Le voci di George Saunders
Tragico e comico, racconto e romanzo, micronarrazioni e voci corali: il primo romanzo dello scrittore americano.
Tragico e comico, racconto e romanzo, micronarrazioni e voci corali: il primo romanzo dello scrittore americano.
D a sempre, nelle storie di George Saunders, convivono senso del tragico e guizzi comici, o grotteschi. Quando uscì la sua prima raccolta di racconti, Declino delle guerre civili americane, un’amica gli disse che sembrava una persona molto infelice. “Ma il mio libro è divertente. Racconta verità, ehm, cupe. Sono una persona che ha speranza. Scrivere questo libro è stato un gesto di felicità, di speranza”, si disse Saunders, come racconta in un testo uscito anni dopo il suo esordio.
Saunders è a Firenze, finalista al premio Gregor Von Rezzori con il suo ultimo libro, Lincoln nel Bardo, pubblicato in Italia con Feltrinelli. Alla fine vincerà. Non è il primo riconoscimento ottenuto quest’anno; a ottobre Lincoln nel Bardo aveva vinto il Man Booker Prize. Prima, Saunders ha pubblicato quattro raccolte di racconti, un libro per bambini e raccolte di saggi. Tra i suoi racconti, alcuni sono ambientati in singolari parchi divertimenti, altri hanno per protagoniste scimmie su cui vengono condotti esperimenti, oppure c’è un tale che si mette a vendere i suoi ricordi, e così via. “Se ora dovessi raccontarti una storia triste, magari potrei metterla in scena con dei burattini”, mi dice a un certo punto, quando gli chiedo di aiutarmi a inquadrare la sua poetica.
Con Lincoln nel Bardo il territorio è apparentemente quello del romanzo, ma in una chiave decisamente originale. “Quando scrivo, quello che mi interessa è lavorare su un progetto in un modo che neanche io stesso posso definire. Dopo, è il materiale stesso che mi dice cosa farne. Definirei Lincoln nel Bardo come un’opera teatrale che però non deve essere messa in scena. Ha i vantaggi del dialogo, del dramma e della commedia ma anche i vantaggi della prosa. Mia moglie ha detto che secondo lei non è un romanzo perché ci sono troppi spazi bianchi”.
Ora, sarà per i troppi spazi bianchi, ma Lincoln nel Bardo non si può certo definire un romanzo convenzionale. È come se tendesse verso il poema in prosa, è ricco di micronarrazioni e sperimenta forme diverse, narrative e linguistiche (rese al meglio dalla traduzione di Cristiana Mennella). Prima un pastiche di citazioni storiche, reali o inventate; poi una storia di fantasmi di varia estrazione, vissuti nel diciannovesimo secolo, intessuta in un coro. Data la complessità della sfida, gli chiedo se mentre ci lavorava si è mai arreso, trovandosi a un punto morto. “Fin dall’inizio sapevo che non sarebbe stato facile, per questo ho fatto un accordo con me stesso. Mi sono dato sei mesi di prova: quando sarò arrivato a due terzi del romanzo valuterò il lavoro, mi sono detto. Ci ho lavorato per due anni, senza farlo vedere a nessuno. E mi ponevo dei dubbi: forse sarà incomprensibile, mi dicevo. Ma il fatto è che a me piace questa sensazione di essere al limite della comprensibilità, della sanità, per così dire. Perché se dopo tutto questo il libro arriva, e viene compreso, allora posso dire di essere davvero riuscito in quello che volevo fare effettivamente”.
Lincoln nel Bardo non si può certo definire un romanzo convenzionale: è come se tendesse verso il poema in prosa, è ricco di micronarrazioni e sperimenta forme diverse, narrative e linguistiche.
Come nei pezzi più eccessivi dei Led Zeppelin o dei Queen; per darmi un’idea acustica della sua poetica, Saunders mi spiega “di essere sempre stato un fan del rock di queste due band, della loro musica originale o addirittura strana: l’attitudine a creare qualcosa di classico e di emozionante, ma in un modo non convenzionale”. Visto che Lincoln nel bardo è strutturato a tutti gli effetti come un coro di voci che si affollano dall’inizio alla fine, non mi lascio sfuggire il parallelismo con la parte centrale di Bohemian Rapsody. “In effetti Bhoemian Rapsody è un ottimo esempio. È talmente sovraccarica che non dovrebbe neanche funzionare, a rigor di logica. Finché in realtà l’intensità della musica ti trasporta… c’è un documentario molto interessante, proprio su Bohemian Rapsody, in cui mostrano che quando la registrazione era finita, il nastro aveva talmente tanta roba registrata sopra che era quasi diventato trasparente, ci si poteva guardare attraverso” – e a questo punto intona il coro Mamma mia mamma mia.
Nel romanzo, un esempio di questa energia sovraccarica, sinfonica, si avverte quando i fantasmi ricevono la visita simultanea degli spiriti che hanno la funzione di tentarli, per sbloccarli dal limbo in cui sono finiti: “Frutti che rispondevano ai desideri: bastava lasciar correre il pensiero in direzione di un certo colore (argento, per dire) e di una certa forma (stella) e, in un istante, un albero che solo pochi secondi prima era senza frutti e senza vita a causa dell’inverno si ritrovava i rami stracolmi di frutti argentei a forma di stella”, e poi seguono altre visioni angeliche, di fiori, cibo, diamanti.
