A ndrei Kurkov è lo scrittore ucraino più tradotto all’estero, autore di libri che hanno raccontato la realtà ucraina e postsovietica sia in forma di narrativa che di cronaca. Nei suoi romanzi, ricchi di humor, si mescolano elementi fantastici ed elementi storici. Lo incontro a Kyiv a inizio giugno, in un caffè davanti alla Zoloti Vorota, la Porta d’oro che costituisce la più importante vestigia della fortificazione cittadina dell’anno mille, divenuta simbolo della città. Dopo due anni e mezzo di guerra la vita, nella capitale ucraina, prosegue nonostante tutto, tra razionamento dell’energia e voglia di costruire un certo di grado di normalità anche come forma di risposta allo stato delle cose. In questo quadro la cultura gioca un ruolo fondamentale: proprio in quei giorni, ad esempio, è in corso un festival del documentario molto partecipato, che ha messo in rassegna lavori che parlano della guerra e non solo.
Quando chiedo ad Andrei Kurkov come si svolge la sua quotidianità di scrittore oggi, nel 2024, mi risponde: dipende, se sono in città vado in una caffetteria e scrivo per qualche ora, poi mi sposto in un’altra e così via. Raramente scrivo a casa. Se sono nella dacia fuori città, il contrario. Della guerra e degli allarmi aerei non fa cenno. Ma, come vedrò in seguito, la guerra ha cambiato radicalmente molte cose nel mondo letterario ucraino (Kurkov è stato anche presidente del Pen club). È proprio questo cambiamento che proviamo ad approfondire nella nostra conversazione.
Il 24 febbraio 2022 la cultura ucraina si è silenziata. Appena la guerra è cominciata la cultura ha perso il suo ruolo. E il destino delle persone che lavorano con la cultura è stato lo stesso di tutti gli altri ucraini: qualcuno è scappato dalla sua città, qualcuno è andato all’estero. Molte persone hanno scelto Leopoli come luogo dove riparare, per una questione di sicurezza, e per questo motivo tanti scrittori, giornalisti, teatranti provenienti da varie città del Paese si sono ritrovati lì. Per tre o quattro mesi tutte le strutture culturali e sociali sono rimaste chiuse. Questo però non ha fermato le manifestazioni artistiche. La gente, nei primi mesi dell’invasione su larga scala, scendeva periodicamente nei rifugi, che spesso erano le stazioni della metropolitana. È interessante che proprio lì, in quei rifugi, sia cominciata a rinascere la vita culturale. A fine aprile e maggio, prima a Kharkiv e poi a Kyiv, nelle metropolitane sono state organizzate presentazioni di libri, dialoghi di filosofia. Persino proiezioni di film, come se si fosse in una sala cinematografica.Cos’è cambiato nel mondo della cultura dal 24 febbraio 2022? Quale responsabilità si sono sentite addosso le persone che fanno cultura come te, come hanno sentito di dover reagire?
Quindi, secondo te, le espressioni culturali sono state una forma di reazione allo stato delle cose. Quando è tornata una relativa normalità nelle città lontane dal fronte – per quanto si può, in tempo di guerra –, cosa è successo nella letteratura e nelle arti? Di cosa si scrive? Dalla data dell’invasione russa, in pratica il principale argomento della cultura è stata la guerra. Con il teatro è stato diverso, perché appena è stato possibile riaprire le sale teatrali, gli artisti hanno continuato con il vecchio repertorio, come se nulla fosse, animati dal desiderio di ripartire e di ripristinare un senso di normalità. Tuttavia dopo un po’ ci si è resi conto che, nonostante le buone intenzioni, il risultato era lontano dalla realtà, come se ci si stesse nascondendo un po’ da ciò che avveniva fuori. E così i teatranti si sono rimessi a scrivere. Oggi come oggi, in ogni teatro c’è almeno uno spettacolo dedicato alla guerra, ai territori occupati, al presente. Gli autori di letteratura e di teatro hanno risposto a un’esigenza: spiegare, ragionare, rappresentare la situazione che stiamo vivendo. È un esigenza anche dal punto di vista formale: oggi tantissimi scrittori sono diventati autori di poesia, perché si sono resi conto che è il modo migliore per esprimere certe questioni. Anche all’estero si sono accorti di questo movimento nelle lettere ucraine e la poesia, che è sempre stata meno visibile, oggi è molto richiesta e tradotta. Parliamo di una poesia che risponde alla realtà di oggi. Sono libri dedicati ai rifugiati, ai volontari, ai soldati. A chi fa fronte a ciò che sta succedendo. È persino più richiesta della prosa, e molti poeti sono stati tradotti anche in Italia, ad esempio, o negli Stati Uniti. Non molto tempo fa, al Palazzo dello Sport di Kyiv, un poeta che ha un buon seguto in Ucraina, Serhij Žadan, ha letto le sue poesie davanti a ottomila persone. [Proprio il giorno dell’incontro con Kurkov, Žadan è partito volontario, arruolandosi nella Guardia Nazionale, rendendo questa scelta pubblica sul suo profilo instagram, ndr.]
