L e imprese e le fantasie del Marchese Donatien-Alphonse-François de Sade godono di una reputazione sconfinata e del tutto inattesa. In vita, fu ripudiato dai famigliari e perse il manoscritto delle Centoventi giornate di Sodoma, che era rimasto nella cella della Bastiglia da cui Sade era stato spostato qualche giorno prima del 14 luglio 1789 (l’avrebbe ritrovato un antiquario tedesco dopo più di un secolo). Il suo testamento recita: “Una volta ricoperta la fossa, vi saranno seminate sopra delle ghiande, affinché trovandosi in seguito il terreno […] ricoperto di vegetazione, ed il bosco fitto […], le tracce della mia tomba scompaiano dalla superficie della terra, come io mi lusingo che la mia memoria scompaia dalla memoria degli uomini”.
Ma Sade, l’enciclopedista delle torture, non sfumò in un giardino fiorito. Il suo spirito senza requie, anzi, accompagna il pensiero del Novecento, come interlocutore imprescindibile. Lo evocano Adorno e Horkheimer, che ne fanno il tirannico padre dell’illuminismo e perciò della modernità; lo dissotterra Pierre Klossowski, che in lui ritrova i segni di un pensiero libero e sovversivo; psichiatri e psicoanalisti lo riesumano in cerca del paziente zero su cui costruire la diagnosi della parafilia nota appunto come sadismo, mentre un teorico dell’antipsichiatria come Gilles Deleuze nelle sue opere scorge i segni del culto cieco della Ragione assoluta, ferocemente logica e perciò avversa a ogni forma d’esistenza. La sua onnipresenza nella riflessione culturale del secolo passato è la prova della sua modernità e della sua lungimiranza. Non è un caso, infatti, che le pratiche da lui descritte con atroce dovizia di particolari siano state assunte a modello per raccontare tragedie a noi più vicine quali il nazismo e in generale ogni manifestazione dell’“anarchia del potere”, come dimostra Salò di Pasolini (1975), adattamento allegorico delle Centoventi giornate alla Repubblica Sociale Italiana.
Non è, però, solo la sua prossimità al nostro tempo a costituirne la cifra o a giustificarne la fama. Al centro delle sue opere c’è soprattutto la viva testimonianza del mistero del male che gli esseri umani compiono gratuitamente verso altri esseri umani, addirittura ricavandone una forma di godimento. È l’amor intellectualis diaboli, che Adorno e Horkheimer definiscono “il gusto di distruggere la civiltà con le [proprie] mani”, e che Sade rappresenta senza esitazioni e spesso con lubrico compiacimento. E questo non si direbbe un carattere esclusivo della modernità, ma anzi uno dei più antichi impulsi del genere umano.
L’uomo, il lupo dell’uomo
Di fronte allo sfacelo di civiltà che fu la Prima Guerra Mondiale, Freud fu costretto a ipotizzare che gli uomini tendessero naturalmente alla distruzione e fossero animati da un desiderio di tornare a essere materia inerte, ossia tornare a non essere. Ne Il disagio della civiltà (1929), affermò che l’essere umano, fin dall’origine, non fosse solo “una creatura mansueta, bisognosa d’amore” ma anche un essere altamente violento, che “vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma […] un invito a sfogare su di lui la propria aggressività, a sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, ad abusarne sessualmente senza il suo consenso, a sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, ad umiliarlo, a farlo soffrire, a torturarlo e a ucciderlo. Homo homini lupus”.
Vivere l’uno accanto all’altro nel fragile compromesso di spazio pubblico e spazio privato, di beni condivisi e proprietà individuale, avrebbe un effetto addomesticante sugli impulsi più brutali, che per contratto sociale vanno repressi o alla meglio sublimati, diretti altrove. Può risultarne un mondo grigio e mediocre di soggetti destinati all’insoddisfazione permanente della lucida ragionevolezza, ma almeno non è il mondo degli individui sovrani e perciò spietati in cui agiscono incontrastati i libertini di Sade. E tuttavia il rischio di “regressione” è sempre in agguato.
All’epoca della Prima Guerra Mondiale antropologi e frenologi avevano tentato di dimostrare come le misurazioni dei crani tedeschi provassero l’atavismo e la de-evoluzione presenti nel ceppo germanico.
