“È una cosa importante, cazzarola!”, “Io Edith Piaf sapevo benissimo chi fosse, cazzarola!”, “Io odiai tutti, volevo solo raggiungere la mia stanza e starmene un po’ da solo a piangere, cazzarola!”, “Io capisco lo smart working negli uffici, ma un giornale, cazzarola, si fa discutendo, accapigliandosi, sbagliando, ricominciando, smontando e inventando”, “Cazzarola, che risveglio!”, “Fabiani ha detto al giornale, che tanto non esce il lunedì, che per questo fine settimana, almeno questo – cazzarola! –, sarei rimasto a casa a lavorare per lui”, “Il medico mi ha detto che le crisi di panico possono arrivare in qualsiasi momento, senza una ragione spiegabile. Mi sbaglierò, ma stavolta mi sembra invece così banale e ovvio – cazzarola! – il perché di questo sudore freddo, di queste palpitazioni, di questa sensazione di vertigine”.
In quale altro romanzo italiano potremmo trovare sette occorrenze della parola cazzarola? Queste sono citazioni dall’ultimo libro di Veltroni, La condanna. A pronunciare queste frasi è Giovanni, il protagonista e narratore del romanzo: ventiquattrenne di oggi, tirocinante in un giornale cartaceo in crisi, a cui viene affidato dal suo caposervizio e mentore, Sergio Fabiani, un lungo articolo su Donato Carretta, direttore del carcere di Regina Coeli nel 1944, nell’ottantesimo anniversario del linciaggio per mano di una folla che probabilmente lo scambiò per l’allora questore di Roma, Pietro Caruso. Nella quarta di copertina del romanzo la vicenda di Carretta viene giustamente descritta come centrale – “Chi era Carretta? Un fascista o un antifascista? Oppure” – come prova a dichiarare la quarta, mistificando una categoria storica – “uno della ‘zona grigia’?”.
Nella esile trama del romanzo, un terzo delle pagine è dedicato a creare una cornice contemporanea, e due terzi alla ricostruzione storica. Anche a partire da queste poche porzioni di testo e paratesto citato potremmo dire che La condanna è una doppia operazione trasparente: riscrittura/revisionismo storico dell’antifascismo affidato a un pedantissimo stile pseudogiornalistico. Ma quello che faremo è provare a avvalorare questo doppio giudizio negativo senza che sembri un pregiudizio o un’inutile espressione di livore.
Partiamo dal giudizio estetico e arriviamo a quello storico e politico. La prima evidenza che possiamo notare leggendo La condanna è che anche questo romanzo, come gli altri di Veltroni, appartiene all’ambito del non letterario. L’autore ignora la grammatica della dimensione artistica. In altri suoi libri, specie nei gialli, la sua imperizia non è manifesta in modo così uniforme: si alternano pagine dilettantesche a altre dove esiste una qualche dignità della prosa che le rende leggibili. Se si mettono in fila i libri che Veltroni ha pubblicato – circa una quarantina tra fiction, nonfiction e ibridi – si potrebbe stilare un catalogo in cui al lato dello spettro della bruttezza potremmo mettere questo romanzo e il monologo poetico Quando l’acrobata cade, entrano i clown del 2010; dall’altro la prefazione a Un anno di dominazione fascista di Giacomo Matteotti e il libro intervista a quattro mani con Matteo Zuppi, Non arrendiamoci, a cura di Edoardo Camurri: i suoi libri più interessanti.
I personaggi veltroniani non sono mai cattivi, ma esprimono sempre una posizione moralista: giudicano il mondo e dunque non possono semplicemente descriverlo.
In tutti questi testi però possiamo vedere quali sono le caratteristiche peculiari, gli stilemi del veltronismo. Per sintesi estrema potremmo dire che se l’arte, e quindi la narrativa, si muove su un piano connotativo, la comunicazione si muove su quello denotativo. Se io scrivo: “Questa luce è accesa” è denotativo, se io scrivo: “Questa luce è straziante” è connotativo. Veltroni confonde in continuazione un uso e l’altro. Per pagine e pagine, Veltroni riempie i suoi romanzi di informazioni assolutamente inutili e ridondanti, come se la narrazione potesse assomigliare a una serie di manuali di informazioni clonati, interrotti, diluiti; mentre quando sceglie l’uso connotativo, nelle similitudini, nell’aggettivazione, anche nella costruzione dei personaggi, nel cambio dei registri, per esempio, lo fa con una tale quantità di luoghi comuni, frasi fatte, faticosi espedienti retorici, autocommenti enfatici, che anche qui mostra come non concepisca lo specifico della letteratura: la ambivalenza semantica.
