C’ è una pagina, tra le tante sorprendenti, di quel gioiello di stile e memoria che è Un uomo finito, in cui Giovanni Papini racconta le sue scorribande intellettuali giovanili, quelle che precedono o accompagnano la creazione della rivista Leonardo. In una di quelle, c’è un’immagine che mi ha tormentato un po’ per anni. Racconta lo scrittore di essersi recato sulle vette del Pratomagno in compagnia di amici – ne parla anche in alcune corrispondenze coeve, se non sbaglio – e lì, tirato su o forse trovato un muretto di sassi per ripararsi dal vento, avrebbe declamato all’impazzata, chissà sotto l’effetto dell’hashish al quale pare non fosse estraneo, le parole dello Zarathustra.
Quel libro di Papini è in sé un grande iniettore di immagini sulla figura dello scrittore, una sorta di cinetoscopio della Vita divenuta Opera divenuta uno strano Tutt’Uno Instabile e Gorgogliante, pieno di successi ma anche di fallimenti, di smanie esistenziali e di peccatucci, di costanti conversioni, destinato in parte all’oblio proprio per questi suoi errori, erranze – e per questo chiamò Concerto fantastico il faldone dei suoi racconti, da lui stesso auto-antologizzati, quel mix di favole filosofiche, allegorie morali, embrioni di poemi in prosa, capricci umoreschi o metafisici…
Per un certo periodo, influenzato anche da un paio di pagine autobiografiche altrettanto fenomenali del suo partner in crime Ardengo Soffici – pagine dense di quello che mi è sempre parso un avanguardismo rurale tutto toscano, che ritrovai anche nelle algide campagne del babbo raccontate sempre in Un uomo finito, e quindi travasate tra le tele ancora più algide di un Ottone Rosai, ma già in precedenza nell’amato Tozzi – ho persino immaginato di organizzare una sorta di impossibile pellegrinaggio, o meglio perlustrazione, rigorosamente da solo, come seguendo l’imperativo nicciano Oh, Zarathustra, tu devi camminare camminando come l’ombra di ciò che deve giungere…
Zaino in spalla, o meglio nella bauliera dell’auto, passando per l’A1 verso Arezzo, ecco l’uscita per Figline Valdarno, e poi su per la strada della Penna, arrivando attraverso le curve strette dalla Panoramica in mezzo alla verzura, fino alla celeberrima Croce: avrei parcheggiato, e mi sarei inoltrato fino alla struttura rossa che svetta, guardandomi attorno, alla ricerca di un resto di muretto zarathustriano (che tutt’oggi avrei sperato resistente lì alle folate). Come un antropologo, chissà un archeologo alla ricerca di una civiltà ignota, o forse un geologo, nella divinazione di quelle stesse rocce ritrovate, avrei interpretato il segno inesorabile del tempo che era passato tra me e l’autore, tra me e le sue pagine un po’ ingiallite e dimenticate nelle vecchie edizioni mai più ristampate. Dove sarebbe stato il muretto di sassi sul quale Papini posò il suo sguardo obliquo e particolarissimo, il suo ricciolo incostante, la sua bocca come di rosa appassita, la sua faccia sghemba, futurista ante litteram, già geografia di un inquieto vivere e pensare che nell’invecchiare sarebbe diventata ancora più maschera accogliente di ubbie, cedendo?
Si sarà spostato più verso Cetica? O al di là del Varco di Gastra? Di sicuro, nella lettura integerrima di Nietzsche, la notte l’avrà raggiunto come una coperta inaffidabile assieme al freddo più assiderante, ma lui avrà continuato a declamare al vento di grecale, anche solo per riscaldarsi, le parole di Zarathustra, Io sono un viandante e un valicatore di monti… Papini declamava e gridava, nel buio del Pratomagno: io non amo le pianure e sembra ch’io non possa starmi a lungo in un luogo!, and so on… Erano i primi del Novecento, avrei ponderato lì sull’erta. Di lì a poco quel muretto paravento si sarebbe idealmente trasformato in una trincea, andando più verso Redipuglia, le pallottole avrebbero sibilato tra i corpi e i fantasmi, e arrivederci Zarathustra, arrivederci giovanile Sturm und Drang, addio folle declamare: il cannone mangia tutto il suono possibile.