In Italia l’editore Keller ha pubblicato molti dei tuoi libri. Vorrei concentrarmi su due di questi, intorno ai fatti dell’ultimo decennio. Diari ucraini, che racconta le proteste di Maidan nel 2014, e Diario di un’invasione, dedicato ai fatti più recenti. Hai scelto la cronaca, il racconto giornalistico dalla prospettiva di uno scrittore, piuttosto che la narrativa. Per quale ragione? Prima dell’invasione del 2014 all’estero nessuno sapeva nulla della storia ucraina. In Europa, ma anche fuori dall’Europa, la storia di questo Paese era relativa esclusivamente alla Russia. La Russia era presente ovunque, imponeva la sua versione della realtà e della storia. Per questo mi è sembrato importante raccontare agli europei quello che stava accadendo nel mio Paese, quale è la storia che c’è dietro questo conflitto, che a ben guardare non comincia ora ma è la continuazione di un conflitto cominciato 300 anni fa. Senza un’analisi storica dei rapporti tra questi due Paesi negli ultimi secoli non si comprende cosa sta accadendo. La gran parte delle persone fuori dall’Ucraina ha avuto accesso solo all’interpretazione russa, non conosce la storia ucraina per come l’abbiamo vissuta noi. Per questo ho sentito l’esigenza non solo di riflettere su quanto stava accadendo a Maidan prima e durante l’invasione su larga scala dopo, ma anche di riepilogare il modo in cui siamo arrivati dove siamo ora. È un passaggio imprescindibile per comprendere il presente. Ed è per questo che ho scelto di utilizzare la cronaca.
Cosa non riusciamo a capire, dalla nostra prospettiva di europei occidentali, del conflitto tra Ucraina e Russia? È una questione di prospettiva. In Francia, ad esempio, c’è sempre stato il culto della grande cultura russa, a partire dalla letteratura. Tuttavia oggi anche gli studiosi francesi, che amano molto la cultura russa, capiscono che non c’è alcuna relazione tra la Russia di oggi, governata da Putin, e la grande cultura del passato. Anche in Italia è successo qualcosa di analogo: un grande amore per quella tradizione che, in qualche caso, ha portato a minimizzare le responsabilità della Russia odierna (anche se in molti casi, per fortuna, non è così). Cosa si può fare di fronte a questa prospettiva? Lavorare per la conoscenza. In Italia, come in Francia e in Germania, la letteratura ucraina classica è conosciuta pochissimo. Oggi con la guerra, paradossalmente, le cose stanno cambiando: ho visto che nel vostro paese cominciano a uscire edizioni di autori classici come Lesja Ukraïnka, che per noi è una poetessa importantissima. Questa è una modalità per far conoscere il popolo ucraino, che è un popolo diverso dal popolo russo, soprattutto se parliamo della Russia e dell’Ucraina di oggi. Conoscere la letteratura ucraina può aiutare gli europei a comprendere il ruolo fatale che la Russia ha avuto rispetto al nostro paese nel corso dei secoli.
