T ra le località di Lowestoft e Southwold, che dall’East Anglia si affacciano sul Mare del Nord, passava un sentiero – il Suffolk Coastal Path – sul quale, nell’agosto del 1992, camminò W.G. Sebald. Oggi quel tratto di sentiero non esiste più: per effetto dell’erosione, che la costa del Suffolk subisce più di ogni altro luogo del Regno Unito, il sentiero è scomparso con l’arretrare della falesia. Per chi oggi volesse raggiungere Southwold è necessario camminare per una ventina di chilometri lungo la spiaggia, a tratti larghissima, da cui spunta una vegetazione quasi desertica. Dalla ghiaia di cui è composto il terreno, non è raro veder spuntare i resti di quello che fu il sentiero, precipitato dalla falesia e anch’esso nel processo di uniformarsi, per la degradazione dovuta alle maree, al sole e al vento, alle rocce clastiche, incoerenti e psefitiche tutt’attorno.
Nei tratti in cui dalla spiaggia si riesce a risalire sulla falesia, si nota che ciò che non è ancora riuscito all’erosione è venuto ugualmente bene all’incuria, e al percorso, anche là dov’è tuttora riconoscibile, resta poco da vivere, soffocato com’è da rovi e ortiche.
Sono questi alcuni degli avamposti evanescenti che componevano il viaggio a piedi di Sebald attraverso il Suffolk e il Norfolk, due contee periferiche e provinciali dell’Inghilterra orientale. Sebald, che insegnò all’Università dell’East Anglia a Norwich fino alla sua morte nel 2001, raccolse nel libro Gli anelli di Saturno le impressioni e meditazioni di quello che il sottotitolo definisce un “pellegrinaggio”. L’oggetto era l’impermanenza delle cose, la loro fragilità, l’onnipresenza della distruzione – come forma di lento deterioramento, come esplosione cataclismatica di violenza, o anche come presenza, pur oscura e velata, di un elemento perturbante e ostile in seno alla natura. Ventisette anni più tardi, lo stesso processo catastrofico è più evidente che mai in questa terra che, bizzarramente, ne accumula l’operato millenario in forma di naturalia e artificialia ridotti a rottami, come in una Wunderkammer dell’entropia a cielo aperto, un nocturama di aberrazioni, errori storici, rovine, lapidi neglette, nature più che morte marcescenti, ideologie deleterie e altri capolavori di stranezza.
Il giorno in cui arriviamo a Lowestoft vede il picco dell’ondata di calore che ha colpito l’Inghilterra a fine agosto, nell’estate delle temperature più alte mai registrate. È anche una bank holiday, il che falsa la nostra percezione del luogo, che non si offre immediatamente a noi nello sfacelo in cui invece lo colse Sebald. Ma basta che scenda la sera perché Lowestoft venga nuovamente disertata, così rivelando la sua vocazione al vuoto da località turistica che vive a intermittenza. Il contrasto tra le assolate immagini dell’affollamento diurno e la solitudine della notte è marcato; come ai tempi di Sebald, restano accese soltanto le insegne al neon di ricevitorie del lotto e sale giochi.
Dalla falesia che segue la costa, scendendo verso Southwold, fuoriescono le radici degli alberi di Covehithe che crescono a un passo dallo strapiombo, prossimi alla caduta e molti già precipitati. Ignoro quale sia il tempo di persistenza dei tronchi morti sulla spiaggia, sbiancati dal sole, dal sale e dall’acqua, ma, constatando il numero di fusti semisepolti e rami scheletrici, condivido l’impressione di Sebald di muovermi nel cimitero rarefatto “di qualche specie ancora più imponente dei mammut e dei dinosauri”, a firma di un processo di estinzione antico come il mondo stesso.
Certo si potrebbe obiettare che serve una qualche predilezione per il sinistro, il macabro e il deforme per cogliere, del paesaggio, soltanto questi aspetti.
