, ma si finisce per citare testi specialistici ed esperti, in questo caso Lanier. Come si tiene l’equilibrio tra le parti più soggettive e i temi generali?
È un’idea molto antica. Ho imparato studiando Aristotele che quando parli di un argomento devono esserci tre filoni: logico, etico ed emotivo. Sono tre modi per fare leva su un’altra persona. E cerco di mantenere un equilibrio tra di loro perché credo che mettere enfasi solo su uno di questi filoni distorce l’idea di cosa voglia dire essere umano. In questo momento, in particolare, l’approccio emotivo tende a essere totalizzante, definitivo. E quando qualcuno dice mi sento così, questo è successo a me, tu non puoi che alzare le mani e dire ok, se ti è successo questo e ti senti così allora non possiamo neanche discuterne. Non credo sia il modo giusto di portare avanti una dialogo. Le persone sono un misto di principi etici, che sono collettivi e devono essere discussi, emozioni, che tendono a essere individuali e vissute in modo individuale e hanno un’utilità limitata per quanto riguarda la necessità di esprimere un concetto ad altre persone, e poi la logica, che ha una grande utilità perché è una base su cui si può essere d’accordo in termini formali. Ma per me queste tre cose devono essere combinate. È questo a cui penso mentre scrivo un saggio: come posso tenere questi aspetti in gioco senza mettere un’enfasi artificiale sull’uno o sull’altro?
Cerchi questo equilibrio anche nella narrativa?
È diverso per ogni scrittore, ma per me la narrativa è prima di tutto emozione. Lì non sto cercando di vincere, non è lo scopo della narrativa, non sto cercando di convincere nessuno di qualcosa. Non è lo stesso tipo di ragionamento, quindi non c’è bisogno di quell’equilibrio. Provo qualcosa e cerco di farlo provare agli altri, la narrativa che cerca di perorare una causa per me non è narrativa.
In effetti i tuoi romanzi possono essere definiti implicitamente politici mentre questi saggi sono anche esplicitamente politici, come quello su Brexit.
Tutta la vita umana, per me, è nella sua essenza politica, perché riguarda opportunità, scelte, diritti, doveri e tutto questo è necessariamente politico. Scrivere di Politica con la P maiuscola non mi attira, perché ha degli elementi tribali. È noioso indossare un cappello che dice io sono di sinistra o io sono di destra e quindi avrò certe idee che sono già state decise e devo solo ripeterle in un certo ordine per un certo pubblico. Non lo faccio quasi mai. Ma quello che mi interessa di Brexit è proprio la complessità insita alla destra e alla sinistra su questo tema. La visione di sé della sinistra, nel Regno Unito, è stata distorta da quello che è successo e in un certo senso è successo lo stesso anche all’identità della destra. In momenti come questo sono più interessata, sicuramente.
Nella tua scrittura torna spesso il quartiere di North West London in cui sei cresciuta. In Denti bianchi, nel 2000, sembrava un quartiere pieno di possibilità, un luogo dove comunità di origini diverse avevano trovato uno spazio e un modo per convivere. Vent’anni dopo è ancora così?
No, è cambiato. Tutta Londra è cambiata, e non credo sia stato il risultato di un evento naturale o mistico. A miliardari stranieri è stato permesso di entrare in città e comprare proprietà come sistema di riciclaggio del denaro. Sarebbe assolutamente possibile per il governo inglese regolare le banche se volesse controllare le tasse sulle proprietà, ma tutte queste cose sembrano possibili per ora solo nel regno della fantasia. Prendere decisioni del genere cambierebbe la realtà economica di città come Londra, cambierebbe la vita delle persone che ci vivono. Non sarebbe impossibile per il governo tornare a finanziare adeguatamente le scuole pubbliche, anziché privatizzarle. Lo scollamento del tessuto sociale a Londra non è solo qualcosa che succede perché è nell’aria, è frutto di politiche attuate trent’anni fa e portate a termine dall’attuale governo. Bisogna avvertire le persone di quello che stanno perdendo e perché lo stanno perdendo.
Secondo alcune narrazioni portate avanti in Inghilterra al momento, si parla di una gioventù amorale, alienata, si parla dei pericoli dell’hip hop [ride]. Dai, le motivazioni che si stanno dando per la disgregazione della vita sociale a Londra sono così assurde che non meritano neanche disprezzo. Eppure apri un giornale qualsiasi nel weekend e trovi un articolo su quanto la musica grime sia letale per i giovani neri. Finché accettiamo queste narrazioni, queste storie infantili, finché ci facciamo fare la morale, non cambierà niente. Ma se analizziamo in modo strutturato quello che sta succedendo, le cose cambieranno.
E Corbyn è il cambiamento in cui speri?