Nel cimitero di Oak Hill, appena giunto il corpo – assieme all’anima – di Willie Lincoln, i fantasmi, trattenuti nel Bardo (lo stadio intermedio dopo la morte, nel buddismo tibetano), ne sono tutti diversamente colpiti. Il paesaggio è tetro ma anche pervaso da una forma di speranza, oltre che della ripetizione ciclica di quello che era stato nella vita precedente. Come accade allo spettro di un uomo che in vita doveva essere stato un artista:
A volte, mentre albeggiava, quando tutti gli altri abitanti della palude, stanchi e deperiti, si accatastavano muti vicino alla quercia nera tempestata dai lampi, era possibile vedere Mr Randall profondersi in una serie di inchini, come davanti a un pubblico immaginario.
“Uno degli aspetti che più mi ha influenzato nel libro – mi dice Saunders – e non ne ero consapevole mentre lo stavo scrivendo, me ne sono accorto dopo, risale all’esperienza che avevo fatto per scrivere un reportage a Fresno, in California, in un centro per senzatetto. In tanti, in quel centro, si sono resi conto che non avevo l’aria di un homeless, e così venivano da me, ognuno per raccontarmi la propria storia. Alla fine molte delle esperienze che ho vissuto lì sono finite dentro Lincoln nel Bardo. Mi raccontavano come ci erano finiti, diversi di loro mi ripetevano ‘Io sono l’unico sano qui dentro’. E la stessa scena si ripeteva il giorno dopo. Ho immaginato la morte come una cosa del genere, un momento in cui tu smetti di crescere, ti trovi bloccato in quella situazione e cerchi di ricordare chi eri, semplicemente ripetendo sempre la tua storia, sempre le stesse cose”.
A voler individuare un insieme di aggettivi che possano definire Saunders e la sua narrativa, inevitabilmente finirebbe nella nuvola la parola “umanista”. Per intenderci, un piccolo brano dal racconto 180 chili di amministratore delegato:
Non sono cattivo. Se solo riuscissi a smettere di sperare. Se solo riuscissi a dire al mio cuore: arrenditi. Resta solo finché campi. In fondo c’è sempre l’opera lirica. Ci sono sempre il pane degli angeli e i canti di Natale dei bambini del quartiere, le foglie d’autunno sui tetti umidi. Invece niente. Il mio cuore è come uno sciocco sughero da pesca.
La formazione di Saunders, però, è di tutt’altra pasta rispetto al percorso canonico dell’intellettuale umanista. Laureato in ingegneria geofisica, ha lavorato per anni come redattore tecnico. “Non credo che le due cose siano in contraddizione – mi spiega – anzi credo che la mia formazione scientifica mi abbia dato diverse possibilità. L’opportunità di viaggiare, ad esempio, e di passare diverso tempo in Asia. E poi, credo che le migliori pratiche spirituali siano molto logiche. Io sono buddista, e il buddismo ti incoraggia a guardare dentro te stesso, a riflettere su chi sei, e a trarre le tue conclusioni. Noi come essere umani tendiamo a essere molto orgogliosi di noi stessi, ma in realtà credo che questo non abbia senso: in definitiva, siamo tutti essere mortali. Ed è per questo penso che la prospettiva umanista sia la più giusta, la più corretta: dobbiamo essere gentili con gli altri, trattarci con rispetto, vivere pienamente il momento, giungere a patti con l’idea della morte”, dice.
A proposito di morte – gli chiedo; e seppure finiamo spesso a parlare di morte la conversazione si tiene su un tono piuttosto divertito – quando hai pensato per la prima volta di raccontare la storia di Abrahm Lincoln e di suo figlio, il piccolo Willie, morto a soli dodici anni? “Sono venuto a conoscenza di questa storia una ventina d’anni fa – mi risponde – Eravamo in macchina e passavamo accanto al cimitero di Oak Hill; un mio cugino mi ha raccontato che lì era c’èra la tomba del figlio di Lincoln, e che il padre andava a guardarselo prima che lo seppellissero. Questa storia mi ha colpito tanto: una vicenda molto triste, bella, strana” – usa la parola weird – “Ci ho pensato e rimuginato per vent’anni: mi sembrava un tema troppo serio da affrontare. Nel 2012 ho sentito un desiderio molto forte di farlo, di mettermi finalmente a scrivere, anche se avevo anche un gran timore a farlo. Ma mi sono detto che a 52 anni non sarei migliorato ulteriormente come scrittore: quindi, ‘o lo fai adesso o non lo fai più’. Ho avuto la sensazione che se non l’avessi fatto avrei finito per ripetere sempre me stesso”.
