S e è vero che le nostre parole non sono in grado di definire l’intangibile, credo che a volte manchino di presa anche su ciò che vediamo, sull’oggetto di un’osservazione sperimentata per anni e alimentata dai cataloghi delle definizioni conosciute.
Atterriamo all’aeroporto di Cracovia con la speranza di vedere la città con la luce del tramonto. Eppure il buio si materializza velocemente e quando raggiungiamo il gruppo di studenti a cui siamo accorpati, la città si mostra nel suo splendore notturno. Il Treno della memoria prevede una visita teatralizzata del centro cittadino, con le mani riscaldate nei guanti e i corpi fasciati da giacconi imbottiti. Seguiamo i cartelli che dividono i cinquecento studenti riuniti in piazza Mariacki, primo di molti turni a venire. Il nostro gruppo è formato da una cinquantina di persone, tra cui studenti degli istituti secondari pugliesi, insegnanti, accompagnatori e volontari.
Gli attori indossano strati di lana, pastrani, cappotti di pelle e strofinano le mani sui pantaloni. I monologhi sono interpretati nelle piazze, vicino a mura medievali, di fronte a un semicerchio che si perfeziona di volta in volta. Raccontano ai ragazzi la storia della disfatta, del popolo che ha freddo e fame, della crisi in cui bruciano mobili e sedie per riscaldarsi. Parlano del Putsch fallito, dei manifesti che ritraggono Hitler, delle parole sacre che ognuno vuole sentirsi dire: pane, carbone, lavoro. La notte scende su Cracovia e trasporta ragazzi e studenti nei decenni, disegna le fiamme del Reichstag, la fine delle opposizioni, le storie dei capri espiatori condannati e uccisi di fronte alla folla, le parole stampate su opuscoli da studenti e professori che inneggiano alla resistenza passiva, la ghigliottina che spaventerà chiunque abbia a cuore la propria pelle. A cena mangiamo una zuppa Grzybowa: il profumo dei funghi ricorda la terra dei boschi e il vento che li attraversa. Tra due giorni cammineremo nel fango.
Abbiamo appuntamento alle 8:30 davanti all’ostello Atlantis, su un’arteria attraversata dai binari del tram. La strada si chiama Dietla e sotto il manto stradale una volta scorreva un fiume, ci racconta la guida, una sessantenne originaria di Varsavia. Indossa un berretto arancione e parla un italiano fluente. Entriamo nel quartiere ebraico – Kazimierz – dove convivono le sinagoghe e i locali in cui si suona musica klezmer. Un ragazzo di sedici anni, uno dei nostri, trema perché indossa un paio di jeans estivi squarciati in più punti. A un centinaio di metri dalla Synagoga Wolfa Poppera – la guida lo indica di fronte a noi – c’è un cimitero ebraico distrutto dagli scarponi delle SS.
Si tratta del Cimitero Remuh, chiuso dal 1800 e dilaniato dai nazisti durante l’occupazione: diventò una discarica, le lapidi furono frantumate, vendute o riciclate per la pavimentazione dei campi. Nel 1959 una squadra di archeologi scoprì che sotto i rifiuti decomposti c’era una montagna di cocci, di frammenti di cui nessuno si ricordava. Una delle poche pietre tombali sopravvissute agli stivali dei nazisti è quella del rabbino Moses Isserles: la guida racconta che in una fredda mattina, mentre i soldati cancellavano secoli di memoria tumulata, un uomo in uniforme si avvicinò con una pala alla tomba di Moses; morì sul colpo, spezzato da una forza oscura. Dicono che nessun altro provò a distruggere la pietra tombale del rabbino. I frammenti ritrovati, quei pezzi di materia appartenuta a tombe di ebrei morti nei secoli, sono poi stati raccolti e incollati sul muro interno del cimitero. Ricordano molti eventi, enormi sciagure.
Attraversando il ponte Powstańców Śląskich si vedono le aree industriali, i capannoni e le fabbriche che popolano l’altro lato della Vistola. Il vento cresce e ci accompagna fino all’ingresso della fabbrica di Oskar Schindler: ora è un museo dell’occupazione nazista in Polonia, un memento di ciò che è accaduto nelle terre occupate e ai popoli dominati.