Credi tu di vivere? Di vivere veramente, profondamente, intensamente?
Solo qualche anno prima, d’altronde, il baffuto dell’Ecce Homo aveva cominciato a spedire da un inverno piemontese i suoi Wahnbriefe, i celebri Biglietti della Follia, imbucati dalla Posta centrale di Torino ai suoi contatti prestigiosi, al Burckhardt, al Brandes, a Strindberg, stenografando il proprio crollo mentale, firmandosi e controfirmandosi il Crocifisso, l’Anticristo. Papini tenne forse conto di questo epilogo, mentre declamava le profezie sul Pratomagno, forse alla ricerca anch’egli di un disperato anelito di follia, al quale apporre una firma in calce: Gian Falco, o Gherardo Solingo, quel suo personaggio-alter ego che vive da solo perché uccide le persone a lui vicine con la sua sola presenza…
Avrei così vagato ancora un po’ per i sentieri imbruniti dell’inverno, e avrei poi desistito dall’impresa di trovare i ciottoli, i resti, del mio scrittore, come fossero una sorta di cenotafio diroccato. Magari affamato o assetato avrei persino pensato di andare a mangiare un boccone giù nelle trattorie locali, per poi nel pomeriggio, rasente l’oscurità, ritornare da solo, clandestino, con una torcia che avrei preso sempre dal baule della mia auto. Incamminandomi così per i sentieri di ritorno, incespicando qua e là, avrei incontrato non solo allegre famigliole aretine in gita (i Piccoli Vivi di cui parlò Papini?) – certo, non avrei scelto la domenica per l’impresa papiniana!, onde evitare di incrociare lo sguardo dei padri affaticati e dei bambinelli moccicosi – ma anche certi figuri solitari (i suoi Grandi Morti?), che procedevano spersi, alla chetichella, impegnati in un’impresa impossibile, alcuni intenti a biascicare impronunciabili domande da matti o da demoni, che in un briciolo di sanità si guardavano bene dal rivolgermi.
Credi tu di vivere? Di vivere veramente, profondamente, intensamente?
Cose così, dritte in faccia, fisse nelle pupille, che trovi nei suoi racconti.
Ti pare questa tua vita così bella e grande come forse sognasti nelle notti ardenti della giovinezza?
Tutto elettrizzato, avrei fatto ritorno all’auto parcheggiata.
Avrei ritrovato però un diverso Me stesso riflesso nello specchietto retrovisore, identico ma cambiato, mentre facevo retromarcia nella piazzola, per ritornare verso Firenze, la città, casa. Identico, ma cambiato, come in un sogno di doppelgänger. Altri occhi, i miei: un’altra profondità, delle nuove voci da svegliare.
Per potere veder molto è necessario dimenticare sé stessi, dice lo Zarathustra.
E io lì sulla vetta, con la smania del geologo e dello spiritista, nell’aguzzare troppo la vista avevo dimenticato me stesso, e avevo dimenticato che il Papini l’avevo pure odiato, se non proprio bandito dalle mie letture, in passato. Ero io il convertito di Papini, il perennemente convertito?
Certe non felici scelte politiche, benché relative all’epoca, il piacere ostentato dell’invettiva costante, misto alla stessa incostanza del pensiero, il suo prestarsi all’eresia, e però il bisogno di rifugiarsi sempre sul petto di un Cristo più o meno salvifico, me lo avevano reso, sì, molto odioso: il Cristo & il Diavolo, Parole & Sangue, certo, ma anche il fascismo, la testa chinata… Oggi quell’odiosità contraddittoria, pari a quell’andatura sempre riconoscibile e sempre di diversa specie nei suoi racconti, nell’evoluzione degli stessi, di raccolta in raccolta, me lo rendono unico, inimitabile. Da leggere, e rileggere, nelle sue andature.