Facciamo degli esempi. Partiamo dall’incipit. “Il neon del bar di fronte diffonde una luce intermittente, di un rosso grossolano”. Al netto della cacofonia delle due rime interne fronte diffonde, rosso grosso…, come fa un rosso a essere grossolano? Cosa indica questa espressione? È un giudizio dell’autore sulla povertà del bar? Andiamo avanti, seconda riga: “Finiti gli aperitivi, o gli apericena, nella strada che vedo dalla mia stanza non c’è più nessuno”. L’autore di nuovo commenta e giudica un fenomeno senza nemmeno averlo descritto, l’opposto di quella sintesi della creazione letteraria che è show, don’t tell.
Veltroni non soltanto tells, ma tells again, and judges. Questo è uno dei sintomi più semplici della poetica veltroniana. La confusione tra connotativo e denotativo è determinata anche dal fatto che i suoi personaggi non sono mai cattivi ma esprimono praticamente sempre una posizione moralista: giudicano il mondo e dunque non possono mai semplicemente descriverlo.
Spesso a giudicare il mondo è lo stesso narratore, che coincida o meno con uno dei personaggi; la confusione dell’autore è tale che le voci dei personaggi sono sempre indifferenziate, ed è sempre indistinta la differenza tra narratore, autore e voci dei personaggi. Veltroni sembra incapace di modulare in qualunque modo il punto di vista del narratore e di differenziare il piano intradiegetico con quello extradiegetico. È difficile dire se questo sia dovuto al fatto che Veltroni ha fatto il politico e spesso prenda parola come editorialista. Nella sua narrativa, fa esprimere i suoi personaggi come se facessero dei comizi. Andiamo qualche riga sotto e prendiamo un periodo davvero esemplificativo:
Ogni sera, alla stessa ora, come le tessere di un mosaico, i giovani del quartiere, ormai un ossimoro in questo tempo di teste incanutite, affluiscono come richiamati da un pifferaio, ora denominato social.
In questo periodo ci sono:
- un errore lessicale: un uso scorretto del termine ossimoro; intendeva probabilmente contraddizione in termini,
- un errore nell’uso della figura retorica: le tessere di un mosaico non affluiscono, nemmeno se richiamate da un metaforico pifferaio. Se scegliamo un ambito figurativo per una similitudine, ci viene richiesto almeno di essere coerenti con quell’ambito. Altrimenti: “La luna in cielo sembrava una pallina da tennis quando resta solitaria nell’area di rigore”. Qui Veltroni fa una crasi di due similitudini, che sono anche particolarmente scontate, creando un ibrido privo di significato.
- una confusione sull’uso sintattico di denominato, che diventa un’aggiunta inutile.
Questo affastellamento di immagini, incisi, questa farraginosità della sua scrittura finisce per somigliare a un’urgenza rematica in risposta a un horror vacui: fino a quando ogni cosa verrà spiegata al lettore con così tanta ridondanza da renderla tautologica, il romanzo sembra non poter terminare. Così questo inutile pieno viene saturato attraverso una prosa che potremmo definire junk narrative: non c’è mai selezione, scelta, né lessicale né sintattica né d’immaginario. Nella Condanna gli errori, le scorrettezze si mescolano a espressioni che sono semplicemente sciatte o scadenti. Elenchiamo un po’ di citazioni.
Ci sono tantissime frasi, locuzioni, termini, che si potrebbero definire boomerismi (anche cazzarola è uno di questi) o doppiaggismi: ossia modi di dire obsoleti, da traduttese, che vengono spacciati per gergo giovanilistico, cattive e posticce traslitterazioni del parlato, come baloon di vecchi fumetti che Veltroni mette in bocca al narratore, il ventiquattrenne di oggi, che è un impiastro dal punto di vista della costruzione letteraria. È una voce catechistica: “È una presa per i fondelli”, “Io non ho vissuto nel velluto” (qui Veltroni fa confusione tra “Ho vissuto nella bambagia” e “Andare sul velluto”), “Per sua fortuna non ha fatto in tempo a vedere l’imbarbarimento dell’informazione, drogata dei social, e la crisi dei suoi amati quotidiani”, “Mentre Fabiani preparava in cucina degli spaghetti pomodoro e basilico – «Sono la mia specialità» – io bighellonavo nel salotto”.
