L o specchietto retrovisore a illustrare la copertina di La vita che verrà (Minimum Fax) — corposa antologia di racconti pubblicati tra il 2001 e il 2018 scelti dal loro autore, Christian Raimo — indica la volontà di guardarsi indietro, fare il bilancio di tutta una scrittura passata, certamente, ma non dice quanto i sedici testi raccolti al suo interno siano rappresentativi di una visione di mondo ancora attuale.
Ci sono racconti risalenti al 2001, estratti dalla raccolta d’esordio di Raimo, Latte, accomunati da una grande preoccupazione per la violenza più esplicita ed energica — quella delle armi, degli scontri corpo a corpo, delle istituzioni e dei loro avversari clandestini — e dalla spinta a riconoscere le unità minime di cattiveria che ognuno infligge ogni giorno a chi ha vicino. Personaggi che devono rinunciare all’idea della propria purezza: accettare il passato nappista del proprio padre cardiopatico, riconoscere l’innamoramento totale per il fidanzato della migliore amica, confrontarsi faccia a faccia con il fratello del ragazzo cui si ha sparato nella pancia, venire a patti con la propria psicosi. Illusorio credere di poter agire sempre mirando al meglio, quanto impossibile accertarsi che poteri più grandi facciano altrettanto, specialmente quando prendono la forma di manicomi, attenzione famelica del pubblico, burocrazia della giustizia e della sanità, cariche della polizia, azioni dei padri.
Non solo è impossibile controllare il potere, ma neppure comprenderlo è fattibile, e i racconti scelti dalla seconda raccolta di Raimo, Dov’eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro ridimensionano l’ideale di una vita collettiva, partecipata in prima persona, alla realtà rugginosa di persone incastrate di sbieco rispetto al fulcro dei grandi eventi. Singolarità laterali, periferiche, limitate, ammalate che si chiedono, disorientate, che cosa stia succedendo. Sono quesiti che il titolo biblico della raccolta originale del 2004 già reprime — Dio ammonisce Giobbe per il suo desiderio di spiegazioni circa il motivo delle sue innumerevoli sofferenze, poiché non gli è dato conoscere l’ampiezza del progetto divino glorificato dagli astri — e che dispersi nell’antologia del 2021 rifioriscono in vignette frammentate, vagamente sperimentali nella loro smaccata assenza di trama, tese a mimare in parole l’ottundimento nei pensieri e nel fisico dei loro protagonisti.
Uno scienziato che studia l’odore dei peti è ancora stordito dal lutto ambiguo per la sparizione della moglie, e la donna con cui esce a cena — una delle partecipanti campione della ricerca — si è autoesiliata dal suo paese perché convinta di puzzare troppo. Un anziano allettato si sforza di capire quello che il nipote gli sta dicendo, che un ragazzo della sua età è stato ucciso a Genova, in una piazza, dalla polizia. Un tale di Cisterna di Latina passa la notte a bordo di un bus notturno per prendere il primo treno di ritorno dalla stazione Termini, mentre un altro tale con moglie e amante resta impassibile alle gravidanze parallele delle due. Una coppia molto innamorata si convince di essere in crisi perché senza figli, ma uno sconosciuto accolto in casa chiede loro se sono felici, e pare basti a spianare la strada alla vita che verrà.
Nei racconti c’è l’attaccamento al culto della virilità per cui l’uomo esce e combatte, anche a costo di inventarsi guerre esterne all’istituzione dell’esercito: lotte armate, manifestazioni finite a manganellate, il poster di Muhammad Ali in cameretta.
Sono racconti nel complesso molto più positivi, popolati da personaggi meglio disposti ad accettare la limitatezza della loro coscienza nonostante l’ostinato accumulo di parole scambiate, ripetute, abbozzate e farfugliate. Una disposizione d’animo che sembra completamente persa (superata?) a distanza di quindici anni, come suggerisce “Bifida”, il racconto più recente (2018) e forse quello più inquietante. Una sorta di contrappasso karmico-provvidenziale, del tutto inedito rispetto alla gioiosa casualità delle altre storie, sbalordisce tutti — personaggi, lettrice e narratore incluso — e azzera la possibilità di una soluzione che allevi i dilemmi scolastici in scena: è opportuno esercitare un’etica scrivendo temi valutati sulla scala del dieci? Classi separate per gli alunni disabili? È più bisognoso d’aiuto il bullizzato o il bullo?