Si diceva, in partenza, della cifra assieme tragica e comica a cui sono accordate le storie di George Saunders. E sapere come nasce in lui questa forma poetica – che in diverse forme può rimandare a scrittori come Kurt Vonnegut ma anche a Gogol’, amatissimo da Saunders – è la cosa che più mi piacerebbe capire. Per spiegarmelo, Saunders ricorre in serie a) a un ricordo d’infanzia; b) a un esempio estremamente pratico; c) a un aneddoto più recente.
“Sai, per come la vedo io, tragico e comico non sono mai davvero separati. Una storia: ero ancora un ragazzino quando morì un nostro parente, giovane, a cui ero molto legato. Andammo ai funerali in Texas. Fu un’esperienza tristissima. Quando uscimmo dalla commemorazione, di fronte c’era un ristorante della catena Chucky Cheese – Where a Kid Can Be a Kid®, un posto dove c’erano anche giostre e attrazioni per bambini. Lì, sulla strada, c’era un tale, vestito da topo – che è la mascotte di questa catena – che si era tolto la maschera, la testa del costume, e stava fumando. Insomma, ecco una bella una combinazione di tragico e comico: noi eravamo appena usciti da un funerale ed ecco lì fuori un tizio mezzo vestito da topo che fumava.
Secondo me la visione più sofisticata della vita è che dobbiamo vedere questi due aspetti come coesistenti. A volte diciamo Oh, la vita è una tragedia, oppure Ah, è così divertente; ma io credo veramente che sia entrambe le cose assieme. Anche nei momenti di peggior depressione puoi trovare un motivo di sorridere. Viceversa, quando sei al massimo della vita, insomma sei felicissimo, finisce che fai una scorreggia in ascensore e vien fuori un imbarazzo tale che vorresti morire. È importante vedere le cose all’interno dello stesso squadro. Qualche tempo fa dovevo intervistare l’ex vicepresidente Joe Biden. Ero a Miami, in Florida, nervosissimo pensando a tutte le domande che avrei dovuto rivolgergli sulla politica e così via – e all’improvviso ecco che mi cade il cellulare nel water”.
La cifra assieme tragica e comica a cui sono accordate le storie di George Saunders, può rimandare in diverse forme a scrittori come Kurt Vonnegut ma anche a Gogol’.
Si capisce, dunque, perché le tre voci narranti di Lincoln nel Bardo, tre fantasmi, possano uscirsene nel bel mezzo di un cimitero con battute come “Per farla breve, era un mortorio, e bramavamo il benché minimo fuori programma”. C’è però una scena che occupa uno dei centri del romanzo, ed è quando uno dei fantasmi, quello del reverendo Everly Thomas, è condotto davanti al giudizio di Dio: una scena dalle tinte quasi psichedeliche. “In realtà la scena del giudizio è stata molto semplice da scrivere, mi è venuta fuori molto rapidamente, come se stessi scherzando o addirittura giocando. Il problema è che mi sembrava troppo lunga, e quindi continuavo a metterla e toglierla dal libro; non ne ero mai troppo sicuro. Una cosa complessa è stato riuscire nel gioco linguistico che mi ero proposto di mettere in scena, utilizzando registri del diciannovesimo secolo. Diciamo che per andare avanti su questo fronte ho dovuto cercare di togliermi un po’ di pressione dalle spalle”.
Negli Stati Uniti Lincoln nel Bardo è stato generalmente acclamato dalla critica. Poco prima di incontrare Saunders, avevo visto su un giornale la faccia arancione di Donald Trump, e accanto un titolo che riportava ancora la sua proposta di armare gli insegnanti nelle scuole per prevenire eventuali stragi. Per certi versi, sembra proprio un racconto di Saunders, nell’America di Trump, distante due secoli da quella di Abe Lincoln. “Gli Stati Uniti hanno sempre avuto due facce, e Lincoln e Trump possono essere due esempi di queste facce. Noi come Paese abbiamo sempre dovuto lottare con l’idea dell’uguaglianza; abbiamo sempre detto di essere a favore dell’uguaglianza – sin dalla nostra Costituzione – ma rileggendo la storia del paese scopriamo che non è stato così. Siamo sempre stati un paese violento, c’è sempre stato lo sfruttamento di certi gruppi di persone; credo che con l’elezione di Trump tutti gli scheletri stiano uscendo dall’armadio: siamo costretti ad affrontare il nostro passato, e tutto quello che abbiamo detto e non fatto.
In ogni caso, quando è arrivato Trump ho sentito che era un personaggio a me familiare. Gli scrittori devono saper ascoltare attentamente quello che accade; cerchiamo di cogliere le energie, i trend che emergono nel paese. E sicuramente quella che ha nutrito il fenomeno Trump era un’energia che si poteva percepire da tempo. Trump è il materialista assoluto, è l’esempio perfetto: è un pragmatico, è uno che gioca con la verità. Ma c’è una cosa che amo molto del mio Paese ed è la nostra energia: gli Stati Uniti sono una casa piena di energia, potremmo dire anche che siamo un po’ pazzoidi. Ecco, questo ho cercato di trasferire nel libro: riuscire a mantenere sempre alto il livello di energia. La nostra pazzia”.