Ti pare questa tua vita così bella e grande come forse sognasti nelle notti ardenti della giovinezza?
Ah, le andature del Papini! Sono in una foresta: le voci sono infinite: il fiore azzurro o la sorte dell’aquila, scrisse in una lettera a Prezzolini, dove l’autore si definiva a un tempo Mago, Poeta, Filosofo, Eremita e Suicida – a volte persino, l’Autore si dà dell’Imbecille, del Bischero, e in fondo: temo un nemico solo, che si chiama: me stesso, dichiara nelle Sverze di una vita.
Papini è, sì, per me, uno scrittore di selvatiche andature, un Kafka che cammina quando scrive, a braccetto con Jünger e Walser, e cerca di uscire dalla foresta di simboli del suo tempo – tempi confusi di scariche inquietanti improvvise, come i nostri, pieni di ansia e di frustrazioni pronte a detonare o a rimanere lì nocive, dove è facilissimo sbagliare. Non a caso fece colpo su un Borges – il Borges biografo del fantastico che io intravedo perfettamente nei Ritratti immaginari di Papini, per qualità e intensità. Mi è sempre parso che tutte le sue opere, le più confessionali o le più fantastiche, rivelino questo bisogno di camminare fuggendo, o sfuggevolmente, speditamente. Sarà per questo che i suoi racconti, ritratti e memorie, che si inoltrino nella campagna più ristoratrice o nell’urbanità più odiata, sono fatti di incontri e appostamenti, di una gnosi che procede per inciampi.
Ecco quindi il Demonio malinconico che si aggira per Firenze leggendo la Bibbia e disprezzando gli uomini per poi andarsene intristito guardando le stelle che cominciavano a tremare nel languido cielo della prima sera; o anche quello piangente, che si rivela tra realtà e sogno camminando sempre in una notte nei pressi delle campagne; o ancora il Principe Amleto incontrato sui Lungarni che rivela al narratore che è malato di spirito, e l’Ebreo naturaliter Errante incontrato a Venezia in una birreria, o anche quell’inquietante Mendicante di Anime che si apposta (!) come un ladro notturno o un aggressore tagliaborse ai crocicchi fiorentini, in attesa che passi l’uomo qualunque, l’uomo comune, dal quale implorare la carità di una confessione, per, in fondo, rubargli l’anima per invidia. Oppure, quasi sempre, nei racconti papiniani troverete qualcuno che parla attraverso vertiginose fughe del pensiero, la fuga delle sue parole rapide, scorrenti, salde, come fuse d’allora, come coniate di nuovo in qualche luogo, da poco tempo che ti riempie di un’ebbrezza molto simile a quella che dà lo champagne. Qualcosa di frizzante e di saltellante – un bisogno di abbracciare e di piangere, di danzare, di ridere a piccoli scatti…
Sono alcuni dei Personaggi e Specchi di Sé che Papini fa agire e aggirare nei suoi racconti: camminanti anche in quanto predatori, appostatori, amici infedeli, confessori impertinenti, tutti in giro, di giorno come di notte… Una mattina, uscendo di casa, mi accorsi d’essere accompagnato, a quella rispettosa distanza che non permette domanda di spiegazione, da un uomo sulla quarantina, chiuso in un lungo soprabito blù, allegro e sorridente (ma senza troppa esagerazione)… Personaggi alla costante ricerca di quell’Altra Parte, rispetto alle consuetudini, alla più evidente palpabilità della realtà specie cittadina, che è sempre uguale a se stessa, in particolare, diciamolo, se si è fiorentini, e ogni giorno si deve digerire il bolo dell’eterna pietra rinascimentale (cosa che può portarti anche alla follia): amo forse l’altra parte perché è l’altra – perché non è la mia, quella dove son costretto a tornare ogni notte, si legge nel racconto Il tre di settembre. Che mi capitò di leggere veramente dall’Altra Parte di Firenze, a Città del Messico, in una traduzione spagnola dall’edizione roboante: Papini, fino agli anni Sessanta del Novecento, seppi poi, faceva letteralmente furore in Messico, e in America Latina, e io ho ripreso a rileggerlo, ironia della sorte del convertito al culto papiniano, proprio in spagnolo, in una piovosa estate tropicale.