Il romanzo ha un intento dichiarato fin dalla quarta di copertina: ricordare la figura di Donato Carretta per farne un martire, un eroe democratico contro la barbarie antidemocratica della folla.
Il quasi nullo controllo dello stile fa sì che in queste incoerenze siano riscontrabili altre cifre di sciatteria, per esempio altri boomerismi e americanismi da filmetto e colloquialismi: “Penso allentando il nodo della cravatta che mi soffoca, in quest’estate maledettamente calda”, “Hanno lo stato d’animo di chi sa che il proprio mondo sta per tramontare e se ne sbatte di tutto”; eufemismi che sono anche luoghi comuni: “Mio zio mi ha iniziato alla magnifica arte del giornalismo”, “nell’odore misterioso e inebriante delle pagine stampate”, “Ci sono delle donne vestite di nero, in quell’emiciclo che ancora ribolle di rabbia”; brani in cui l’ammiccamento al lettore diventa kitsch in purezza: “Ho chiesto alla bibliotecaria di indicarmi, guidato dallo spirito sbarazzino e colto di Umberto Eco, lo scaffale…”, “Io, però, in maniera molto più terrena, mi perdevo negli occhi di quella ragazza bruna, con dei capelli ricci che non finivano mai e un sorriso timido che turbava le mie notti di adolescente in preda alle prime, devastanti, tenere, tempeste ormonali”.
Ancora, i colloquialismi sono anche didascalismi:
“Qualcuno dei più anziani mi ha detto che nei giornali di un tempo esisteva una funzione importantissima, quella dell’archivista. […] Ne dedussi che l’archivista, figura apparentemente secondaria, era una colonna portante dei vecchi giornali. […] Ora invece tutti attingono a una sola fonte, Google, che usando gli algoritmi colloca in ordine gerarchico le notizie, in modo che si sia portati a consultare sempre quelle più cliccate. Tutto freddo, algebrico, quantitativo”;
[…]
“In quel momento, finita la guerra civile, a Roma la giustizia la faranno i tribunali, non le folle urlanti. Il tramviere non ha studiato giurisprudenza, ma sa che la libertà ha delle regole, diversamente dalle dittature. Sa che la vita umana in democrazia, non è più alla mercé della violenza o delle ideologie, anche quelle più vicine. Sa, con la saggezza del popolo e la sua umanità. Sa che il popolo non è la folla, che la giustizia non è la vendetta, che la rabbia fa strame del diritto”.
[…]
“«Giovanni, negli anni Cinquanta e Sessanta, quando forse neanche i tuoi – che vergogna! – erano al mondo, uno degli sport più popolari era il ciclismo. Roba forte, per gente dura. Si massacravano su quelle salite, con le strade del dopoguerra, fatte di polvere più che di asfalto. Pioveva, faceva freddo, grandinava e loro correvano. Ritti sui pedali se erano in montagna, curvi sul manubrio se rotolavano in discesa. Era uno sport per gente disposta a soffrire…”.
(L’ultima è una tirata che il caposervizi fa al narratore che è un giovane giornalista, non un bambino di cinque anni). E ancora, didascaliche e viete sono anche molte delle similitudini: oltre alle tessere di mosaico già citate, c’è un “Contano i giorni che mancano alla pensione come può farlo un condannato a vent’anni di galera”; e iperboli spompe come: “uno che di giornali ne sa quanto io di ornitologia”. Questa ridondanza che tende (arriva) alla tautologia si ritrova nelle triple o quadruple sinonimie: “Era una ricerca afflitta, preoccupata, preoccupante, tesa”, “Mi sembra di vivere in quel tempo, di essere precipitato in quella atmosfera cupa, notturna, invernale. In quel labirinto di intrighi, delazioni, sospetti che ogni dittatura costruisce”, “Lui sarà stato confuso, spaventato, sorpreso”.