Secondo Sir Thomas Browne, nume tutelare di Norwich nonché compagnia spirituale del viaggio di Sebald, “ogni conoscenza è avvolta da un’oscurità impenetrabile” e perciò il mondo in sé ci è essenzialmente negato. Ai tempi dell’eclettico pensatore seicentesco, che coniugava teologia e scienze naturali, ermetismo e archeologia, Norwich era ancora un grande centro manifatturiero nonché la seconda città più importante dopo Londra. Il suo decadimento inarrestabile sarebbe iniziato con la rivoluzione industriale, e già Browne, eternato da una statua nella posa del melanconico, mostrava un netto interesse per il processo che porta le cose a disfarsi. Ma il tentativo di comprendere il perché di quella che chiamava “the catastrophe of this great piece” è minato in partenza.
“Ciò che percepiamo” – così lo riassume Sebald, che ne condivideva il riduzionismo delle capacità umane – “sono solo luci isolate nell’abisso dell’ignoranza, nell’edificio del mondo investito da fitte ombre. Noi studiamo l’ordine delle cose” prosegue, e infatti Browne si dedicava alla ricorrenza di motivi geometrici quasi archetipici nella natura e nella simbologia umana per scorgere la firma di un demiurgo, “ma il progetto cui esso si ispira […] non lo comprendiamo. Per questo possiamo scrivere la nostra filosofia solo in lettere minuscole, nelle abbreviazioni e negli stenogrammi della natura effimera, sui quali soltanto si posa il riflesso dell’eternità”.
L’essere umano, anch’esso vittima del moto universale di annichilimento, può solo osservare il mondo e la storia che si sgretolano attorno a sé in un “lento avvitarsi […] nell’oscurità”, come se abitasse precariamente un “camposanto sterminato per un’umanità afflitta da mal caduco”, mentre su ogni livello d’esistenza, nell’infinitamente piccolo così come nel macrocosmo, cala la falce di Saturno. Sebald, che ancora poteva camminare sul Suffolk Coastal Path tra Lowestoft e Southwold, già presagiva il radicale tasso di trasformazione del paesaggio in continuo divenire. È “solo questione di tempo” scrive, e “prima o poi in una notte di burrasca il banco di ghiaia si dividerà e l’intera contrada cambierà aspetto”.
È ciò che è già successo, più a sud di Southwold, nella località di Dunwich. Il nome sarà familiare ai lettori di Lovecraft, il quale, in un’omonima e immaginaria cittadina del Massachusetts, ambienta, appunto, The Dunwich Horror, uno dei testi più importanti del Ciclo di Cthulhu. La Dunwich del Suffolk non ha nulla da invidiare alla sua controparte lovecraftiana in termini di decadenza, di weird e di eerie. Come R’lyeh, la città-cadavere sommersa dove Cthulhu “sogna e attende”, anche Dunwich, un tempo uno dei principali porti europei, è largamente sprofondata nel mare che avanza, il che porta a chiedersi se e dove si arresterà il processo che divora la costa inglese. “Una volta” riporta Sebald, “qui c’erano più di cinquanta chiese, conventi e ospedali, cui andavano aggiunti i cantieri navali e le fortificazioni, una flotta da pesca e una commerciale con ottanta imbarcazioni e decine di mulini a vento”. Ora tutto questo giace sul letto del mare, che presto o tardi reclamerà anche ciò che resta di Dunwich, ossia le rovine di un monastero francescano, a pochi passi dalla falesia.
Bastò una tempesta a inabissare la città, la notte di Capodanno del 1286. Fu talmente violenta che “per mesi nessuno seppe più dire dove fosse la linea di demarcazione fra la terra e il mare”, tale era stato l’effetto di trasformazione sul paesaggio. La città, strategica per i commerci col continente europeo, venne ricostruita, ma già nel gennaio del 1328 una nuova tempesta, seguita da una marea catastrofica, si riprese tutto, e da allora nessuno più tentò di insediarsi qui. Restano queste rovine a monito di cosa significhi vivere sull’orlo della catastrofe permanente.