Uno degli ultimi tuoi romanzi usciti in Italia è ambientato in Donbass, si intitola Api grigie e nella sua versione originale è stato pubblicato nel 2018. Il protagonista, Sergej, è un contadino che non ha mai abbandonato la sua terra ma che, per una serie di circostanze, deve compiere un viaggio fino in Crimea. Conosce poco del mondo e anche dell’Ucraina. L’aspetto più interessante è il fatto che hai utilizzato il punto di vista di una persona che appartiene alla popolazione civile: non è un separatista, non è un soldato ucraino, ma si trova a vivere in un contesto dove queste due realtà confliggono. Come hai maturato questa scelta? Dopo l’inizio della grande invasione ho viaggiato tre volte in Donbass, vicino alla parte occupata, e una di queste volte ho percorso tutta la linea della frontiera militare, quella che oggi chiamiamo linea di contatto. Prima di questa situazione, tuttavia, eravamo di fronte a una “piccola” invasione che è iniziata nel 2014. A partire da quella data sono uscite diverse opere letterarie, ma erano tutte concentrate sul punto di vista dei militari, dei volontari o delle persone che prendevano parte alla guerra in modo attivo. Non esisteva nessun libro dedicato a quelle persone che non hanno partecipato agli scontri, ma che comunque hanno vissuto la guerra sulla loro pelle. Alcune di queste persone hanno scelto di non partecipare, sono rimaste a casa loro, isolandosi all’interno di problematiche familiari, di vita quotidiana, che tuttavia sono state sconvolte, perché la guerra è arrivata fino dentro le loro case. Quel punto di vista mi interessava. Il Donbass, per altro, lo conoscevo già per esserci stato prima del 2014 e mi infastidiva molto il fatto che la popolazione locale venisse dipinta attraverso dei cliché: sono tutti nazionalisti, ad esempio; oppure, sono tutti banditi. Non è vera né l’una né l’altra cosa. Per un certo periodo il Donbass è stato culturalmente isolato dal resto dell’Ucraina per via di questi pregiudizi. È vero che l’Ucraina è un Paese molto grande e ogni regione ha la sua mentalità, ma questo isolamento del Donbass ha rafforzato l’impressione che fosse un luogo dove il passato si è conservato intatto, una specie di riserva sovietica, dove la mentalità non è cambiata e non cambierà. Fuori dal Donbass, per converso, alcune persone si ritenevano diverse da loro, speciali, più cosmopoliti. Ovviamente sono generalizzazioni, pregiudizi, ma la guerra ha forzato le persone a sceglie un carattere rispetto a un altro. Sergej, il protagonista del mio libro, esprime delle idee che possono essere tipiche del Donbass, ma anche, volendo, non diverse da quelle di un abitante della regione di Odessa; perché in Ucraina tanta gente ha preferito non interessarsi alla situazione politica del Paese. È stata la guerra ad aver costretto a scegliere da che parte della barricata stare, che posizione tenere: diventare un patriota che difende il paese, o un separatista, o ancora un collaborazionista, o un rifugiato. La guerra è diventato il “marker” delle posizioni delle persone.
Ho letto che da quando è iniziata l’invasione su larga scala non sei più riuscito a scrivere. È davvero così? E come mai? La saggistica e gli articoli sono riuscito a scriverli, la narrativa no. Per la prosa artistica ci vuole immaginazione, occorre inventare, ma non si può inventare nulla di più forte e realistico di quello che sta succedendo adesso. Non ha senso inventare, o almeno a me è sembrato che non avesse senso. Mi sembrava fosse una specie di sacrilegio mettersi a scrivere fiction invece di spendere il mio tempo per documentare le testimonianze dei crimini di guerra che avvenivano e avvengono sul territorio ucraino. All”inizio dell’invasione il mio sentimento era questo. Adesso, invece, sto scrivendo. Ho ripreso un romanzo iniziato prima del 2022, che non ho concluso. Ci tengo a finirlo, perché è il terzo romanzo della trilogia dedicata al 1919, [che comincia con L’Orecchio di Kiev, ndr]. Tuttavia finora sono riuscito a scrivere solo una trentina di pagine. Nel frattempo però ho iniziato a scrivere una fiaba, per i bambini, è una storia breve ma che mi ha richiesto molto tempo e impegno. Tratta della paura, per capire che cos’è e come superarla.