In mezzo, a segnare l’evoluzione della carriera di Raimo, ci sono i racconti scelti da Le persone, soltanto le persone (2014). Più lunghi, architettati con cura, in modo che dal filo degli eventi scaturisca il principale piacere narrativo, soprattutto quando la storia verte impennandosi all’assurdo, fa leva sul (tragi)comico o inverte in corsa la traiettoria dei propri protagonisti, anche, all’occorrenza, riscrivendo la Storia. Calvino contro Pasolini diventa letteralmente una scazzottata, e una tesi di laurea si fa impresa epica. Con una dose di eroina si finisce nella campagna viterbese a cercare cadaveri cui dare degna sepoltura, una professoressa valdostana può sconvolgere la vita placida di due cognati romani, la suspense generata da pubbliche accuse di violenza sessuale si scioglie in una sexy trama rosa.
C’è una logica specifica che sembra animare gran parte delle strutture narrative di Raimo, un certo gusto del farsi piccolo che, una storia dopo l’altra, invariabilmente incarna la voce narrante in personaggi imbelli e semplicioni. La loro visione parziale e incuriosa, ma soprattutto le loro azioni scagliate senza riflettere si fanno motore narrativo. E al caso, alla fortuna, si sostituisce la mancanza di progettazione, l’istinto, l’impulsività, l’inseguimento del piacere immediato.
Gli omuncoli di Raimo sembrano tesi tra due estremi. Da una parte, l’essere supereroe, l’essere pura vita al di sopra di spese, aspettative, bollette da dividere coi coinquilini, alla ricerca dell’ascesi narcotica. Dall’altra, l’essere minuto, incastrato in se stesso, in balia della propria storia e della propria geografia, troppo inetto, normale, per decidere cosa capire dei propri atti. Nel mezzo, l’abbaglio del “farcela”: il successo, le donne, il riconoscimento, il controllo, i soldi. Nei fatti, sono il gemello meno dotato della coppia, un nonno in fin di vita, un pendolare dalla provincia, un aspirante scrittore al cospetto di “veri” scrittori. In un’intervista recente, Raimo dice:
[…] nel tempo, ho capito che mi interessava raccontare la crisi evidente dei maschi, di queste voci sicure di sé che sapevano ordinare il mondo secondo un proprio modello. Una delle cose che sicuramente ho vissuto è la crisi del patriarcato, motivo per cui mi coinvolgeva l’idea di dar vita a personaggi mediocri, bugiardi, dimostrando come la crisi della narrativa venisse anche dalla crisi di queste voci maschili.
Che cosa imparano dalla crisi e dall’umiliazione gli omuncoli di Raimo? Se anche riconoscono i propri peccati, è difficile che si pentano: l’economia narrativa provvede a fornire a ciascuno una patina di ingenuità, mancanza di sofisticatezza, di conoscenza. Personaggi semplici, autoironici, autoassoltisi da ogni esame di coscienza in virtù della loro supposta trasparenza. Che verità del mondo viene presentata attraverso queste storie? Perché ostentare incretinimento, specialmente quando le vite immaginarie sono incorniciate da una narrazione tanto colta ed empatica?
Raimo sfoggia una serie di narratori inattendibili, “io” narrativi che spingono un modo personalissimo di vedere la realtà che la storia più grande puntella, limita, ridimensiona. Come se un narratore più sapiente, o uno autore più umile, facesse l’occhiolino alla lettrice al di sopra del personaggio sulla pagina, suggerendole di non credere proprio a tutto quello che le si racconta. Nel 1961, Wayne C. Booth — all’epoca professore di letteratura inglese all’università di Chicago — descrive la tecnica della narrazione inaffidabile in The Rhetoric of Fiction (portato in Italia nel 1996 come Retorica della narrativa), opera fuori moda il cui argomento principe è l’impossibilità, per ogni autore, di scrivere letteratura che non sia retorica. Persuadere, indicare che pensare di un personaggio, di una scena, controllare quanto mondo fittizio chi legge può vedere, trasformare una visione privata in un’opera pubblica, è quello che inevitabilmente fa chi scrive, secondo Booth.
