D ovremmo semplicemente ignorare la fine del mondo?” si chiede Mark O’Connell all’inizio del suo ultimo libro, Appunti da un’Apocalisse (il Saggiatore). Concepito in un periodo di ansie e presagi, questo libro è un viaggio in luoghi dove le manifestazioni della fine sono particolarmente evidenti: quasi in un tentativo di esorcismo delle proprie angosce, O’Connell si immerge nei video youtube dei prepper – movimento di persone che si preparano a un collasso della civiltà –, va in Dakota del Sud per visitare un ex deposito di munizioni dove sorgerà una comunità survivalista di lusso, per poi proseguire i suoi “pellegrinaggi perversi” in Nuova Zelanda, nelle Highland scozzesi, fino a Černobyl’.
Dopo aver tradotto Appunti da un’Apocalisse, mi sono accorta che nei mesi successivi ho ripensato spesso a certi passaggi, a certe immagini, all’idea che l’ossessione per la fine dei tempi sia stata, in ogni epoca, affascinante e spaventosa, in certi casi una maniera per dare spazio all’utopia. Ne ho parlato con il suo autore.
Togliamoci subito un peso: partiamo dalla pandemia. In Appunti da un’Apocalisse l’ipotesi che un virus possa portare alla fine del mondo compare solo di sfuggita, come una possibilità remota. Il tuo libro è stato pubblicato poco dopo lo scoppio della pandemia, quando si faceva un gran parlare di apocalisse. Com’è stato per te vivere l’uscita di un libro del genere in una situazione del genere?
Provo a mettere in prospettiva Appunti da un’Apocalisse: prima di questo hai scritto un breve libro sulla storia culturale del fallimento e un lungo reportage sul transumanesimo, quel “movimento basato sulla convinzione che potremmo e dovremmo usare la tecnologia per allontanare i limiti della condizione umana”, per usare una tua definizione, un movimento di persone pronte a potenziare i propri corpi innestandosi dei microchip o facendosi criogenizzare. Mi sembra che in tutti e tre i libri, comunque, ci sia un’intenzione, da parte tua, di esplorare il concetto di limite. È questo che li unisce, che ti interessa?
Il tuo è uno stile comico, ma anche introspettivo. Nei reportage incontri personaggi spesso folli o eccessivi, penso per esempio a Robert Vicino, “l’impresario dell’apocalisse” che vende bunker di lusso sepolti in una pianura sterminata in Dakota del Sud. Lo presenti come una figura mefistofelica: immenso, con la faccia butterata e il pizzetto grigio. Ma persino in un personaggio come il suo provi a riconoscere le tue paure, nei suoi conflitti.
Anche da un punto di vista umano, se passi una settimana in compagnia di una persona che ti permette di entrare nel suo mondo, poi non vuoi fare lo stronzo. Ci sono eccezioni, certo, persone di cui altrimenti offriresti una falsa immagine – Robert Vicino è un esempio piuttosto evidente. È alto più di due metri, parla della sua Lexus tutto il tempo, ovviamente è ridicolo. Ma in generale credo sia impossibile essere davvero divertenti, se non si prendono le cose sul serio. Quando lavoro a un libro o a un articolo, scrivo sempre con assoluta serietà. Il risultato, quando è positivo, può essere deprimente, far riflettere, ma può essere anche molto divertente.
A un certo punto di Appunti da un’Apocalisse vai in Nuova Zelanda sulle tracce di Peter Thiel, una delle persone più ricche e potenti della Silicon Valley, tecnolibertario senza scrupoli. Racconti come ha ottenuto la cittadinanza neozelandese con metodi non trasparenti per comprarsi una grossa tenuta, lontana da tutto, dove rifugiarsi in caso di un collasso sistemico. L’impressione, scrivi, è che “i salvati, alla fine, saranno quelli che potranno permettersi la salvezza premium”. Thiel appariva anche nel tuo libro precedente, ma sempre come figura astratta, un simbolo. È perché è impossibile scrivere davvero di un personaggio larger than life come lui?
E gli altri personaggi? Ci sono i prepper, quella “sottocultura composta quasi esclusivamente da maschi bianchi americani convinti che il mondo intero fosse sull’orlo di una gigantesca rottura sistemica” e che quindi si preparano per affrontarla, e poi gli aspiranti colonizzatori di Marte, e tutti insieme sembrano quasi formare un coro greco dell’apocalisse, dove si alternano momenti di satira, critica politica, anche poesia.
Così, per questo libro, volevo trovare idee e pensare le idee attraverso i posti. Volevo pensare all’apocalisse seduto sulla riva di un fiume nelle Highland scozzesi, oppure rimuginare sui miliardari della Silicon Valley dalle sponde di un lago neozelandese, oppure nel bel mezzo di un immenso campo costellato di bunker in Dakota del Sud. Volevo andare in posti dove il paesaggio potesse parlarmi di quelle idee e poi scriverne. So che è terribile da dire, da un giornalista, se così posso descrivermi, ma: non mi piace raccogliere troppo materiale. Dipende da quello che scrivo, ovviamente, se sto lavorando a un pezzo per il New Yorker raccolgo moltissimo materiale, ma ho comunque un istinto che mi dice di fare il meno possibile, stare in attesa, e vedere cosa mi porta la corrente.
