V incitore di innumerevoli premi letterari, tra cui il Man Booker Prize nel 2023 per il suo Cronorifugio, il bulgaro Georgi Gospodinov è uno degli autori di punta della scena europea e globale. La struttura frammentaria dei suoi romanzi, la concezione non lineare del tempo e il forte impianto mitologico e metaletterario dei suoi scritti, elementi che l’hanno spesso accomunato a Borges (una delle sue maggiori influenze), hanno contraddistinto la sua produzione già dalle primissime opere come Romanzo naturale, e sono a oggi il cuore pulsante della sua narrazione e dei suoi puntelli di scrittore.
Se, come rilevava Vanni Santoni su Linus qualche mese fa, di fronte alla perdita d’egemonia della narrativa statunitense pubblico e critica scelgono di guardare all’Europa centrale e orientale prediligendo, tra i vari nomi, lo stesso Gospodinov, scambiare quattro chiacchiere con l’autore sul passato, sul presente e sul futuro del romanzo può sicuramente fornire qualche spunto illuminante sullo stato dell’arte e sul ruolo etico e politico del narrare.
Le traduzioni delle domande al e dal bulgaro sono a cura di Giorgia Spadoni.
In effetti quella nel romanzo è una battuta di Gaustìn, e non del narratore. Gaustìn dice di aver inventato il narratore affinché il narratore lo inventasse (Gaustìn). Ma questa confusione è molto bella, perché mostra quanto sia difficile distinguere il protagonista dal narratore. E a me questo piace, anch’io a volte mi confondo su chi stia parlando – io oppure Gaustìn. Gaustìn è nato proprio così com’è scritto nel romanzo. È nato prima nella poesia. Poi è passato attraverso alcuni racconti. Prendeva sempre la parola in punti inaspettati. Anche la storia dell’epigrafe è vera. Anche l’incontro seguente con il prototipo del protagonista. Le idee iniziali sono sempre reali, quello è l’impulso necessario dopo il quale comincia l’immaginabile. Ma anche quello è parte della realtà.Partendo dall’assunto più o meno universalmente condiviso che a uno scrittore non si debba mai chiedere se qualcosa è autobiografico, vorrei iniziare con quello che autobiografico non è, l’eteronimia. Lei sperimenta di continuo con la sovrapposizione parziale, totale o assente tra autore e Gaustìn; in
Cronorifugio afferma persino che “potrei dire che io l’ho inventato proprio perché lui mi inventasse questo mestiere”. Insomma, com’è nato Gaustìn? È vera la storia dell’epigrafe?
È un meccanismo un po’ diverso da quello attuato da, che so, Pessoa. La frammentazione in Caeiro, Reis, Campos e gli altri testimoniava l’illusorietà di ogni “io”, narrante e non, mentre la dimensione ludica in testi come Fisica o Romanzo naturale, sembra voler sfuggire a questo fatalismo. In una situazione editoriale come quella attuale, dove autobiografia, autofiction e verità documentaria sembrano regnare, pensa sia giunto il momento per la riabilitazione della finzione? E qual è il ruolo che l’autore, o chi per lui, dovrebbe ricoprire?
Tra le scene di lettura più celebri della storia del romanzo c’è quella che vede Robinson Crusoe leggere o chiedere risposte alla copia della Bibbia trovata per accidente nella cassa dei medicinali. Nel romanzo di Defoe, la Bibbia ha la funzione di dare ordine, stabilità e totalità al mondo legando la propria esperienza di lettore e naufrago alla produzione collettiva dell’umanità, ma al giorno d’oggi un ordine sembra possibile solo in frammenti, come accade con i suoi romanzi, o con quelli di Tokarczuk, Sebald o Drndić, per citare altri esempi nel contesto europeo. Pensa sia così?
Restando su questo argomento, c’è un’intervista del 1998 a Ricardo Piglia in cui lo scrittore rifiuta, almeno parzialmente, l’etichetta di “romanzo frammentario”, preferendo il termine “microstoria”, che implica la circolazione di diverse storie all’interno di un romanzo. Ad affascinarlo è la creazione di “una superficie narrativa sulla quale sia possibile muoversi tra storie diverse”. Quale di queste definizioni sente più sua?
Vorrei ampliare la questione del “micro” prendendo come esempio altri due testi teatrali, il libretto di Space Opera e L’apocalisse arriva alle sei. In entrambi gioca con le aspettative del pubblico rovesciando la scala di quanto narrato: l’epopea spaziale e il ricorso all’apocalisse, presente anche nei racconti di E tutto divenne luna, passano in secondo piano rispetto alle piccole epopee private. Dalla grandiosità e dalla sfera pubblica, la narrazione epica è spostata al triviale, al personale, all’infinitamente piccolo. Da qui non solo gli uomini, ma anche le mosche.
Nei suoi romanzi figurano spesso liste, elenchi e descrizioni di oggetti, in continua interazione con il loro contesto. La storia della letteratura pullula di simili elenchi che ricoprono le funzioni più disparate, dallo scudo di Achille alle digressioni di Benjamin sul collezionismo, ma nella letteratura contemporanea l’enumerazione sembra non riuscire più a celare l’angoscia di ciò che manca, e gli oggetti appaiono come l’unico antidoto in grado di conservare la memoria e l’esperienza concreta. Le sue liste sono sempre malinconiche? E i suoi oggetti?
Questo rapporto tra psiche e tempo, tra percezione soggettiva e corso degli eventi, ha da sempre occupato la sua attività di romanziere. Un secolo dopo gli eroi di Proust, Joyce o Faulkner, in romanzi come Cronorifugio la percezione cronologica assume una valenza ulteriore per il significato collettivo del tempo, sempre più esposto a manipolazioni politiche che, di fatto, sono una forma di narrazione che si staglia sulla memoria soggettiva. Vede uno scollamento tra la percezione individuale e collettiva del tempo?
Restando su questa tematica, c’è un’osservazione di Kundera, contenuta ne Il sipario, che in questa cornice appare particolarmente degna di nota. Nel descrivere le differenze dello scontro tra Romanticismo e razionalismo nel romanzo e nelle arti nei contesti francese e centroeuropeo, Kundera afferma en passant che “i passati non erano gli stessi”. Anche lei, nato e cresciuto in Bulgaria, ha vissuto questa frattura? Come la vive ora nella sua pratica di scrittura?
E i futuri? Se, come afferma spesso, ogni Stato produce finzioni per governare e la propaganda è una riscrittura del passato, può la letteratura, fuori tempo per costituzione, riscrivere il futuro?
Un’ultima domanda. Abbiamo parlato di forme letterarie, trasmissione della memoria e collettività, e c’è una modalità narrativa che travalica queste distinzioni. Sto parlando ovviamente del mito e dell’epica, in particolar modo quella greca, a cui la sua opera fa spesso riferimento. Quanto ha influito sulla sua formazione, e in che modo la rielaborazione o l’impiego dei “miti di ieri” può arricchire, riscrivere o sfidare i “miti d’oggi”?