I sogni si spiegano da soli è una raccolta di saggi appena pubblicata in Italia da Sur, con la traduzione di Veronica Raimo. È un libro essenziale per capire Ursula K. Le Guin e il suo approccio alla letteratura, il processo anarchico, caotico, circolare con cui costruiva le sue storie.
I saggi di Le Guin sono per lo più riflessioni sul mestiere di scrivere. Fu costretta a lungo a domandarsi che tipo di scrittrice fosse, isolata in un ambiente culturale quasi esclusivamente maschile e confinata dentro le mura del fantastico e della letteratura d’infanzia, recinti che almeno negli anni Sessanta e Settanta le dovevano sembrare invalicabili, prima che arrivassero i riconoscimenti e le onorificenze dell’editoria mainstream a fine carriera.
Le Guin rivendicò però sempre lo spazio della fantascienza come un luogo di nuove possibilità:
La gente continua a pensare che mollerò la fantascienza per lanciarmi verso la narrativa più istituzionale. Non lo so perché. I limiti, e la vastità spaziale del fantasy e della fantascienza, sono esattamente ciò che serve alla mia immaginazione.
Ma aveva un’idea di letteratura diversa dallo stereotipo machista di quella fantascienza fatta solo di distopie, guerre e conflitti di civiltà. Allo stesso modo avversava l’approccio “futurologico” di una fantascienza costruita come dispositivo di predizione dell’avvenire; se il compito è quello di pronosticare il futuro, scriveva, è meglio affidarsi alle analisi degli scienziati. Che bisogno c’è di fornire in ogni romanzo una risposta finale al lettore? Meglio piuttosto credere nell’uso trasformativo dell’esplorazione, della fantasia, dell’esperimento di immaginazione. Guardava allora ai suoi libri come a una serie di tentativi:
Una delle funzioni essenziali della fantascienza per me è proprio questa modalità di porre domande: il contrario del modo usuale in cui pensiamo, metafore per qualcosa che il nostro linguaggio non sa ancora denominare, esperimenti immaginativi.
Se c’è un processo del tutto arcano e misterioso, e che non può essere riassunto in una formula, è quello che porta le idee di chi scrive ad attraversare le zone oscure della propria mente. Quello stesso movimento indecifrabile permette poi di liberare energie sopite e, in definitiva, di complicare le intuizioni di partenza: il pensiero diventa letteratura. Troppo spesso pensiamo ai libri di fantascienza invece come a narrazioni premeditate, meccanismi a orologeria in cui tutto è legato da una salda coerenza, dove ogni cosa deve spiegarsi e tenersi dall’inizio alla fine senza alcuna ambiguità inestricabile. Ma questo tipo di libri, che all’interno del genere esistono, sono i romanzi e i racconti più didascalici, di maniera, quelli meno interessanti. Le Guin dimostrò invece che nel fantastico, nella costruzione quindi di un mondo nuovo, non è necessario mantenere il controllo su tutto, e che dopo aver percorso il caos fecondo della creazione letteraria si può scegliere di non abbandonarlo, ma di abitarlo. Nella raccolta confessa, parlando delle sue trame: “Non ho progettato un bel niente! L’ho trovato (…) nel mio subconscio”. E a proposito dei suoi personaggi: “La gente mi chiede spesso come penso ai nomi fantastici, e di nuovo devo rispondere che li trovo, che li sento”.
Se la sorgente della scrittura è misteriosa, e se è vero che non ci sono regole esatte per scrivere bene, è vero anche che ogni storia deve invece, a un certo punto, darsi una struttura che incanali l’ispirazione. E Le Guin in questo aveva un metodo. Immaginava mondi paralleli, uguali ma diversi dal nostro, con l’atteggiamento di una scienziata che cambia qualche variabile nel proprio laboratorio e attende poi la risposta del sistema. Prendeva in mano il pianeta Terra, le storture delle società, i conflitti degli esseri umani, e iniziava a chiedersi: cosa succederebbe se la natura di uomini e donne fosse identica a quella che conosciamo e differisse solo per questo piccolo particolare qui? E se invece aggiungessi questo comportamento innato al posto di quest’altro, come si unirebbero allora le classi, quali condizionamenti sociali nascerebbero, cosa succederebbe alle vite degli individui, alle loro quotidianità? Quali problemi non ci sarebbero più e quali altri nascerebbero?
Le Guin immaginava mondi paralleli, uguali ma diversi dal nostro, con l’atteggiamento di una scienziata che cambia qualche variabile nel proprio laboratorio e attende poi la risposta del sistema.