Questa sensazione che tu stai fermo ad aspettare si sente in alcune parti del libro, in particolare ovviamente nella spedizione in solitaria nelle Highlands, dove hai trascorso ventiquattro ore isolato nella natura, oppure quando partecipi a un tour turistico di gruppo a Černobyl’, dove un’Apocalisse è già avvenuta, e non resta che contemplare gli strascichi. A proposito di Černobyl’, è interessante perché la descrivi, e in effetti era stata progettata, come città ideale in epoca sovietica, ma ora è invasa dagli influencer. Si può dire che il tuo libro è un libro su come il capitalismo cerca di normalizzare/riassorbire anche una cosa irrimediabile come l’apocalisse?
Nonostante io mi consideri un socialista, mi affascina molto come la gente fa soldi. Mi piace l’interazione di una persona che prova a venderti qualcosa. E a Černobyl’ succede di continuo. È davvero il capitalismo che sfrutta la catastrofe. Ma, appunto, non voglio nemmeno puntare il dito… Quando stavo scrivendo il libro, il mio editor americano verso la fine mi ha detto che potevo dimezzare il numero di volte che citavo il capitalismo; mi ha detto che tendevo a indicarlo come la causa di tutti i nostri mali; e forse è così, ma ovviamente è anche più complesso di così. Alla fine, nella revisione al libro, ho tolto un po’ di riferimenti al capitalismo.
Una delle cose interessanti che emerge dalla tua ricerca è un doppio movimento tra passato e futuro. Alcuni di questi personaggi sono reazionari, sognano il ritorno a un passato ideale, mentre altri – come gli aspiranti colonizzatori di Marte – sono tutti rivolti verso il futuro, sono estremamente progressisti, almeno in apparenza.
C’è invece qualche visione davvero nuova e radicale tra quelle che hai scoperto?
Tra le storie del tuo libro direi il Dark Mountain Project e tutto quel movimento di riavvicinamento alla natura selvaggia.
Un po’ perché quel capitolo in cui visiti la riserva naturale di Alladale, in Scozia, è la parte che mi ha colpito di più a livello emotivo: è luogo pieno di contraddizioni perché è stato sventrato sia dall’industrializzazione sia dal colonialismo, e adesso è stato comprato da un magnate inglese allo scopo di rinforestarlo e reintrodurre le specie animali. L’idea del Dark Mountain Project è che il nostro posto come umani non sia al centro della natura, che la natura non trae significato da noi. Lo spaesamento completo che provi davanti alla natura, la montagna che a un certo punti ti sembra trasformarsi in un animale vivo, che respira, il ritornello in cui ti chiedi “Chissà se saremo dei bei fossili”: sono delle immagini a cui ho ripensato spesso dopo aver finito la traduzione. I prepper, invece, dopo la pandemia li vedo in un’ottica diversa: all’inizio sembrano una setta, usano questo linguaggio molto specifico, quasi alieno: lo zaino “prendi e scappa”, lo “scenario SHTF” [in cui ci si ritrova nella merda fino al collo], “un mondo WROL” [dove sono saltate tutte le leggi]. Ma in una certa misura tutti abbiamo scoperto che in una situazione di pericolo abbiamo l’istinto di accumulare scorte di cibo, di allontanarci dalle città che ci sembrano più pericolose della campagna. Mentre l’esperienza della natura selvaggia mi sembra più radicale e nuova anche perché, come scrivi, abbiamo perso i riti, come civiltà, le tradizioni che ci mettevano in relazione alla natura.
L’intuizione che noi, come cultura, abbiamo perso i riti è sua. Ed è bravissimo a inventarsi dei rituali improvvisati. È una persona molto carismatica, cambia l’umore della stanza. Per me è stato davvero interessante perché ho capito che nella mia vita non avevo mai vissuto dei riti. Non sono stato cresciuto in modo religioso. Sono irlandese, quindi ovviamente il cattolicesimo era sempre lì, ma nella mia famiglia non è mai stato preso particolarmente sul serio. Ma sento che c’è qualcosa di vero e urgente in quest’idea che come civiltà, in Europa e in gran parte del mondo, non abbiamo più dei riti che ci permettano di collegarci a qualcosa di più vasto – nel nostro caso la natura. Sì, è un’idea radicale e che mi sembra molto contemporanea. Molto urgente, al momento.
Traducendolo non riuscivo a inquadrare Appunti da un’Apocalisse in un genere specifico: reportage, saggio di antropologia, romanzo distopici, fantastico, d’avventure. C’è stato qualche modello particolare che hai seguito per questo libro?
Poi Don De Lillo è un’altra influenza enorme. A volte mi paragonano a De Dillo, che è molto gratificante – ma sai come funziona, basta che qualcuno ti paragoni una volta a De Lillo perché gli altri poi riprendano il parallelismo. Lui di sicuro è stato un’influenza enorme per me, comunque, rileggo spesso le sue opere. Per entrambi i miei libri, in effetti, ho riletto Rumore bianco – che è un libro decisamente apocalittico – e Underworld e Libra, perché sono tutti infusi di una sensazione di paranoia e fervore apocalittico. Lo considero un nume tutelare.
Poi Jon Ronson [giornalista e documentarista britannico]. Mi paragonano spessissimo a Jon Ronson, che ha scritto libri come Psicopatici al potere. Capisco il perché del paragone, perché anche lui scrive di figure piuttosto estreme. A volte mi definiscono un Jon Ronson più pretenzioso, e mi sta bene.