Fu una meta canonica per i romantici inglesi. Il poeta Algernon Swinburne era fra coloro che tra le rovine di Dunwich cercavano l’ispirazione, ed è qui che si è costruito il sentimento dell’eerie. By the North Sea è una lirica di Swinburne sul palpabile senso di assenza e di perturbante dissolvenza nel nulla. “Like ashes the low cliffs crumble” scrive, “and the banks drop down into dust”. Sono versi da leggersi come una meditazione universale sull’ostilità fondamentale della natura, il suo rivelarsi, dove noi non siamo o non siamo più, in forme incomprensibili e perverse, tentacolari e nebbiose, come il limaccio di brughiera nel quale qui affondano i piedi, la caligine su un mare che Swinburne definisce “stranger than death”, o la proliferazione di enormi funghi – molti dei quali in realtà commestibili – che crescono ai bordi del sentiero, e che se nessuno raccoglie è perché qui ormai non viene più nessuno. Non solo gli abitanti di Dunwich, persino i suoi ammiratori si direbbero estinti.
Tutto qui testimonia lo scontro tra la natura e quella “forza psicozootica” che è l’agente umano – dai cimiteri navali dove i pescatori nel corso dei decenni hanno abbandonato le barche con cui conducevano la pesca delle aringhe, che di tanto in tanto le maree riversano sulla battigia in un’“eccedenza quasi catastrofica” a putrefare, alle “aree fitte di alghe velenose, estese per parecchie miglia quadrate e profonde una trentina di piedi”, fino alle migliaia “di tonnellate di mercurio, cadmio e piombo” e alle “montagne di fertilizzanti e pesticidi” che ogni anno si riversano “nelle acque poco profonde del Dogger Bank, dove un terzo dei pesci viene già al mondo con strane deformità e magagne”.
Oltrepassata Dunwich, il paesaggio muta nuovamente e offre scorci diversi e sorprendenti. Un mare sconfinato di brugo, pianta per eccellenza della brughiera, regala la surreale impressione di trovarsi in un luogo alieno color malva. Più in là, ritrovato il sentiero, si accede alla riserva naturale di Minsmere, dove tutto è brullo e rarefatto e gli unici veramente a proprio agio sono gli uccelli migratori che giungono qui a nidificare. L’avocetta, il totano moro, il piovanello pancianera, la rondine di mare, l’alzavola eurasiatica, l’usignolo di fiume, la pittima reale sono nomi che suggeriscono una biodiversità estranea, ricca e inaccessibile, che al nostro passaggio si alza in volo e si disperde come la linea dell’orizzonte, restituendo alla terra un volto arido e spoglio.
Joseph Conrad – uno dei tanti personaggi degli Anelli di Saturno – conosceva bene questa costa. Prima di partire per la spedizione – o meglio, la discesa agli inferi – in Congo da cui trasse Cuore di tenebra, trascorse qualche mese come marinaio di spola tra Newcastle e il Suffolk. Lo stesso Cuore di tenebra inizia qualche miglia più a sud, sull’estuario del Tamigi nei pressi di Essex, dove il narratore ricorda come un tempo, all’epoca della conquista romana, queste terre acquitrinose e salmastre fossero ancor più evidentemente “a place of darkness”.
E originario del Suffolk era il compositore Benjamin Britten, che più volte tematizzò questi paesaggi nella propria musica (per esempio tratteggiandoli nei Four Seas Interludes, o introiettandone la malinconia in Lachrymae). Scendendo lungo la spiaggia di ghiaia da cui spuntano ciuffi martoriati di cavolo marino, poco prima della sua Aldeburgh si scorge un bizzarro monumento, in forma di mastodontica conchiglia, che si erge dal pietrame. Scolpito in acciaio inossidabile da Maggi Hambling e inaugurato nel 2003, è un omaggio al compositore. Si ispira a un verso tratto dalla sua opera Peter Grimes che recita “I hear those voices that will not be drowned” (Sento quelle voci che non verranno annegate) e che si trova inciso sulla conchiglia in direzione del cielo. La forma scelta suggerisce la possibilità della sopravvivenza nella secca figura del fossile, una non-vita immortale, e stagliandosi nel mezzo del paesaggio lunare contro il cielo sembra – più che una sfida – una disperata preghiera che qualcosa, di tutto, rimanga.
