A un certo punto dell’intervista, Margo Jefferson mi dice che, per lei, “sesso, classe e razza” presi in qualsiasi ordine, sono la sua personale “trinità mondana” e poi scoppia a ridere: penso che la sua voce dal vivo è la stessa che ho trovato dentro Negroland, di cui condivide lo stesso tono impertinente divertito; capace di saltare da un argomento all’altro, Margo Jefferson mi parla di come la critica letteraria debba farsi porosa e disposta all’ambiguità per essere interessante, di come Zadie Smith sveli la sua anima britannica nel modo in cui parla di classe, fino a Childish Gambino e Kendrick Lamar, ai quali augura di conservare l’imprevedibilità del talento. Sesso, classe, razza: per tutto il tempo che passiamo insieme non facciamo che parlare di queste tre cose, cambiando le definizioni, raccontandoci ora attraverso una, ora attraverso l’altra categoria.
Siamo a Roma e la ex critica teatrale del New York Times è ospite al Festival delle Letterature, dove presenterà Negroland, il suo memoir, pubblicato in Italia da 66th&2nd (traduzione di Sara Antonelli). Affida a questo libro la sua esperienza di borghese afroamericana, lei, a cui i genitori avevano insegnato a non mettersi mai in mostra, ma a distinguersi sempre “con il comportamento, evitando i proclami, a eccellere con i fatti e le buone maniere, senza sfoggio”.
Il suo libro è un moto di ribellione rispetto all’educazione impartita, una dichiarazione di esistenza, il tentativo di raccontare cosa significa vivere nel mondo perfetto e senza macchia di Negroland, la terra dell’élite afroamericana, formata da intellettuali, medici, avvocati, attivisti, ammessi qui per merito o discendenza.
Ai bambini di Negroland insegnavano che la maggioranza dei Negri avrebbe dovuto seguire il nostro esempio, e che invece fin troppi (per invidia o ignoranza) persistevano in comportamenti che favorivano il pregiudizio razziale. C’erano troppi Negri che mettevano in mostra le cose sbagliate: la voce alta, i modi sfrontati e appariscenti, il talento per la musica pop e il ballo, per lo sport piuttosto che per le discipline umanistiche e le scienze.
Figlia di un dottore e di una donna della buona società, Margo – in ordine, bambina prodigio, cheerleader, professoressa alla Columbia – è una delle cittadine onorarie di Negroland e da questa posizione racconta la storia della terza razza, mostrandone, per la prima volta, meccanismi ed egoismi, rivelando cosa significa essere privilegiati quando per la gran parte dei bianchi sarebbero rimasti, come le aveva insegnato da piccola sua madre, “negri come tutti gli altri”.
Qui troppo neri per i bianchi e troppo bianchi per i neri, gli abitanti di Negroland, discriminati e impossibilitati ad accedere alla vita pubblica del proprio paese e, allo stesso tempo, terrorizzati dal perdere il proprio status per poter lottare, si erano chiusi in se stessi e si erano detti “no, mi sono guadagnato il diritto di badare agli affari che mi consentono una vita agiata – di tener fede ai miei doveri professionali, alle mie aspirazioni sociali, alle responsabilità familiari. Non voglio pensare costantemente a Loro come se fossero Noi”.
Attraverso un paziente e sottile lavoro di decostruzione delle categorie di “noi” e “loro”, Margo Jefferson, contemporaneamente donna, donna altoborghese e donna altoborghese afroamericana, cuce insieme queste schegge diseguali di esistenza, attraverso un testo frammentario, fatto di cambi di inquadratura, di ambientazione, attraverso un testo che parla di sé, di noi e degli altri, facendosi trovare sempre in una posizione diversa.
C’è una scena in Negroland che mi è rimasta particolarmente impressa. È quella in cui da bambina chiede a sua madre se la vostra sia una famiglia ricca. Questa domanda in realtà ne cela un’altra, è la domanda su come vi dovrebbero considerare gli altri, su come dovresti considerarti tu – è la domanda “chi sono io?” “Ci consideriamo Negri della classe elevata e al contempo americani dell’alta borghesia” ti aveva risposto tua madre, “ma per la gran parte della gente noi siamo ‘Negri come tutti gli altri’”. La riflessione su questa doppia identità è il cuore del suo memoir.