I romanzi li ho sempre scritti in russo, che è la mia lingua madre. Anche se quando ero giovane, quarantacinque anni fa, già scrivevo poesia in ucraino, russo e inglese. Oggi dipende da quello che scrivo, la narrativa continua ad essere in russo, la favola di cui ti parlavo, invece, è scritta in ucraino, e gli articoli – anche quelli messi assieme per comporre i diari di Maidan e dell’invasione – sono il più delle volte scritti in inglese, perché il più delle volte erano pensati per essere pubblicati all’estero.In che lingua scrive oggi Kurkov? I tuoi libri più conosciuti sono stati scritti in russo, ma molti artisti ucraini, oggi, hanno deciso di abbandonare quella lingua. Tu che scelta hai fatto?
Utilizzare la lingua russa oggi, per la comunità artistica, è un problema? Qual è la situazione? C’è una tendenza, che possiamo definire non ufficiale, per cui molte librerie non voglio vendere libri scritti in russo, anche quando questi libri sono stati stampati in Ucraina. È certo che tanti scrittori e scrittrici sono passati a utilizzare l’ucraino, nel loro lavoro di scrittura, anche se prima usavano il russo. È rimasto un segmento di autori che usa solo il russo, come sono sempre stati abituati a fare, ma per forza di cose questa scelta li marginalizza un po’. Non direi che sono oppressi per la loro scelta, né tanto meno ghettizzati, ma certamente operano in una zona più underground della scrittura, forse potremmo dire che si sono auto-ghettizzati. D’altra parte esisteva già una tendenza da parte dei media, anche prima dell’invasione su larga scala, a non dare troppo spazio a chi si esprime solo in russo. Questa tendenza è sicuramente cresciuta, si è rafforzata. Ma alla base di questa situazione c’è uno stato di cose che è bene evidenziare. La lingua russa, nonostante sia ancora usata da tanta gente, oggi ha acquisito lo status di “lingua del nemico”. Prima del 2014 si stima che oltre il 40% della popolazione ucraina parlasse russo, dichiarando il russo la propria lingua madre, quella di uso familiare. Oggi ce ne sono molti meno. Un po’ perché tanta gente è morta, soprattutto nei territori occupati, e tanti sono diventati rifugiati all’estero, come la gente che viveva nella zona di Mariupol. Il russo sta andando in disuso in varie sfere della vita, privata e pubblica. A causa di questo stato di cose penso che l’utilizzo del russo in Ucraina non abbia futuro. Si spengerà poco a poco. Ci vorranno generazioni prima che la lingua russa perda quello status di “lingua del nemico” e anche la letteratura, utilizzata come strumento identitario, presenta dei problemi in questo senso.
Approfondiamo questo aspetto. Qual è il rapporto che un cittadino ucraino, nato nell’Unione Sovietica, come Andrei Kurkov, ha con la grande letteratura russa? E qual è invece il rapporto di un ragazzo o una ragazza di vent’anni? Un giovane di vent’anni, forse, non ha letto i classici russi e in qualche caso non sa bene nemmeno chi siano gli autori. Le generazioni più mature, invece, hanno ovviamente un grado di riferimento a quel mondo letterario che può andare dalla nostalgia fino a sentimenti più sfumati, ma anche i più nostalgici oggi preferiscono mettere da parte quell’affetto tradizionale, appreso a scuola, nelle università, indirizzato ad autori come Dostoevskij, Tolstoj, Pushkin. Quell’affetto antico oggi lascia spazio a un sentimento diverso. E se devo dire come la vedo io, personalmente, credo anche che ci sia una narrazione un po’ banalizzante sulla classicità russa, che finisce per riportare tutto a quei tre o quattro autori. Nella mia formazione sono stati ben più importanti alcuni autori molto meno noti, degli anni Venti e Trenta del secolo scorso, come Andrej Platonov, Boris Pil’njak e Konstantin Vaginov. Sono autori poco conosciuti all’estero e hanno subìto repressioni, ma per me sono persino più interessanti. Penso però che anche loro saranno vittime di questa guerra, la gente continuerà a non conoscerli. Perché oggi la cultura ucraina ha bisogno di uno sguardo differente.