Suggerendo di decentralizzare il ruolo umano nell’universo, Lovecraft attraverso i suoi scritti tentava di scavalcare la “linea che si affaccia sullo sconfinato e ripugnante abisso dell’ignoto” e “ricordarci di lasciare la nostra umanità, e la nostra appartenenza alla Terra, sulla soglia”. In questo senso, il Suffolk – non a caso scelto da Sebald come meta del suo pellegrinaggio – presenta una sorta di testo vivente, di testimonianza cangiante e al di qua dei filosofemi di ciò a cui assomiglia il mondo-senza-di-noi, il volto della natura che svela la propria inabitabilità e la propria incostanza. Più efficacemente di esperimenti del pensiero e proiezioni scientifiche, questa regione pare una sorta di involontario modello in scala dell’“ultimo residuo di quella Terra che lentamente macina se stessa”, come la definì Sebald.
Si pensi che il bosco di Randelsham, attorno alla riserva naturale di Orford, venne interamente abbattuto da un vento tremendo nella notte tra il 16 e il 17 ottobre 1987. Racconta Sebald che all’epoca “perirono oltre quattordici milioni di alberi già adulti”, che “interi boschi si curvarono come spighe in un campo di grano”.
Dopo l’evento, prosegue Sebald, “sempre più forte era l’impressione di vivere ai margini della steppa. Là dove ancora qualche tempo prima gli uccelli sul far del giorno cantavano così numerosi e tanto forte che bisognava a volte chiudere le finestre […], adesso non si percepiva più alcun suono, alcun segno di vita”. Oggi il bosco di Randelsham è stato ripiantato dall’intervento umano, ma, come tutto da queste parti, la sua esistenza resta precaria, se la storia di Dunwich insegna qualcosa.
Il volto occulto della natura suscita l’orrore atavico dell’incomprensibile, ma è anche vero che a volte può funzionare come nascondimento per celare, a sua volta, altri segreti. A partire dal dicembre del 1980, si concentrarono in questa foresta il maggior numero di avvistamenti ufologici di tutto il Regno Unito. Un residente di un villaggio limitrofo raccontò di aver visto una sagoma come d’un fungo rovesciato nel cielo sopra il suo giardino. Nella stessa notte, due ufficiali dell’United States Air Force, di guardia all’ingresso orientale di una delle tante basi militari della zona, riportarono luci insolite e apparentemente inspiegabili che si spostavano nella foresta.
Pare che questi avvistamenti non furono mai approfonditi: era la Guerra Fredda, e da queste parti c’è ancora, eredità dell’epoca, un Secret Weapons Research Establishment nascosto nella riserva naturale di Orford. Si dice che vi siano state testate “armi biologiche tali da rendere inabitabili intere contrade” – così leggo su Sebald – in una terra in cui i danni di un esperimento di questo genere passerebbero inosservati anche ai pochi che si spingessero all’interno della riserva. Si parla di “uno spaventoso incidente”, di piani per l’evacuazione di massa e di altri fatti inquietanti su cui a tutt’oggi aleggia il segreto militare.
Più a nord di Orford e di Aldeburgh, sulla spiaggia di Sizewell, si trova una centrale nucleare che si può scorgere a molte miglia di distanza e che da lontano può sembrare un enorme planetario, un osservatorio astronomico o un edificio di culto. E non è tutto: oltre ai dischi volanti e all’Area 51 del Regno Unito, è in queste zone che è nascosta una parte dell’arsenale nucleare britannico, e infatti anche senza deviare dal sentiero “ci si imbatte a ogni piè sospinto nei cancelli delle caserme e in aree recintate dove […] sono ammassate le armi con le quali, in caso di necessità, si potrebbero ridurre […] interi paesi e continenti a cumuli fumanti di pietre e cenere”.