La propaganda antitedesca, all’epoca della Prima Guerra Mondiale, aveva descritto il “prussianismo” come il maggior pericolo per la civiltà. Stando alla narrazione allora in voga, i tedeschi erano barbari sadici e stupratori e il Belgio la “damigella in pericolo” da riscattare. Un poster americano mostrava uno scimmione dall’elmo chiodato che emergeva dall’oceano sulle coste statunitensi; alle sue spalle si scorgevano le macerie del continente europeo. Riprendendo gli stessi temi, nel 1933 Edgar Mowrer scriveva, in Germany Puts the Clock Back, che i tedeschi obbedivano alla “legge della giungla”. Se all’epoca della Prima Guerra Mondiale antropologi e frenologi avevano tentato di dimostrare come le misurazioni dei crani tedeschi provassero l’atavismo e la de-evoluzione presenti nel ceppo germanico, ora gli etnografi affiancavano immagini di Hitler e Mussolini alle statuette di Kūka‘ilimoku, il dio hawaiano della guerra. L’argomento di fondo, però, era sempre lo stesso.
Anche per spiegare gli eccessi e i segni distintivi del sadismo – nelle sue versioni più crude e filologicamente corrette, ma persino nella ritualità di fatto innocua del BDSM – lo si è spesso inteso come una “regressione atavica allo stato selvaggio primitivo”, come notò l’erudito eclettico Robert Eisler in Uomo diventa lupo, testo basato su una conferenza tenuta alla Royal Society of Medicine di Londra nel 1948. Ma questa riduzione al primitivo è fallace, poiché nulla lascia a intendere che la condizione originaria fosse fatta essenzialmente di nefasta crudeltà. Secondo Eisler, l’uomo selvaggio ossia selvatico (letteralmente, l’abitante della “foresta vergine primordiale”) “non era affatto un animale assassino, crudele, dedito alle uccisioni e alla guerra” – piuttosto il contrario.
Da scimmia a lupo
Con rarissime eccezioni tra cui noi, prosegue Eisler, tutte le scimmie, grandi e piccole, si nutrono quasi esclusivamente di semi e di frutti. Nella linea verso l’Homo come lo conosciamo, perciò, dev’essere avvenuto “un cambiamento radicale” di dieta e modus vivendi, quello che nelle forme mitologiche è stato tramandato come la Caduta, il peccato originale. Nei racconti del mondo primitivo e prelapsario anche i nostri progenitori si nutrono di frutta: così Adamo ed Eva nell’Eden, così Enki secondo l’Epopea di Gilgameš, e così sosteneva anche Plutarco in Del mangiar carne. Dai Fauni (letteralmente: i “favorevoli”) agli Orang-utan (“uomini delle foreste” in malese), l’archetipo è lo stesso: il buon selvaggio, pacifico e beato, innocuo e gentile.
L’Alouatta palliata aequatorialis è una sottospecie di scimmia urlatrice nei cui branchi vige un regime di sproporzione tra i sessi: un maschio ogni tre o quattro femmine. I partner sessuali non sono esclusivi e sia maschi che femmine, su ogni piano della gerarchia del branco, ne hanno numerosi. Ciò significa che tutti hanno piena parità di chances riproduttive multiple. Questo dà vita a “un branco completamente integrato” pressoché esente da aggressività o spietata competizione (anche se a ciò contribuisce una dieta fatta quasi interamente di foglie, difficili da digerire e poco nutritive, che costringe l’Alouatta palliata all’ozio e all’inattività).
Il cacciatore stesso deve costantemente farsi identico alle forze distruttive della natura che ha appreso a emulare.
E se – si chiede Eisler – i nostri progenitori fossero vissuti in condizioni simili a quelle dell’Alouatta palliata? La sua interpretazione “socioantropologica” del sadismo e della crudeltà ipotizza “una derivazione storica – o piuttosto preistorica – di tipo evoluzionistico per tutti i crimini violenti”, dall’omicidio fino alla guerra. In origine, i gruppi di ominidi sarebbero stati pacifici, gregari, frugivori e sessualmente promiscui. Questa, d’altronde, è la condizione a cui da sempre aspirano di tornare i gruppi utopistici e millenaristi, dagli gnostici capocraziani ai partecipanti del Festival del proletariato giovanile al Parco Lambro organizzato da Re Nudo negli anni Settanta.