Un narratore inattendibile — la “voce” della storia, ben distinta dalla prospettiva dell’autore in carne e ossa — non è un narratore che non dice la verità, quanto una voce che occulta informazioni, si contraddice, sparge inesattezze, fraintende i fatti. E di cui la lettrice si accorge, perché la narrazione sembra volerle imporre un giudizio inaccettabile. Il trucco, per funzionare — cioè convincere, o ingannare, chi legge — deve appianare il più possibile la distanza tra i valori e le regole vigenti nel mondo narrativo e ciò che nel mondo di chi legge è normale, accettabile, logico. Nello spettro tra i due mondi, c’è il gradiente infinito delle reazioni di lettori e lettrici. Reazioni che, di norma, sono di diletto: riconoscere e stare al gioco del narratore inaffidabile è gran parte del piacere promesso da certe letture — dal Tristram Shandy a Fuoco pallido. Tuttavia, “Molti dei lavori scritti nella modalità inattendibile dipendono, per i loro effetti, sulla collusione ironica tra l’autore e i suoi lettori” [traduzione mia] nota Booth. Bisogna, insomma, che ci sia un’intesa tra narratore e lettrice su quello che fa sorridere, non solo per innescare il gioco dell’inaffidabilità, ma per garantire che il libro non venga scagliato via a metà lettura.
Lecito non credere alla versione presentata dalla voce narrante, permesso non ridere alle sue battute e proseguire comunque la lettura, ma superata la sfera della finzione continuare a sospendere il proprio giudizio diventa impraticabile. Cosa succede, perciò, quando la narrazione è costruita appositamente per confondere i confini tra il narratore fisico e quello letterario, chiamandoli, per esempio, con lo stesso nome? A che punto si situa lo scarto tra l’esperienza di verità del Christian Raimo personaggio, la visione del mondo del Christian Raimo narratore e il progetto letterario ricercato dal Christian Raimo scrittore? Nella stessa intervista citata poc’anzi, Raimo spiega così il suo intento:
Ne “Il gioco sbagliato”, “Calvino contro Pasolini”, “Bifida” e “Come sono diventato uno scrittore” il percorso è sempre lo stesso, c’è un narratore maschio inizialmente molto autorevole (uno scrittore, uno studioso, un professore, un editore) che, man mano, perde questa autorevolezza e l’affidabilità.
Il percorso, tuttavia, potrebbe anche apparire inverso, anzi, in ascesa: un’iperbole di conferme che, sul finale, cementificano sicurezza e prestigio mai davvero manchevoli nel corso della storia. Fino alla fine il professore di “Bifida” non perde del tutto, nonostante gli scossoni, il controllo e la disciplina della classe, nemmeno subisce pressioni dal consiglio di classe, o dalla temibile mamma psicologa-rappresentante dei genitori. Il laureando di “Calvino contro Pasolini” spreca ogni occasione per coglierne ancora di più: tesi pubblicata, cattedra universitaria, moglie devota e famiglia numerosa. Il personaggio Christian Raimo conferma in “Il gioco sbagliato” la profezia rivelata nel bagno newyorchese di “Come sono diventato uno scrittore”, in dieci anni da esordiente sconosciuto è diventato noto autore ed editor.
È “Come sono diventato uno scrittore” il tentativo più esuberante di autofiction proposto da Raimo, sistemato in apertura della raccolta e tratto da un’antologia collettanea di storie di figuracce del 2014. La figura di merda per Raimo è insieme simbolica e materialissima, un’apoteosi confessionale che coinvolge persone autentiche, finzionalizzate per nome e cognome. Un Christian Raimo giovane, inedito e con lo stomaco scombussolato dal viaggio transoceanico intasa lo scarico, un David Foster Wallace immenso si china, mani nell’acqua del water, per sturarlo. “Come sono diventato uno scrittore” rivela le strategie stranianti e parassitiche dell’autofiction: scrivere creando un sé alternativo e defamiliarizzando il noto per adattarlo alla propria visione, appropriarsi di identità e storie altrui per farne materiale pubblico.
Un processo che sembra all’apparenza infranto nel “seguito”, “Il gioco sbagliato”, ma che di fatto viene reiterato, e accresciuto. Nel corso della presentazione romana dell’antologia, Raimo racconta a Francesco Pacifico di aver provato, con “Il gioco sbagliato”, a scrivere un racconto a tesi per esplorare quella che ritiene essere la cosa peggiore che può capitare a uno scrittore: non avere l’ultima parola sulla propria storia perché già raccontata, meglio, da qualcun altro. Un Christian Raimo maturo e affermato scopre che una tale Elena Riccardi, autrice esordiente di un romanzo magistrale, e di imminente pubblicazione per un grosso editore, ha battezzato “Christian Raimo” uno dei personaggi partecipanti allo stupro di gruppo subito durante l’adolescenza dalla sua “protagonista bombarola”, Anna.