In che momento si trova la letteratura ucraina? La guerra è una situazione tragica, ma al suo interno si sta vivendo un momento che possiamo definire “fondativo”: si stanno delineando istanze nuove, la scelta decisa della lingua ucraina e l’abbandono del russo, l’attenzione internazionale. Cosa ne pensi? La differenza più importante rispetto al passato, anche solo a vent’anni fa, è l’attenzione al racconto del presente, di quanto sta avvenendo ora in prima linea. Non riguarda soltanto la necessità di raccontare la guerra, ma è proprio uno sguardo nuovo sul mondo e sulla lettura: anche dal punto di vista della letteratura di provenienza straniera spesso si sceglie un genere o un approccio analogo, e cioè romanzi documentari, cronache, racconto del presente. Lo stesso vare per il cinema, che spesso si concentra sulla guerra e sui rapporti tra Ucraina e Russia: c’è una produzione vivace e si parla di un vera e propria rinascita cinematografica. In termini letterari, invece, all’estero stanno pubblicando molto classici ucraini che erano rimasti confinati nel perimetro del paese: i classici del XIX secolo, soprattutto, gli scrittori dell’epoca che precede la rivoluzione d’ottobre. Ma anche quello che noi chiamiamo “rinascimento fucilato”, o “giustiziato”, e cioè gli scrittori degli anni Venti e Trenta, repressi nel sangue, sia durante la guerra civile che durante le repressioni staliniane. Devo dire che, a mio modo di vedere, ci sono delle analogie anche con il momento presente, anche se la situazione è differente: dall’invasione su larga scala sono morti già quaranta firme importanti tra scrittori, giornalisti e narratori.
Il racconto del presente è un racconto di tragedia. E la commedia? È stato possibile usarla in un contesto come quello dell’invasione, oppure no? Esiste una tradizione legata all’humor, nella letteratura ucraina, connessa con la mentalità popolare; mentre la Russia ha una tradizione maggiormente connessa alla satira. Ad ogni modo all’inizio della guerra è diventato quasi impossibile scherzare, non si riusciva a scrivere nulla di comico. Più in generale – come ti dicevo – c’è stato un blocco, non solo mio, che riguardava la possibilità di “inventare”. Poi qualcosa si è mosso e si è tornati a scrivere, soprattutto per gli appuntamenti di stand-up comedy. Esisteva un forte movimento di questo genere performativo in Ucraina, nei locali, nelle caffetterie, nei teatri, ma era quasi tutto in russo. Dal 2022, invece, viene scritto quasi esclusivamente in ucraino.
Hai iniziato a scrivere quando c’era l’Unione Sovietica. Hai proseguito nell’Ucraina indipendente. Continui in questo momento di guerra. Quanti scrittori è stato Andrei Kurkov? Molti. Almeno tre o quattro. In Unione Sovietica, come tanti altri, ero un autore che pubblicava in clandestinità. Sono stato pubblicato in samizdat, che comunque significava accedere a una vasta rete di lettori, anche se la pubblicazione era illegale e non veniva celebrata nei grandi centri culturali come Mosca e Leningrado. Sono però stato invitato tante volte nelle città più periferiche dell’Unione Sovietica, come in Moldavia, nelle repubbliche baltiche, a Tambov. Poi, nel 1993, sono riuscito a pubblicare due libri, editandoli io stesso: un romanzo e un libro per bambini, che hanno raggiunto 75.000 copie. A quel punto, e grazie a quella fase, c’è stata una fase ulteriore, possiamo dire “un altro Kurkov”, in cui i miei libri hanno cominciato a circolare molto, anche all’estero. Oggi, la quarta fase, mi vede nelle vesti dell’autore ucraino più tradotto all’estero, cosa che mi ha reso non molto amato in patria, e per questo non trovate sempre i miei libri esposti nelle librerie [lo dice ridendo, ndr.]. Oggi quello che cerco di fare, con il credito che mi viene riconosciuto, è far conoscere autori ucraini all’estero: in pratica aiuto i miei concorrenti. Alcuni di questi si vergognano un po’ di ammettere che l’innesco del loro successo all’estero è dovuto a uno scrittore che scrive in russo [anche questa affermazione è detta scherzando, ndr.]
Come sarà il futuro della letteratura ucraina, una volta finita la guerra?