Corbyn non è perfetto, ma ha capito la città di Londra, così come credo che Bernie Sanders avesse capito la situazione economica degli Stati Uniti. Potremmo fare scelte migliori – in America sono circondata da persone di sinistra molto preoccupate, c’è una grande disperazione in molti ambienti. Eppure molti di loro non hanno votato, davvero in molti. Possiamo indignarci per le inchieste sulle ingerenze russe nella campagna di Trump, oppure semplicemente votare. Non è complicato. Eppure conosco persone che preferirebbero scrivere un articolo di tre cartelle sulle manipolazioni di Putin piuttosto che mandare a casa questo governo con il voto.
Cambiamo completamente argomento: c’è un saggio nella raccolta che analizza il ruolo di Justin Bieber come oggetto di adorazione. Sei una Belieber?
Sì. Per me era davvero uno degli essere umani più belli che abbia mai visitato questo pianeta. Ma purtroppo sembra avere un rapporto negativo con la propria bellezza. Non so se l’hai visto di recente, ma ha completamente coperto il suo corpo, è come se qualcuno avesse fatto degli scarabocchi sulla Cappella Sistina. Vuole essere distrutto e si sta distruggendo efficacemente. È davvero interessante per me – cioè, lui è un simbolo nel mondo, è come se fosse un dio della fertilità o un dio minore, ma vuole solo avere una vita vera. Sta facendo una ricerca spirituale, sembra voler provare qualcosa a tutti i costi. Penso sia lodevole.
Ti piace vivere a New York?
Sì, lo adoro. È infinitamente stimolante, molto elegante, molto divertente. Vivo in una zona assurda di New York, nessuno vive più a Manhattan. Lavoro alla NYU e vivo nelle sue torri con gli altri professori e gli studenti. È strano per una donna di mezza età vivere in quello che alla fine è un campus, con i propri figli; ma mi piace. A Londra la vita è naturalmente borghese, non si può evitare. Vivi in una casa, parli della tua casa, prendi una cucina nuova, parli della tua cucina nuova, faccio tutte queste cose quando sono a Londra. A New York è un grande lusso vivere sotto l’ala della NYU, in un certo senso non c’è niente di più borghese, eppure mangiamo cibo d’asporto o alla mensa degli studenti. Quando vedo i miei amici a New York le conversazioni girano intorno alle idee, tutto il tempo. Idee, politica, creatività. Mi sento molto fortunata ad avere questa esperienza.
A proposito di esperienze, ricordo una vecchia intervista in cui dicevi di essere una scrittrice nata dalle letture, piuttosto che dalle esperienze. È ancora così?
Per lo più sì, perché in fondo non faccio mai niente. [ride] Mi succede spesso di essere in tour come questo, 48 ore in una città, e qualcosa di quello che vivo riesco a usarlo. Ma non è davvero come viaggiare, perché non esci mai dalle camere d’albergo. E poi… pensa per esempio a Philip Larkin, il poeta inglese. Non ha fatto niente per 50 anni, letteralmente. Odiava viaggiare, non gli piacevano gli stranieri, non parlava lingue straniere, lavorava in una biblioteca a Hull. La sua poesia è ristretta in un certo senso, ma anche incredibilmente profonda. Ha scritto quasi esclusivamente di morte e della paura della morte. Non devi fare niente per sapere cos’è la morte. Quindi ho fede nell’idea che anche la vita più umile – e in particolare se sei donna devi aver fede che anche la vita più umile, una vita domestica, di figli – può essere espressiva di qualcosa più grande. Non devi per forza essere Hemingway che va a sparare ai leoni o cose così.
E mettere su famiglia non ha cambiato la tua scrittura?
Sì, e credo sia lo stesso per tutte le donne. Cambia la tua gestione del tempo, tutte le madri pensano a quindici cose diverse nello stesso momento, e ora penso sempre a diverse mosse in contemporanea quando guardo al futuro. Ma sono brava a gestire il tempo. Essere madre però – e questa è la differenza più grande – ha cambiato il modo in cui guardo all’identità di una persona. Mi spiego meglio. Anche quando hai determinato ogni aspetto della tua identità, anche quando sai dire con esattezza di che razza pensi di essere, di che genere e di che classe, che tipo di scrittore, qualsiasi cosa, devi poi comunque agire nel mondo. Con i figli non importa quello che pensi di te, e che delizia e interesse puoi trarre da te stesso, ci sono delle decisioni vere e concrete che devi prendere in ogni momento in relazione a queste persone e al mondo, devi decidere che cosa fare e cosa non fare. È incredibilmente complicato: agire va ben al di là di essere. Possiamo essere molto soddisfatti di chi siamo, della nostra essenza e cose così, ma questo davvero non aiuta quando due bambini si stanno picchiando e uno urla all’altro “Non è giusto!” [lo dice in italiano] e tu devi prendere una decisione in quel momento. È una situazione complicata e mi ha fatto capire che per me qualsiasi questione etica riguarda più l’azione che l’essenza. Non credo più veramente in cosa le persone sono, o almeno non mi interessa quanto quello che le persone fanno.