Mi sembra che dietro a queste domande ci si interroghi su quale sia il processo di costruzione delle identità e se sia possibile per i singoli decidere cosa ci definisce e cosa no: lei è donna, di colore e dell’upper class, ma non tutte queste etichette sono uguali, non tutte hanno lo stesso peso specifico. E poi c’è sempre qualcun altro pronto a ridurre la nostra identità a una sola di queste categorie.
Leggendo il suo libro, mi sono chiesta se il processo di definizione di sé abbia bisogno di uno scontro per avvenire. Per esempio, il processo di formazione femminile mi pare avvenga più all’interno dello stesso genere, cioè attraverso il confronto con le altre donne, piuttosto che attraverso lo sguardo maschile; eppure è il bisogno stesso di costruzione dell’identità ad essere urgente proprio perché questa identità è messa in discussione. Allo stesso modo, in una lettera del 1944, sua madre, in un momento di felicità, scrive: “a volte quasi mi dimentico di essere Negra. Non male, vero?”: in una situazione in cui la sua identità di afroamericana non veniva messa in discussione, lei si sentiva autorizzata a non prestarvi troppa attenzione.
Mia madre aveva scritto quella lettera poco dopo essersi sposata, mentre viveva con mio padre all’interno del campo militare di Fort Huachuca: quello che voleva dire era che là era molto felice, “così tanto che a volte poteva dimenticarsi di essere nera”; quella frase va intesa in maniera ironica, quello che voleva dire è che ci sono momenti in cui ci è permesso deporre le armi e smettere di lottare, momenti in cui tutte le pressioni, i moralismi e i pregiudizi cessano di esistere, almeno per un po’. Sono proprio questi gli spazi liberi che desideriamo, quella la condizione che vorremmo raggiungere con le nostre lotte.
Da ragazza, ho sempre invidiato la varietà dei romanzi di formazione maschile: tolte Sylvia Plath e Zadie Smith mi sembravano pochi i libri a cui avrei potuto guardare per imparare qualcosa su di me. Eppure di recente, durante una conversazione col mio ragazzo su Il lamento di Portnoy, sono rimasta sorpresa dal fatto che lui non considerasse quel libro non solo come romanzo di formazione, ma specificatamente di formazione maschile, cioè che parlasse più a lui che a me: la mia necessità di posizionarmi come ragazza rispetto all’esperienza maschile, per esempio di fronte a un romanzo come quello, aveva finito per rendermi più consapevole del mio genere di quanto fosse accaduto a lui.
In più il suo libro non parla solo di cosa significa crescere all’interno dell’élite afroamericana: parla anche di cosa significa essere una donna e una donna di colore, parla di maternità, del suo lavoro di critica. Come possiamo trasformare il personale in universale, senza dover percepire il mondo come frammentato.
Questo, credo, è quello che vorresti che un libro riuscisse a fare: che chi lo legge possa scoprire qualcosa che non avrebbe mai conosciuto altrimenti. Della critica letteraria penso che sono progressivamente più e più interessata a un altro concetto di autorità: chi ha detto che deve essere questo giudice onnisciente? L’autorevolezza di una voce può anche derivare dall’ambivalenza, dal creare sentimenti contrastanti, dal porre domande scomode e complesse, senza avere risposta. La critica letteraria per me diventa interessante quando accetta di essere vulnerabile.
Ho letto Swing Time di Zadie Smith poco prima di iniziare Negroland: là la protagonista è la figlia di una donna eccezionale che è riuscita a emanciparsi dal ruolo che la società aveva previsto per lei, ma la figlia invece scopre di non essere affatto speciale, persino mediocre, eppure, per quanto non voglia affatto, non può tornare indietro; ormai è diversa da tutte le altre ragazze che la circondano, perché sua madre le ha dato in eredità una consapevolezza che non può dimenticare. Du Bois diceva che i membri del Decimo di Talento – ne parla in Negroland –, ovvero gli uomini migliori di razza nera, avrebbero dovuto guidare la loro gente e salvarla: persino questo privilegio – fatto di eccellenza, consapevolezza, ambizioni – è imposto da fuori, come una condanna.
La ribellione contro l’etica del lavoro è un argomento che torna spesso anche in Geoff Dyer: non a caso è figlio di operai.