Sono in una foresta: le voci sono infinite: il fiore azzurro o la sorte dell’aquila.
Ma stavamo scendendo dal Pratomagno, con le pive nel sacco, no? Di ritorno in città. Giù per il viale dei Colli, dove la campagna si arrende alla preziosa apparecchiatura fiorentina. Mi sarei fermato magari in uno di quegli sgombri laterali e vedute dove ancora si può ammirare del selvatico, e solo più avanti e di sbieco i tratti arcinoti della città, gli arroganti Duomo, Palazzo Vecchio: avrei voluto stare un po’ solo e recuperarmi in qualche modo, fumando una sigaretta metafisica, prima di arrivare al Piazzale. Magari sognare anche di prendere la via della campagna, un viuzzo del Pian dei Giullari dietro di me, e come in Ai Poeti, andare per le strade deserte, con una paglia in bocca, pensando alle gioie lontane, alle amarezze lontane, sorridendo e sospirando al ricordo di parole che non saprei dire più…
Mi sarei ricordato però di quello scolaro intento, proprio lì sul viale dei Colli, a congiurare, che interrompe con la sua presenza la lettura fatta dall’io narrante del La persuasione e la rettorica di Michelstaedter, ne La rivolta dei ragazzi… e ovviamente il nome stesso di Michelstaedter, scolaro anch’egli a Firenze e poi morto suicida giovanissimo, associato a quello del Papini, mi avrebbe dato rinnovati brividi, ma non del freddo delle vette, quanto di quello che può coglierti per certe vie del pensiero, o meglio certi palazzi, se si spalancano troppe porte e finestre, e si crea un gran riscontro nelle stanze.
Sarei salito di nuovo in macchina, e parcheggiatala poi sui viali, mi sarei ritrovato a schivare le persone al semaforo di piazza Beccaria. Avrei pensato di essere in qualche modo in pericolo, e mi sarei messo a camminare per Borgo la Croce, abbassando lo sguardo, fino a raggiungere il barroccio di libri della Loggia del Pesce, e lì magari avrei trovato, compiendo un passo falso e per mio grande sbigottimento, come il narratore del racconto Una morte mentale: ovvero avrei pescato per caso un indirizzo scritto in una copia di un libro di Dostoevskij, quello del «suicida perfetto» Ottone Kressler, via delle Ruote, 25… che mi avrebbe di conseguenza portato – seguendo il racconto stesso – nella strozzatura di via della Stufa, 2 a due passi dal Mercato di San Lorenzo. Lì però, trafelato – e forse anche un po’ ridicolo coi miei scarponi da trekking e il mio berretto da montagna in pieno centro storico – avrei deciso di non fermarmi, di non cercare altro nel campanello, e avrei proseguito, il collo piegato verso l’asfalto… sebbene i molti Amleto, i molti Mendicanti, i molti Demoni, mi avrebbero sfiorato una spalla in mezzo alla folla davanti alle bancarelle di giubbetti di pelle e delle borse, coi loro occhi, con le loro favole scure.
Finché non mi si sarebbe rivelato l’arcano di quella giornata. Non stavo inseguendo un’idea di Papini, stavo semplicemente seguendo le sue istruzioni, pronto per una conversione integrale: avevo pienamente ottenuto, come un giorno scrisse in una prece per i suoi «fan», un giorno di astinenza dai libri, una quaresima di analfabetismo volontario…
P.S. Fortuna vuole che l’impresa, la scarpinata del Pratomagno, non abbia avuto mai luogo. E che alla pigrizia di questa sfida allucinata mancata io compensi con il piacere ogni volta rinnovato di leggere questi racconti inimitabili – che state leggendo, o state per leggere, o avete letto, dimenticando voi stessi, mettendovi in pericolo, specchiando la vostra faccia dentro a una vasca morta, seduti sul divano.
Estratto dalla postfazione a I racconti di Giovanni Papini (Edizioni Clichy, 2022).