Così in La mano sinistra del buio (da poco tornato in libreria in Italia con la traduzione di Chiara Reali) Le Guin inventa una razza androgina di esseri umani che trascorrono gran parte della loro esistenza in uno stato ermafrodito neutro e che diventano sessualmente attivi, o maschi o femmine, in maniera casuale, solo una volta al mese. La domanda da scienziata è: qual è la differenza tra uomini e donne? Come si riorganizza una civiltà quando l’impulso sessuale non guida le azioni e i pensieri perché è confinato allo sfogo di una settimana intoccabile, sacra, ogni mese? Nel racconto “Sur” (disponibile nell’antologia Le visionarie) immagina invece una storia alternativa dell’esplorazione dei ghiacci in cui a inizio secolo è un gruppo di donne a calpestare prima degli uomini la calotta del Polo Sud. Che tono avrebbero i loro diari di viaggio? In che modo sarebbero diversi da quelli che ci hanno invece consegnato i vari Shackleton e Amundsen, intrisi di militarismo e dell’epica della natura come nemico?
A volte gli esperimenti mentali sono domande che Le Guin rivolge direttamente al lettore: nel racconto breve “Quelli che si allontanano da Omelas” dipinge una città utopica abitata da una popolazione gioiosa, sana, perfettamente egualitaria, che non conosce religioni né forme di governo. Tutti sono felici, tranne un bambino, rinchiuso in una stanza buia, costretto a vivere tra le proprie feci. È proprio dalla sua infelicità, per un patto scellerato e incomprensibile, che dipende la salute dell’intera città: “Se il bambino venisse portato alla luce del sole, fuori da quel posto fetido, se venisse pulito e nutrito e confortato, sarebbe davvero una bella cosa; ma se questo avvenisse, in quel giorno e in quell’ora tutta la prosperità e la bellezza e la gioia di Omelas avvizzirebbero e verrebbero annientate. Queste sono le condizioni”. Tu che faresti, chiede Le Guin a chi legge, accetteresti di vivere a Omelas o scapperesti via disgustato?
Il padre di Le Guin, Alfred Louis Kroeber, fu uno dei fondatori dell’antropologia culturale, ed è lecito immaginare che il suo lavoro ebbe un’influenza decisiva nel pensiero della figlia. La stessa Le Guin descrive in un saggio della raccolta il proprio metodo di costruzione delle storie come una forma di “relativismo culturale”, per la maniera in cui trasforma il world building, la costruzione di mondi, in uno “strumento euristico”, un “esperimento mentale”. Come Einstein che immaginò un ascensore in picchiata per capire come funzionava la gravità, o Schrödinger con il suo gatto. “Non esistono né l’ascensore, né il gatto, né la scatola”. Eppure l’esperimento viene “svolto, e la questione posta”, almeno a livello concettuale.
La produzione di Le Guin è fatta di aggiunte, ripensamenti, correzioni.
I parallelismi tra la scrittura e il metodo scientifico reggono però solo per poco. Le Guin è affascinata dal modo in cui la scienza è tenuta a rimettersi continuamente in discussione, ma non ha intenzione di portare la metafora molto più avanti. “D’accordo non sono una scienziata. Gioco a un gioco dove le regole continuano a cambiare”. E così può tornare a contraddirsi. “Non sono un’ingegnera, ma un’esploratrice”, scrive in un altro saggio. Il fatto è che, come sottolinea Veronica Raimo nell’introduzione, “Le Guin non è così interessata ai risultati del suo esperimento, o meglio: sa che potranno cambiare. Sa che potrà esserci sempre una ‘versione aggiornata’, un modo per ritornare sui suoi passi, un’incoerenza strutturale nelle cose”.
La produzione di Le Guin è fatta di aggiunte, ripensamenti, correzioni. Nel 1990 scrive L’isola del drago, quarto capitolo del ciclo di Earthsea di cui, agli esordi, aveva pubblicato una trilogia. Ma erano libri giovanili, che seguivano troppo pedissequamente i canoni eroici dei fantasy tradizionali, scritti da una donna che, per sua ammissione, cercava di imitare la voce di uomo. Così il quarto capitolo, dopo venti anni, Le Guin lo scrive non più dal punto di vista dei potenti ma degli sconfitti, ribaltando i termini di dominazione e genere.