Poi ci sono i truismi che diventano tirate moraleggianti ripetute serialmente: “Io invece penso che il mestiere di un giornale sia proprio quello, raccontando la realtà, di far ragionare, appassionare”, “Le biblioteche sono luoghi fantastici, fatti di rigorosi silenzi […] Nelle biblioteche non squillano i cellulari, salvo quelli dei maleducati; non ci sono i messaggi vocali ascoltati a tutto volume o a doppia velocità, non si parla, come sui treni, a squarciagola della dissenteria della bambina o dell’investimento finanziario fondamentale da concludere al più presto”.
Lunghissimi pezzi di citazioni pseudostoriche che diventano semplicemente riassunti di Wikipedia, di quello che si trova in rete, o di pezzi di libri di altri per raccontare episodi del passato, spesso non citati o citati per intero per anche tre, quattro pagine come inserti che vanno a spezzare ogni ritmo narrativo. Questa scansione sincopata è riprodotta anche da un uso smodato e arbitrario degli a capo:
Difficile capire se fosse giornalismo o narrativa. Io decisi, avevo sedici anni, che era la forma più alta di cronaca, quella che trasforma la descrizione della realtà, senza alterarla con l’immaginazione, in un racconto capace di catturare e di emozionare.La freddezza della realtà raccontata con il calore del romanzo.
La perfezione assoluta.
La storia di Ferdinando Carretta forse avrebbe potuto essere scritta proprio così.
Storia efferata, violenta, però molto affascinante dal punto di vista narrativo.
(Questo estratto vale anche come dichiarazione di poetica). Un cliché veltroniano è l’uso feticistico dei libri per nobilitare narrazione e personaggi, lo si trova in tutti i suoi testi e film. Anche nella Condanna ci sono molti esempi: “Dalla forma, la mia inestimabile sagacia ha dedotto, con godimento, che doveva trattarsi di un libro. Il genere di regalo che preferisco”, “‘Billy Budd di Melville? Gran libro’ ho detto io con sicurezza”, “Uno dei libri più belli che abbia mai letto è A sangue freddo di Truman Capote.”
Verrebbe da citare in scala uno a uno tutto il testo, ma possiamo trovare alcuni piccoli brani paradigmatici in cui tutte queste ovvietà, involutezze, scorrettezze si fondono. Eccone un paio: “Ho finito prestissimo di leggere il libro, l’ho divorato. È una storia “pazzesca”, aggettivo usato a profusione dalle voci smodate dei cellulari avvolti da sgargianti coperture”, oppure: “È una bella mattina. Il riscaldamento globale sgancia la sua seduttività pelosa, come il canto delle sirene”.
Ogni lettore della Condanna e dei testi (libri, articoli, recensioni, saggi, interventi, sceneggiature…) di Veltroni in generale potrà trovare simili e praticamente infiniti esempi di questo tipo. E non abbiamo indagato il livello pragmatico della narrazione, la relazione più estesa tra periodi, tra capitoli. Se la dimensione estetica della Condanna è così oscena, questo però non basta a valutare il libro. Perché questa oscenità viene messa a servizio di un’operazione di uno sgangherato revisionismo storico e politico. Il romanzo ha un intento dichiarato fin dalla quarta di copertina, intento che viene ribadito in continuazione dalla voce del narratore, dei protagonisti: ricordare la figura di Donato Carretta per farne un martire, un eroe democratico contro la barbarie antidemocratica della folla che, infiammata da una cieca furia, lo linciò.
L’obiettivo è molto esplicito: equiparare la violenza fascista e antifascista. Veltroni insegue da tempo questo orizzonte politico, fin da quando era sindaco, e cerca formule equipollenti per omaggiare vittime della violenza fascista, come Valerio Verbano, e neofascisti degli anni settanta, come Paolo Di Nella. Questa irrispettosa forma di elaborazione pubblica dei lutti politici trovò anche, in pochi casi, un’opposizione nitida e esemplare: per esempio, la madre di Renato Biagetti, massacrato nel 2006 da neofascisti a Focene, per esempio, rifiutò sempre questa “riconciliazione”.
L’obiettivo è molto esplicito: equiparare la violenza fascista e antifascista.