Però è evidente che un personaggio che si chiama Christian Raimo, si intuisce avere più o meno la tua stessa età negli anni Novanta quando è ambientato… E tu potresti legittimamente riconoscerti e affermare che la tua onorabilità è messa in discussione.
lo sprona l’accorto legale della casa editrice, e Christian Raimo indaga. Elena Riccardi si rivela essere un’avvocata coetanea che ha frequentato il suo stesso liceo, di cui Raimo non ha alcun ricordo.
«Non hai capito che storia è?»
«No».
«Ma davvero?»
«Che storia è?»
«La storia di Annalisa Salvati».
«…»
«A lei nel libro ho cambiato nome. Te la ricordi lei?»
«Una che stava in G? In H? Era la ragazza di Marco Regini».
«Esatto. Sì. Che la violentò insieme ad altre quattro persone. Suoi amici. Tra cui tu, mi hanno detto».
Possibile che non sia questa, l’accusa pubblica di essere uno stupratore, la cosa peggiore che può capitare a uno scrittore? Di certo è sgradevole, ammette la logica della storia, ma al personaggio Raimo basta una mail di ricordi fumosi per sanare ogni sospetto di Elena Riccardi e riabilitarsi: lui c’era, è vero, la sera dello stupro, ma è andato via prima che la situazione precipitasse. Nessuna resa dei conti con la propria ignavia, scansato il confronto diretto con la responsabilità, rigettata insieme all’accusa — infondata o meno — l’angoscia del non essere creduti, il racconto procede spedito. Soddisfatti i dubbi letterari e privati di Riccardi — che per la gioia dell’ufficio legale Einaudi cambia il nome del personaggio Raimo — di Annalisa Salvati e della violenza subita non si fa più menzione. Raimo dice che non ha violentato proprio nessuno, la matassa si sbroglia e la trama può sciogliersi in un risibile quanto erotico lieto fine: dopo un consensualissimo coito si risolve pure la sottotrama del dramma fiscale, con un bonifico di duemilaquattrocento euro destinato a saldare le cartelle esattoriali del nostro eroe.
Bisogna arrendersi al meccanismo esoterico del racconto, per il quale lo stupro e relativa accusa si rivelano MacGuffin posti ad avviare il gioco d’indagine e di seduzione, ma che contemporaneamente è capace di confermare il più becero dei doppi standard. Se Annalisa Salvati e Elena Riccardi rimuginano per anni sui fatti accaduti, si appellano addirittura ad una fantomatica giustizia letteraria per mettersi il cuore in pace, riconoscere negli altri “il senso di una relazione, una loro verità, uno scoprirsi”, il pettegolezzo che Raimo possa aver partecipato al gang rape non solo non lo raggiunge all’epoca dei fatti, ma anche quando gli arriva di rimbalzo, un ventennio dopo, non ha il minimo effetto sulla sua carriera letteraria e sulla sua reputazione di scrittore e intellettuale, e a fatica gli causa una notte insonne.
“Il gioco sbagliato” è un esempio di quanto ampio possa essere il divario tra chi scrive e chi legge, e fragile il patto di fiducia su cui si regge il gioco narrativo. Senza un accordo tacito, tra narratore e lettrice, sulle fondamenta etiche della situazione narrata, l’intenzione comica fallisce miseramente, diventa tedio, e subito il narratore risulta un picaro da spogliatoio, vanaglorioso nel cantare le proprie gesta di conquista anche quando ostenta una fantozziana incomprensione delle forze che lo perseguitano — uffici legali, il suo passato, l’Agenzia delle Entrate, le femministe vendicative. Con la graduale depersonalizzazione del personaggio di Elena Riccardi — che da ottima scrittrice, avvocata e cinefila arriva a fine racconto letteralmente nuda sul letto — si spiega la tesi avanzata a priori, che cosa succede quando una donna toglie la parola a uno scrittore? Semplice, che lui se la riprenderà nel modo più squisitamente patriarcale che ci sia, rimettendo l’usurpatrice al suo posto, zittendola, con il sesso.