Non è una novità per l’East Anglia. È infatti da qui che partirono, durante la Seconda Guerra Mondiale, gli aerei per le operazioni di area bombing che rasero al suolo Norimberga, Colonia, Francoforte, Aquisgrana, Monaco, Dresda e altre ancora. Il grosso delle piste, come quella di Seething, a una passeggiata da dove viveva Sebald, è stato dismesso, ma ancora “tutto è lì, semidiroccato, in mezzo a un paesaggio dall’atmosfera spettrale”. Il loro mandante, l’allora Primo Ministro Winston Churchill, definì i bombardamenti “an absolutely devastating exterminating attack”, inteso non tanto a minare il morale tedesco (che secondo un bilancio della primavera del ’44 non era affatto abbattuto: la fine della guerra non si era avvicinata di un giorno e la produzione tedesca era stata appena scalfita, mentre era morto il 60% delle forze impiegate), quanto invece a far uscire la Gran Bretagna dalla condizione di impotente insularità a cui nel ’41 sembrava essere stata confinata.
È questo l’argomento di un altro libro di Sebald, Storia naturale della distruzione, in cui si interroga sul perché le immagini apocalittiche della Germania devastata dai bombardamenti a tappeto sembrano non aver lasciato traccia nella letteratura tedesca del dopoguerra. Vampe di fiamme di duemila metri, colonne di fumo alte quattro volte tanto, famiglie liquefatte nell’asfalto incandescente, ammassi di carne scioltisi nei bunker per effetto della temperatura infernale, città dominate da ratti e mosche, umani costretti a vivere sottoterra in “necropoli di un popolo sconosciuto, misterioso, sradicato dalla sua esistenza […] e dalla sua storia, risospinto al livello evolutivo dei raccoglitori nomadi” – tutto questo è passato nel silenzio.
Se in parte ciò si deve alla combinazione di senso di colpa nazionale e volontà di ricostruzione intesa anche a cancellare le tracce del passato, è pur sempre vero – dice Sebald – che la mente umana fatica a comprendere gli effetti di una simile devastazione, e immagini tanto traumatiche mettono in atto meccanismi di rimozione. La stessa idea di una “storia naturale della distruzione” venne allo scienziato Solly Zuckerman, che era stato consulente in quelle operazioni di bombardamento che il loro comandante, Sir Arthur Harris, intese come pratiche di annichilimento del nemico – la “distruzione per la distruzione”. Zuckerman, rientrato a Londra dopo aver visto cosa ne era stato di Colonia, ne parlò a Cyril Connolly, editore di una rivista che gli commissionò un pezzo su questo tema. Sebald lo intervistò negli anni Ottanta su cosa avesse voluto metterci dentro, ma Zuckerman non ricordava più, tanto il volto della distruzione pura si scontra con la capacità cognitiva umana.
Nel “moto accelerato della catastrofe” scriveva Alexander Kluge, “il tempo normale e “la metabolizzazione del tempo” non corrono alla stessa velocità”. Soltanto col senno di poi riusciamo a pensare a cosa avremmo dovuto fare, se ce ne fossimo accorti per tempo. Ma si tratta anche di un meccanismo di sopravvivenza. Proprio perché la catastrofe, di qualunque genere, porta la mente umana ai propri limiti (scrive Sebald che essa disvela l’orrore del “punto in cui noi, da quella che per tanto tempo abbiamo creduto la nostra storia di soggetti autonomi, ricadiamo nella storia della natura”), siamo portati a difenderci. Non è un caso – né era solo propaganda – che nei momenti di massima gravità le radio del Terzo Reich trasmettessero Strauss, o l’Aida. Proseguire nei riti, nella miopia delle abitudini anche di fronte al disastro, è in fondo una maniera per mantenere la lucidità là dove l’alternativa, superato il confine lovecraftiano, è l’Orrore, lo stesso che riecheggia dalle parole di Kurtz al termine di Cuore di tenebra.
L’ultima tappa del nostro viaggio è a Poringland, tra le campagne a qualche chilometro a sud di Norwich. Il sito literarynorfolk.co.uk lo descrive come “un villaggio privo di attrattiva”, con “poco carattere”, ed è qui che ha vissuto Sebald fino alla morte. Lo definì, in una delle interviste ne Il fantasma della memoria, un posto “decisamente isolato”, e “per quanto mi riguarda” aggiunse, “mi sento molto meglio lì che altrove, dove mi troverei al centro delle cose. Mi piace restare ai margini, se possibile”. La sua vedova, ci dicono, si è trasferita in un altro villaggio, ma la sua tomba si trova in cima alla collina, accanto alla chiesa di St Andrew.
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