Veltroni ha continuato apertamente quella che considera una sua prioritaria battaglia culturale, storica, politica come editorialista del Corriere della sera, per esempio, scrivendo delle figure più popolari nel pantheon neofascista, come Sergio Ramelli, a cui ha dedicato un lungo articolo del 2020: Sergio Ramelli, il ragazzo con il Ciao che venne ucciso perché “fascista”. La causa di questi omicidi, per Veltroni, non è la violenza di marca politica, o la responsabilità personale o la particolare occasione storicamente determinata, ma quella che Veltroni definisce “patologia dell’odio”. L’odio per Veltroni è un sentimento trans-storico e trans-politico, che si manifesta in modo simile oggi sui social come nel 1944 in un’aula di un tribunale che aspettava di giudicare un criminale fascista.
Ci sono un paio di pagine della Condanna che vanno citate per intero. Sono la sintesi del disastroso pensiero politico veltroniano. La sciatteria letteraria riverbera il suo portato di confusione etica sul piano dell’argomentazione morale e della ricostruzione storica. È un discorso che dal nulla fa Loredana, la fidanzata di Giovanni, proprio a Giovanni, un giorno che vanno a passeggiare insieme al Giardino degli Aranci. Come capita spesso nei romanzi di Veltroni, è una specie di lunghissimo comizio/spiegone. È lei a parlare:
Ti ricordi quando siamo andati al mare, fatti gli esami? Ci sentivamo le persone più felici del mondo. Hai ragione: quei giorni erano il tempo sospeso tra gli impegni svolti, la scuola, e quelli che sarebbero arrivati, l’università o il lavoro. Giorni con le ali. Restammo in spiaggia fino al tramonto. Ogni tanto ci penso e mi si stringe il cuore. È quello che hanno fatto tutti i ragazzi del mondo, sempre? Non lo so. Oggi mi vengono in mente i maturandi ucraini, israeliani, palestinesi, russi. Non andranno al mare, non guarderanno il tramonto pensando al futuro. La guerra mi fa schifo, anche quella di cui ci stiamo occupando. La guerra sta finendo, certo, però si trascina appresso, come bava di lumaca, l’odio, i rancori, la violenza accumulata, praticata, tremata sotto le bombe, in trincea, nelle prigioni, nei rifugi, nei mercati a cercare il cibo per i figli.La guerra: quando il tuo destino non è in mano neanche ai tuoi errori, perché sganciare quella bomba sulla tua casa non è stata una tua idea, perché il comandante che ti manda a morire, per conto del dittatore di turno, se ne frega di tua madre che piange, dei tuoi figli che ti scrivono lettere che non ti arriveranno mai. Perché tu magari quel dittatore lo hai odiato, ma chi ti sta bombardando lo fa per liberarti da lui. È dalla tua parte, ma ti uccide. Oppure ti sei fidato di lui, del dittatore, in maniera innocente, hai creduto alle promesse che ha fatto, alle balle sull’impero da conquistare urlando “VINCERE E VINCEREMO”, ai bagnasciuga dove avremmo fermato il nemico, agli ebrei che ci toglievano il pane e sono finiti ad Auschwitz, alle camicie nere e alla luce sempre accesa a Palazzo Venezia. Sostenevi quel cialtrone – i dittatori sono sempre, tutti, dei cialtroni – senza guadagnarci nulla; forse lo sostenevi anche o solo perché così era abitudine o obbligo fare, allora.
[…]
La democrazia è pacata, risoluta, ferma. Ma pacata. Falcone era un urlatore? Lo era Borsellino? Moro? La democrazia non bastona, non lincia, non oltraggia. Semmai concede una pensione alla moglie e ai figli di Caruso. Quel giorno si sono sommate tante cose, credo. La rabbia, certo, per tutto ciò che c’era stato prima, per non aver visto in faccia uno degli aguzzini, il dolore delle famiglie delle Fosse Ardeatine, persino il disagio per la differenza tra privilegiati e popolo nella distribuzione degli inviti, la sensazione che il processo si sarebbe concluso in farsa. Perché il fascismo, nella sua caduta, aveva travolto ogni fiducia nelle istituzioni, persino in quei ragazzi in divisa che venivano insultati da quel popolo di cui erano certamente figli. Quella mattina però c’era anche altro. C’erano delinquenti e millemestieri, c’era gente che voleva far casino, sfogare rabbie che nulla avevano a che fare con la lotta per la libertà. Cercavano come faine un capro espiatorio per lenire la loro sofferenza. Come fanno i social oggi, la ronda della rabbia.