Circa 2,6 milioni di anni fa, però, l’ominide, creatura essenzialmente imitativa, apprese il consumo di carne probabilmente osservando i suoi predatori e appropriandosi delle loro movenze e del loro aspetto, e fu questo il peccato originale. Dal consumo opportunistico di carogne alla battuta di caccia, poi, il passo fu relativamente breve. L’uomo di Sade si trova dunque verso la fine e non all’inizio del percorso evolutivo. Nella linea dell’Homo si ritrovano i marchi fisici di questo cambiamento, come l’incremento delle dimensioni del corpo e del cranio. Ma, secondo Eisler, ne avremmo conservato il ricordo anche in forma di idee archetipiche o “engrammi mnemonici” iscritti negli strati ancestrali della mente.
Infatti il cacciatore stesso deve costantemente farsi identico alle forze distruttive della natura che ha appreso a emulare. Così, per esempio, nella confraternita degli ‘Īsāwiyya in Marocco gli iniziati si travestono da animali predatori e, “trascinati da una danza rituale, cadono in uno stato di frenesia che li rende capaci di dilaniare con le sole mani capretti e agnelli ancora vivi e di sbranare le vittime coi denti”. Di identiche imprese erano capaci le menadi (ricoperte di pelle di volpe o di pantera) durante i riti dionisiaci, come racconta Euripide ne Le Baccanti, in cui Agave, rapita dall’estasi, fa a pezzi il figlio Penteo, scambiatolo per un animale.
Analogamente, l’enfasi dei popoli indoeuropei e non solo sul lupo e sugli altri predatori – nei nomi delle tribù, nei miti fondativi (si pensi alla lupa di Romolo e Remo) – dimostrerebbe che “la transizione dal gregge o dalla mandria di ‘raccoglitori’ frugivori al branco lupesco di cacciatori carnivori fu un processo cosciente accompagnato da un profondo sconvolgimento emotivo”. L’identificazione e la mimesi col predatore sopravvivono nel folklore, nelle leggende sulla licantropia, nel racconto dei berserker vichinghi, guerrieri “coperti con pelli d’orso”, e degli Úlfheðnar (“vestiti di lupo”) che combattevano in stato di trance, negli “uomini-leopardo” in Kenya e in Congo, criminali “mascherati con pelli di leopardo […] che camminano su trampoli […] in modo da lasciare impronte simili a quelle del leopardo e usano artigli di ferro per dilaniare le vittime”, e così via.
Secondo Klossowski, Le centoventi giornate di Sodoma è un libro capace di far “vomitare all’uomo tutto il male che è capace di vomitare”.
Dal momento in cui il cacciatore umano inizia a vestirsi, per imitazione, come i grandi predatori che fino a poco prima lo minacciavano, oppure, per camuffamento, come l’ambiente circostante per non venire notato dalla preda ignara, allora inizia a tutti gli effetti la differenziazione, la cesura, la Caduta. Adamo ed Eva, nudus cum nuda, “non ne avevano vergogna”; l’uomo scimmiesco e bonario, il raccoglitore di frutta, non si sente affatto scoperto. Al contrario, il nuovo essere umano, onnivoro e violento, è glabro e si sente in colpa se non cela il proprio aspetto traditore, ma l’adozione della maschera mimetica gli consente un’ulteriore forma di dominio sugli elementi e sull’ambiente.
Il mostro dell’estinzione
Le centoventi giornate di Sodoma è un libro capace di far “vomitare all’uomo tutto il male che è capace di vomitare”, commentò Klossowski. Nell’introdurre il suo capolavoro, il Marchese de Sade scriveva al lettore: “Senza dubbio molte delle deviazioni che vedrai descritte potranno rivoltarti, lo so, e però altre sapranno eccitarti […] ed è questo tutto ciò che ci serve”. Tutt’altro che veramente deviante, perciò, il libertino sadico vuole offrire l’immagine più sincera, nonostante l’ovvia esagerazione, di quel che l’essere umano può essere tolti i freni dell’inibizione, della morale e della società, e talvolta persino la versione grottesca della società stessa. Come diceva il docente di psicologia medica Millais Culpin, “il germe di queste aberrazioni è latente in ciascuno di noi”. Siamo, infatti, i discendenti “della varietà carnivora e licantropica”, conclude Eisler, “una mutazione avvenuta sotto la spinta della fame, a sua volta causata dalle modificazioni climatiche occorse al termine del periodo pluviale” iniziato in Africa 120.000 anni fa e presumibilmente prima ancora (sono stati trovati utensili di pietra vecchi milioni di anni impiegati dagli ominidi per staccare la carne dalle ossa delle carcasse). Abbiamo interiorizzato il lupo, che ora è parte essenziale della “natura umana” cosiddetta.