All’uscita ci muoviamo in silenzio, in file ordinate. I ragazzi hanno smesso di ridere da ore. Qualcuno risponde al telefono e spiega che non può parlare. Camminiamo verso Bohaterów Getta, la piazza degli eroi del ghetto: un’installazione di settanta sedie rivolte ai campi di concentramento e di sterminio, ai binari della ferrovia, ai vicoli in cui venivano uccisi a sangue freddo i selezionati. Questa piazza era un punto di raccolta per le mete volute dal Reich, un luogo abitato da lunghe code, da schedari e divise, da cani addestrati e dal terrore di separarsi per sempre.
Al ritorno, oltre le acque scure del fiume, vediamo i resti del ghetto, delle abitazioni utilizzate come muri e delle finestre diventate cieche. Una città nella città costretta ad aspettare i rastrellamenti. Gli abitanti del ghetto sapevano che qualcuno avrebbe deciso per loro, di giorno o al buio, nella neve di febbraio o nel caldo torrido di luglio. Una macchia di fiori freschi di campo, un mazzo adagiato sulla targa quasi nascosta: qui, in un’aiuola, si ricordano gli orfani di Cracovia, i bambini mandati a morire nelle camere a gas.
La sera abbiamo bisogno di bere e di mangiare, e accettiamo l’invito degli adulti del Treno della memoria. Andiamo in un’osteria scolpita nel legno, con il muschio appeso alle travi e un odore dolciastro, accogliente. Il fuoco è alto nel camino e i volti al tavolo sono pronti per la giornata che verrà. Quasi tutti i nostri compagni di panca sono insegnanti e molti di loro sono veterani delle visite ad Auschwitz. Parliamo della storia come materia di insegnamento, dei genitori che hanno paura per i figli. Li ascolto mentre mi raccontano di un insegnante redarguito da un consigliere comunale della Lega: secondo l’uomo che fa politica l’uomo che insegna non dovrebbe esprimere giudizi sul Fascismo e sul Nazifascismo, non dovrebbe insegnare ai suoi figli che i documenti ritrovati, la cenere dei camini, gli occhi dei soppravvissuti sono una storia unica, fatta di memorie che nessuno può comprendere; secondo l’uomo che fa politica nei ranghi di un partito nazionalista, mi hanno raccontato davanti a una zuppa di barbabietola, è arrivato il momento di soppesare ogni parola, quando si racconta la storia.
Di notte, prima di addormentarmi, rileggo Se non ora, quando? di Primo Levi. Ho scelto di arrivare a Cracovia con questo libro, di entrare nelle foreste innevate con i partigiani ebrei e russi, di ascoltare il ritmo della penna del sopravvissuto che racconta una storia di resistenza. Leggere di Auschwitz a qualche ora da Auschwitz significherebbe prevenire l’urto delle immagini che verranno: non credo sia giusto.
Sono le 06:59. Partiamo dalla Dietla, a pochi passi dal quartiere ebraico di Cracovia. In autobus, direzione Auschwitz. Un gruppo variegato di studenti pugliesi, di insegnanti e accompagnatori. Siamo in partenza per la meta di un viaggio che deve proseguire. Anthony, volontario di 19 anni, accende il microfono: parla del più grande cimitero d’Europa, come il Mediterraneo, un posto in cui i corpi non vengono tumulati ma scompaiono nel fumo e nell’acqua; spiega la necessità di evitare selfie e fotografie di gruppo; la nicotina non è consentita; il cibo non potrà essere consumato nel campo, perché nel campo non c’era cibo.
È un volontario che dà informazioni a ragazzi poco più giovani di lui: lo ascoltano con rispetto; meglio di un docente, forse, e meglio di una figura adulta incapace di correggere la distanza con la lingua, con i gesti. Anthony spiega che sarà impossibile sedersi, che ognuno dovrà rispettare i binari, le pietre, i cumuli. Fuori è buio, la temperatura è di cinque gradi sotto lo zero, il traffico è scorrevole. Le voci sono basse e il ricordo del caffè macchia le labbra. Indossiamo tessuti tecnici, scarponi caldi, giacche da neve, cappelli, copriorecchie, guanti, sciarpe. Il ragazzo che tremava nel quartiere ebraico ha imparato la lezione del freddo. Il tepore dei corpi dipinge i finestrini e ci accompagna nel viaggio. Nel posto davanti a noi una delle volontarie, Veronica, racconta a due insegnanti la storia del suo cognome, nato da un errore all’anagrafe per la modifica di una consonante: un cognome compare sulla carta per la prima volta e viene confermato nei registri per decenni, a volte secoli; è in grado di scomparire per una trascrizione sbagliata, perché le nostre memorie sono fatte di circostanze e di eventi che non possiamo arginare.