In Swing Time c’è anche il desiderio di essere come tutti, di sbarazzarsi del fardello di dover diventare straordinari. Nel suo libro, poi, c’è una scena in cui guarda la sua domestica e si chiede quale sia la condizione più difficile da sopportare: essere per sempre solo una domestica o dover per forza diventare qualcos’altro. Anche in NW di Zadie Smith la razza finalmente incontra la classe: dico finalmente perché mi pare che si consideri troppo poco come queste categorie entrino in conflitto, in un certo senso perché consideriamo certe categorie come statiche, prive di sfumature al loro interno.
Ho l’impressione che ci sia voluto molto tempo per decidere di scrivere Negroland: racconta i difetti e le storture di quella che doveva essere una élite privilegiata e discriminata allo stesso tempo. Mostrare quanto non fosse perfetta può essere visto come un tradimento della causa: eppure dovremmo poter dire di essere vittime, senza dover essere innocenti.
Ho iniziato a pensare a come costruirlo nel 2008, ma il vero lavoro sul libro è durato quattro anni e nel 2014 l’ho pubblicato. In un certo senso, lo scrivo da sempre. Non è stato facile perché il codice di comportamento del mio mondo imponeva che nessuno dicesse mai niente che potesse mostrarci fragili, niente che dicesse che le nostre decisioni fossero meno che perfette. Fondamentalmente non sono stata cresciuta per scrivere un memoir e, invece, per una volta ho usato la mia critica su me stessa.
Negroland non è solo un modo per denunciare le mancanze e le storture di un mondo, ma anche per poter finalmente diventare se stessi.
A proposito della forma di Negroland: il suo è un memoir che usa una struttura particolare (parte dalla sua storia e la intreccia con dati storici, passa dalla prima persona singolare a quella plurale e così via, è un’opera coltissima e personale insieme) e in un certo modo molto specifica del tipo di opera che ha scritto – mi ricorda, tra le altre, la scrittura di Maggie Nelson.
Ha scritto un libro su Michael Jackson: lui, più di tutti è stata la personificazione di conflitti di genere, razza e classe, in un certo senso il case study migliore per gli argomenti che la interessano. Come ha iniziato a occuparsene?
Cindy Sherman, del resto, poteva tornare a essere se stessa, quello che modificava non era il suo corpo, la sua identità.
Non sorprende che lei abbia dedicato così tanto tempo a Michael Jackson, perché Negroland sembra il perfetto continuo per questa riflessione. Ma, mentre Jackson impersonava il conflitto razziale ed era la più grande star del mondo, oggi forse a farlo è Beyoncé con Jay Z: parlando di cultura black, di spazio, di corpo e di arte. La differenza è che loro ne rappresentano le lotte, non subendone, sul corpo, i tormenti: insomma, sono perfetti e così vogliono rappresentare un nuovo status quo, mentre la fragilità del corpo di Jackson non può non creare reazioni, spesso complesse, in chi lo osserva. Ritiene che la conversazione si è spostata negli ultimi quarant’anni o che sostanzialmente si tratti di una condizione più fortunata?
Certo c’era Prince, ma lui si è sempre tenuto un passo indietro. Beyoncé e Jay Z invece fanno parte di un parterre più ampio, c’è Rihanna, lo strano Kanye West, P. Diddy e tanti altri: hanno un mondo dietro, che Jackson non ha avuto. Così hanno oggi più spazio, più libertà per controllare il loro lavoro, per creare personaggi – non credi neanche per un secondo che Jay Z o Beyoncé hanno perso un po’ di controllo sulla loro vita privata. Quello che vorrei vedere adesso – perché mi piacciono molto, mi piace il loro potere, la loro creatività – è qualcuno che venga da questo mondo che sia meno controllato, più folle. Ad ogni modo stanno creando le condizioni per superare tutte quelle analisi psicologiche su se siano più o meno instabili, cosa che invece era costante con Jackson, per cui percepivamo che quel tipo di tormento esisteva. È un sollievo esserne liberati, perché così non sono obbligati a simboleggiare niente. Kanye West, pur non essendo Jackson, sta entrando in quel territorio in cui viene continuamento analizzato psicologicamente. Ecco però, per concludere vorrei qualcuno che abbia coraggio: mi piace molto Donald Glover e poi, ovviamente, Kendrick Lamar, direi che è promettente, se non fosse già quello che è oggi.