Sono due gli aspetti più perturbanti e pericolosi del sadico descritto dal Marchese. Il primo è la sua imperturbabilità, che spesso prende la forma dell’apatia assoluta. Da un lato è scontato che il sadico debba essere “una persona dotata di una risonanza simpatetica debole”, ossia un individuo incapace di compassione. Ma c’è di più, poiché il vero sadico non si comporta come tale per guadagno personale, e nemmeno per il proprio godimento. Ne La filosofia nel boudoir, Sade afferma che la sua legge, “fredda per sua natura, non potrebbe essere toccata dalle passioni che possono legittimare l’atto crudele”. Juliette, inizianda al libertinaggio più dissoluto, deve imparare a torturare per dovere, non per piacere. Esempio perfetto è K (Jamie Bell) in Nymphomaniac di Lars von Trier (2013), che riceve le sue “pazienti” in uno studio asettico e impersonale e le tortura come se fosse il suo lavoro, pur non ricevendo nulla in cambio per le sue prestazioni gelide e meticolose.
Il secondo costituisce un vero e proprio enigma per gli interpreti del sadismo: i libertini sadici desiderano torturare quanto essere torturati. L’ultima vittima del sadico è infatti se stesso, poiché, nell’impossibilità di sterminare tutta l’umanità, è costretto a scagliarsi contro il soggetto stesso dello sterminio. Certo, se potesse, commetterebbe il suo crimine perfetto, “la totale distruzione del genere umano”. In Salò di Pasolini, uno dei libertini grida al prigioniero che aveva minacciato di giustiziare a sangue freddo: “Imbecille, come potevi pensare che ti avremmo ucciso? Non lo sai che noi vorremmo ucciderti mille volte, fino ai limiti dell’eternità, se l’eternità potesse avere dei limiti?”. La sadiana Clairwil vorrebbe “trovare un crimine il cui effetto perenne agisse anche quando [ella] non agiss[e] più” – farsi identica, appunto, alla forza negativa pura e assoluta, che non ammette eccezioni per nessuno, nemmeno per il negatore stesso.
Usando la terminologia di Eugene Thacker, si può dire che la fantasia ultima del sadismo, la distopia sullo sfondo delle sue pratiche, sia il mondo-senza-di-noi. Per questo i commentatori di Sade hanno definito la dialettica all’opera nei suoi dialoghi come il frutto di una ragione tutt’altro che antropomorfa o antropocentrica. La filosofia nel boudoir esemplifica l’orrore cosmico che pervade il sadismo:
che cosa volete che gliene importi [alla natura] se la razza umana si spegne o si annienta sulla terra! Essa ride dell’orgoglio che ci fa credere che tutto finirebbe se una tale sciagura si verificasse! Non se ne accorgerebbe neppure. Non ci sono già razze estinte? […] la natura, indifferente a tanta perdita, neanche mostra di accorgersene. L’umanità intera potrebbe annientarsi che l’aria non sarebbe meno pura, né l’astro meno splendente, né il cammino dell’universo meno esatto.
Come il norreno Fenrir, il lupo che negli eventi del Ragnarök ucciderà Odino, così il licantropo in noi pare destinato a causare la fine del mondo e perciò di se stesso, condannato, infine, ad autofagocitarsi.
Ricostruire il gibbone
A tutto questo si oppone, di tanto in tanto nella storia dell’umanità, il sogno del ritorno al giardino dell’origine, il cui accesso ci è ora negato. La parola stessa “paradiso” viene da una parola in persiano antico che indica, appunto, il giardino, da sempre immagine di completezza, perfezione, idillio e innocenza, luogo incantato che genera di sua sponte quanto serve al sostentamento dell’essere umano che lo cura. La storia dell’arte e della letteratura è anche una storia di giardini, dal Purgatorio dantesco e Botticelli fino al “pubescent park, […] my mossy garden” dove, in Lolita di Nabokov, giocano le ninfette.