Reputazione salva, solvenza economica garantita, un’altra tacca sulla testiera del letto: in questa prospettiva, è il trionfo della cultura machista per cui il successo è prendersi tutto senza dare niente, o perlomeno, senza rimetterci nulla. Tuttavia, “Il gioco sbagliato” — lontano dall’anticipare certe posture woke d’importazione — è perfettamente inquadrato dal coro di personaggi facili all’illusione e maldisposti a considerare il peso delle proprie azioni che animano gli altri racconti dell’antologia. Anzi, caricando al massimo il potere disorientante del proprio narratore/Doppelgänger mentre reitera indizi circa la sua limitatezza, Raimo ricrea la matrice dei suoi tanti personaggi intenti a raccapezzarsi.
Raimo è incline a certi gesti che non mancano di infastidire una sensibilità femminista — tra tutti, una sorta di “mistica uterina” per cui a ogni personaggio femminile in età fertile corrisponde una gravidanza indesiderata o anelata senza successo, o in alternativa, e in ciò risiede il rilievo narrativo, la scoperta del sesso e della masturbazione —, che sono anche, soprattutto, un’utile lente di ingrandimento sugli effetti nocivi che l’educazione “patriarcale” dei maschi ha, in primo luogo, sui maschi stessi.
C’è l’attaccamento al culto della virilità per cui l’uomo esce e combatte, anche a costo di inventarsi guerre esterne all’istituzione dell’esercito: lotte armate (ordite o studiate sui libri), manifestazioni finite a manganellate (prese o raccontate), le rapine, le zuffe e gli assassinii, la concorrenza accademica e le missioni in notturna, il poster di Muhammad Ali in cameretta. Ci sono l’intrusione forzata nell’armonia femminile del fidanzato conteso in “Quel fiore siete voi”, l’ansia totalizzante davanti al “mistero” delle compagne amate che spariscono in “Cassius Clay” e “Il cielo stellato lontano da noi”, o il terrore per gli effetti che può avere l’ira di una compagna di classe in “Bifida”. C’è l’omosocialità che tiene al sicuro dalle responsabilità familiari in “Niente più culto dei morti nell’Italia del Novecento”, e l’ospitalità segregata e puzzolente, “per soli uomini”, in “Calvino contro Pasolini”. Le conseguenze della paternità sono misconosciute in “Le cose”, e ovunque la genitorialità è un problema situato altrove: non ci sono parti, non ci sono lattanti, i nonni muoiono. Il presente (narrativo) appartiene al sesso, e la vita che verrà è potenziale, non programmatica.
Eppure, Raimo è ben capace di ritrarre uomini romantici, innamorati, volenterosi di darsi nel sesso — che, peraltro, anche nelle sue descrizioni più esplicite non scade mai nell’ostilità pornografica — capaci di impegnarsi per la donna che desiderano e amano. E in generale, il pregio di Raimo è mostrare uomini normali vivere, essere se stessi a prescindere, al di là delle azioni che compiono. Nessuno è salvato dall’amore di una donna, qualcuno si salva da solo concedendosi di amare, alcuni ci provano, senza troppo sforzo e con scarso successo, e sopravvivono lo stesso. A una veduta d’insieme, le disavventure dei personaggi di Raimo sembrano mettere in pratica l’avvertimento articolato dalla teorica femminista statunitense bell hooks nel suo saggio del 2004 The Will to Change. Men, Masculinity, and Love (“La volontà di cambiare. Uomini, mascolinità e amore”):
Nella cultura patriarcale ai maschi non è permesso semplicemente di essere ciò che sono e di gioire della loro identità distintiva. Il loro valore è sempre determinato da ciò che fanno. In una cultura antipatriarcale i maschi non devono dimostrare la loro qualità e valore. Sanno dalla nascita che il semplice fatto di essere dà loro valore, il diritto di essere apprezzati e amati. [traduzione mia]
Condannati a nascondere debolezze, depressioni, incertezze e sentimenti in nome di un orgoglio ideale — la tesi principale di bell hooks è che “gli uomini bramano l’amore”, ma devono capirlo da sé — gli uomini di Raimo illustrano un momento precedente la presa di coscienza. Fotografati un secondo prima dell’attimo di grazia, non resta loro che dolersi per tanta sventura.