Fermiamoci qui. È un brano già lunghissimo. Ed è incredibile che possa essere stato scritto, inserito in un romanzo e poi pubblicato e che possa essere letto, e che l’autore di questo brano sia un ex sindaco di Roma, fondatore di uno dei partiti più importanti della socialdemocrazia europea, e oggi regista, scrittore, firma di punta del Corriere della sera. Questo brano è un tale minestrone velenoso di idee che persino definire infantili mette in discussione la nostra considerazione dell’infanzia, un revisionismo passivo-aggressivo non tanto di una fase storica complessa, ma della stessa possibilità di un’ermeneutica storica o di una riflessione politica, che risulta indecente sia pure messa in bocca a un personaggio di finzione, e persino a un personaggio di finzione che sembra costruito con la versione tarocca di Chat Gpt. (E dovremmo dire anche come tutto questo risulta grottesco, tenendo conto di quante volte Veltroni, in questo romanzo, come spesso nei suoi interventi pubblici, prende parola contro “i social” e “la rete” a cui ascrive le colpe di una squalificazione del dibattito pubblico e della cura della scrittura).
Ma stiamo alla questione centrale della Condanna. Carretta fu un fascista, un burocrate zelante del regime, direttore durissimo del carcere dell’Asinara, di Civitavecchia e poi di Regina Coeli, che decise, per ragioni che non conosciamo storicamente (convinzione? convenienza?), di favorire la liberazione di due socialisti di rilievo come Pertini e Saragat dal carcere di Regina Coeli, nel momento in cui il fascismo stava cadendo. La folla lo linciò probabilmente scambiandolo per Pietro Caruso, infame questore di Roma, ma forse anche per una rabbia indirizzata genericamente ai dirigenti fascisti o molto collusi con il regime, collaboratori dei nazisti nella Roma occupata. Nel leggere un testo anche così sballato, occorre provare a trovare comunque un minimo senso, in nome di una possibilità di un confronto onesto sulla storia. Proprio per questo segniamo dei limiti.
Il primo: non è possibile paragonare qualcosa di materiale e storicamente determinato come un moto popolare (pur scomposto) derivante dalla guerra totale e dall’occupazione nazista della città a una generica attuale rabbia o odio social o gogna mediatica che sia.
Il secondo: Carretta rappresenta il prototipo dell’ambigua transizione italiana dal fascismo alla democrazia, ovvero un passaggio che mantenne nei loro posti e ruoli funzionari e personale che aveva servito il regime e che approdò indenne nel corpo della Repubblica. Carretta sarebbe stato uno di loro. Questo non significa certo che sia stato giusto linciarlo ma non modifica il contesto in cui ciò avvenne.
È ben evidente che nel 2024 nessuno esalta un linciaggio, anche di un fascista. Ma è altrettanto evidente che Donato Carretta non fu un martire antifascista né un uomo della “zona grigia” come la nomina Veltroni, misconoscendo se non insultando, anche qui, la riflessione e la memoria di Primo Levi. Come fa Veltroni a riabilitare così rapidamente figure controverse? Molto spesso con un espediente narrativo furbo: ipotizzando un’immedesimazione emotiva con un’immaginaria psiche. I testi, i romanzi e gli articoli di Veltroni sono pieni di come si sarà sentito?, a cui seguono lunghe e dettagliate descrizioni interiori ipotetiche – così anche qui non mancano passaggi di questo tipo: “Si sarà sentito ridicolo, offeso nella dignità, mortificato dalla posizione grottesca”. Cosa ha a che fare tutto questo con la letteratura o con la storia?
Alla fine viene da chiedere: cui prodest questa oscenità? Se Veltroni stesso o qualcuno insieme a lui pensasse che questa sia una forma di accreditamento personale, quale figura di riferimento per una memoria condivisa tra fascismo e antifascismo, sarebbe davvero uno dei momenti più ignobili del dibattito culturale e politico italiano, forse il momento più ignobile, sicuramente il momento più ignobile. Di lui si parla come prossimo consigliere in cda della Rai, e addirittura – alle volte – come prossimo candidato alla presidenza della Repubblica; non è un caso che l’ultimo articolo sul Corriere sia una riabilitazione di Giovanni Leone. Sono tutte possibilità che, persino come ipotesi di scuola, sono da scongiurare.