Oppure: dopo l’uscita di La mano sinistra del buio Le Guin viene criticata (dalla collega Joanna Russ, tra le altre) per l’uso dei pronomi maschili generici per degli individui androgini. In un primo momento si ribella alle obiezioni: “mi rifiuto di massacrare l’inglese inventando un pronome che vada bene per lui/lei”. Dopo qualche anno però ci ripensa. Forse chi la criticava aveva ragione. In fondo c’è sempre spazio per continuare a interrogarsi e a pensare alle cose, per “lasciare porte e finestre aperte”, come diceva, tenendosi la libertà di creare e poi di contraddirsi.
È liberatorio leggere il modo in cui Ursula K. Le Guin decideva di aprirsi all’ambiguità, all’esplorazione, a volte anche alla pura improvvisazione. In uno dei saggi più ondivaghi e elusivi del libro, “Una visione non euclidea della California come luogo freddo”, Le Guin a un certo punto si ferma. Non sa come proseguire. Per sbloccarsi si affida all’I Ching. Come sottolinea ancora Raimo, “è abbastanza spiazzante ritrovarsi dentro il ragionamento di qualcuno e assistere ai suoi inciampi, quelli che di solito restano fuori dalla pagina (…) Le Guin invece ci rende partecipi del suo stallo”. L’uso dell’I Ching può ricordare Philip K. Dick, che all’antico testo oracolare cinese era molto affezionato, forse devoto, e lo utilizzò per costruire il suo romanzo L’uomo nell’alto castello. Anche Dick, com’è noto, si trovò a lungo intrappolato tra le definizioni di letteratura “minore”, escluso a lungo dal novero degli scrittori “seri”, “alti”.
In questi continui inciampi, nella selva di tutte queste apparenti incongruenze, Le Guin non sembra però mai perdere la via. Pensa anzi di continuo a possibili postulati, lemmi e corollari con cui perfezionare la sua visione della letteratura e della vita. Aggiunte, ripensamenti, correzioni. Uno dei saggi più noti della raccolta, “La teoria letteraria del sacchetto della spesa”, del 1986, è anche uno dei più rivelatori del suo modo di pensare e di scrivere.
Le Guin pensava di continuo a possibili postulati, lemmi e corollari con cui perfezionare la sua visione della letteratura e della vita.
Qui Le Guin contrappone l’archetipo dell’eroe a quello della raccoglitrice. Contesta l’idea che sia stata la lancia il primo vero strumento usato da Homo sapiens, e propone piuttosto di riscrivere la storia della nostra specie e della nascita della tecnologia a partire dal primo sacco, la prima borsa della spesa. È stato quello in fondo lo strumento che ci ha reso pienamente umani, scrive, che ci ha permesso di trasportare più di quanto potessimo tenere in mano. Accettando la “teoria letteraria del sacchetto della spesa” ci ritroveremmo così anche noi, come Le Guin, a rileggere le fondamenta dell’umanità e a non pensarle più ancorate a una narrativa di dominio, l’epica di “bastoni, lance e spade, strumenti per colpire trafiggere e picchiare”. Scopriremmo un’umanità nuova, una realtà fatta di raccolta e condivisione, di accumulo di errori e tentativi, di alcune cose inutili e di altre bellissime e preziose.
Quando mi sono messa a scrivere romanzi di fantascienza, mi sono portata dietro questo grosso sacco stracolmo e pesante, il mio sacchetto della spesa pieno di fifoni, imbranati, granellini di cose più piccole di un seme di senape, pezzetti di stoffa finemente intrecciati che quando vengono aperti rivelano un ciottolo azzurro, un cronometro che funziona alla perfezione e mi informa sull’orario di un altro mondo, il teschio di un topo. Un sacco pieno di inizi senza fini, di iniziazioni, di perdite, di trasformazioni e traslazioni, e molti più trucchi che conflitti, molti meno trionfi che trappole e delusioni. Un sacco pieno di navicelle spaziali che restano incagliate, missioni che falliscono e persone che non capiscono.
Sabato 18 giugno, a Milano, alle 15:00, Vincenzo Latronico, Veronica Raimo e Nicoletta Vallorani discuteranno dell’opera di Ursula K. Le Guin a partire dalla pubblicazione di I sogni si spiegano da soli.
L’evento fa parte della prima edizione del festival 2084 – Storie dal futuro, in programma il 17 e 18 giugno presso EastRiver, organizzato dalla Scuola di scrittura Belleville, a cura di Matteo De Giuli, Nicolò Porcelluzzi e Marco Rossari. Due giorni di dialogo tra letteratura e scienza, informazione e filosofia, per raccontare i nuovi modi di creare, di comunicare, di resistere.