Coloro che lo abitano sono senza destino come gli dèi beati. “Soltanto i popoli litigiosi, indiscreti, gelosi, recriminanti” scrive E. M. Cioran in Squartamento “hanno una storia interessante“. Gli altri, più prossimi al giardino delle beatitudini, vivono un’incessante felicità e sono perciò privi di avvenimenti: come sapeva Hegel, i momenti felici sono “le pagine bianche” della Storia.
L’infanzia è il teatro dei primi esperimenti motori e sensoriali, nonché lo spazio su cui si alimentò per la prima volta la fantasia.
È costante, nel susseguirsi delle civiltà, il pensiero di trovarsi alla fine dei tempi – fine che, in termini assoluti, non è ancora mai arrivata. L’idea della senectus mundi che circolava negli ultimi secoli dell’Impero Romano d’Occidente non coincise affatto con la morte universale, piuttosto con quella dei suoi teorici e del mondo così come l’avevano conosciuto. Ma è pur sempre vero che l’approssimarsi della fine, vera o solo temuta, nell’individuo come in un popolo spinge il pensiero all’infanzia. “È certo” scrive Cristina Campo nel saggio In medio coeli “che dallo zenith della vita […] il cammino non è verso l’oblio […] anzi verso la memoria. Tutta la conoscenza acquisita prima di toccare quel punto […] sembra rivolgersi allora verso l’infanzia, la casa, la prima terra, verso il mistero delle radici […]. Verso un dialogo sempre più stretto tra l’antico bambino e i morti”.
Non stupisce, e sembra quantomai appropriato al tempo in cui viviamo, che sia proprio il paesaggio il mediatore di questi “incontri con la propria preistoria”. E segnatamente il luogo privilegiato dove ciò avviene è quello della prima infanzia, il teatro dei primi esperimenti motori e sensoriali, nonché lo spazio su cui si alimentò per la prima volta la fantasia. È come se ciascuno ritornasse costantemente al giardino della propria primavera, o come se nessuno ne fosse uscito mai. Così, “Paesaggi ignoti sembrano assimilarsi ai nostri primi giardini, valli, foreste […] Tutto era là ma solo oggi tutto vi è veramente”.
Ma forse – il dubbio è obbligatorio – il giardino paradisiaco dei progenitori costituisce anche una possibilità, un’alternativa alla selva oscura dell’uomo diventato lupo. In uno dei sogni di Erna Rosenbaum raccolti e commentati da Jung, ricchi di visioni idilliache della “terra promessa” (una “campagna verde” in cui pascono le pecore), c’era “molta gente” che camminava “in quadrato da destra verso sinistra”. Il giardino, dall’Eden in poi, ha sempre la forma perfetta del quadrato, e da esso partono infatti i “quattro angoli del mondo”, le direzioni cardinali, mentre al centro del complesso mandala si trova l’Yggdrasil, l’asse su cui tutto si regge. Nel sogno, i camminatori stanno seguendo la direzione del sole (si muovono in senso orario), ma “in qualche modo […] hanno preso ‘il giro sbagliato’”. L’obiettivo è quello, dice Jung, di risistemare l’ordine delle cose, ossia “ricostruire il gibbone” – non a caso una di quelle scimmie sociali e gregarie. Il senso del sogno è che “il fatto arcaico ‘uomo’ […] deve essere ricostruito”.
La domanda, nel caso di Eisler e del suo studio sul sadismo prima di Sade come in quello di numerosissimi altri – Freud in primis –, è la stessa: la violenza e perciò l’estinzione, sua conseguenza finale, sono necessarie? Se, conclude Eisler, i nostri progenitori sono stati i “licantropi”, allora questa è la natura umana e la fine di tutto, esito ultimo della Caduta, è ineluttabile (d’altronde, se “non ci fu mai una Caduta, non vi poté essere né potrà mai esserci una redenzione”). Ma se invece in origine, prima di farsi a immagine e somiglianza del predatore, l’essere umano fu anche e radicalmente altro, allora – forse – “esiste la speranza […] di gettare la fatale maschera del lupo, domare la belva ‘archetipica’ che è in noi e riportare l’umanità alla sua condizione primordiale” di bambini innocenti che giocano nel giardino.