L’estinzione ha attraversato queste campagne gelate, queste terre che vediamo nell’alba, i piccoli centri abitati, i sentieri che salgono verso le colline, i boschi radi e spogli. Le ragazze e i ragazzi viaggiano in silenzio, scrivono messaggi alle famiglie, dormono nei loro vestiti tecnici acquistati in qualche grande magazzino. L’autostrada è percorsa da mezzi pesanti e da automobili coperte da un velo di brina gelata. La direzione è Katowice, dove lasciamo la A4 e imbocchiamo una provinciale, la 933. Qui i boschi si infittiscono, si allargano in vallate che nascondono paesini e cimiteri sormontati da croci. Ora sui campi, sui tetti delle case, delle officine e dei box spuntano croste di ghiaccio. I cartelli indicano Oświęcim, Auschwitz. Ad una rotonda incrociamo un tir carico di tronchi della Slesia: sono simili a quelli usati per costruire le baracche nei campi.
I pullman provenienti da mezza Europa scaricano gli studenti infreddoliti nel grande parcheggio. Le lingue si affastellano, sussurrate tra i gas di scarico e l’orizzonte di muri, torrette e filo spinato. Formiamo una lunga fila per entrare e riproduciamo il rito dell’attesa.
Entriamo nel museo dell’orrore. Il gergo del campo è unico e non può essere riprodotto. I sopravvissuti ricordano che ogni lingua ha dato il suo contributo al linguaggio dell’ecatombe: le parole non avevano più una relazione con la vita di prima; le parole diventavano il confine tra un mondo allucinato e un mondo reale.
A una prima osservazione la guida che ci è stata assegnata sembra una donna severa. Conosce il valore delle pause, dirige lo sguardo sul gruppo che la insegue: percorre velocemente i blocchi, pronuncia i nomi della gerarchia del campo, indica gli oggetti preservati dal vetro delle teche. Non lascia spazio al dubbio, alle emozioni di chi la ascolta. Ogni piccola tappa del percorso verso lo sterminio è disegnata con cura. L’eredità complessa della cultura polacca non concede molto alle domande. Ascoltandola ho l’impressione che il partito nazionalista al comando abbia dettato un’agenda in cui il tedesco, il nazista occupante, sia l’unico carnefice esistito. I campi sono definiti nazisti. I criminali che hanno operato, torturato, umiliato, ucciso e bruciato sono nazisti. Nella sua voce riconosco gli assoluti di una visione che non vuole fare i conti con le increspature e gli abissi degli eventi accaduti.
Le delazioni fatte dalle popolazioni europee ai danni di ebrei, dissidenti, tzigani e omosessuali sembra siano state cancellate dalla storia. Nessuno di noi può pesare la gravità di chi ha collaborato all’annientamento dei suoi stessi compagni, ma non possiamo neanche permetterci di entrare in quel tempo senza tempo con il vestito della vittima. Siamo stati chiamati a custodire il nervo della testimonianza e siamo responsabili delle carneficine avvenute nel nostro tempo. L’eredità è rivelata dai cumuli di capelli, di valigie, di scarpe, di occhiali e dai volti fotografati, dai loro occhi che possono urlare e piangere e smettere di respirare. Ovunque gli uomini producano la carneficina dell’altro e l’indifferenza verso il fatto accaduto siamo tenuti a opporci, a fare scudo, a confermare che la testimonianza dell’orrore è iniqua se incapace di vedere l’ingiustizia crudele nel nostro presente.
Il freddo può rallentare le giunture, può oscurare la vista, congelare i rumori. I suoni in un campo gelato, nascosto tra i boschi, sembrano miraggi colpevoli. Ho l’impressione di crearli, di farli crescere. Ho la sensazione che tutti i presenti, le carovane di osservatori molto coperti e i loro prolungamenti social, non stiano ascoltando fino in fondo. Ci sono momenti in cui vorrei inginocchiarmi nel fango per capire se queste voci sono reali, se questo silenzio prodotto da migliaia di scarpe e stivali sia vero. Poco prima di entrare a Birkenau ho visto abitazioni a due piani costruite con i mattoni delle baracche smantellate nel 1945. Sono soltanto mattoni, si dicevano i polacchi a cui erano state requisite le case durante l’occupazione. Come il marmo dei templi, nelle acropoli delle colonie greche, come ogni volta che un uomo è stato costretto ad affrontare il suo tempo, a dimenticarlo, a sopravvivere.
Dopo un pranzo veloce, il pullman ci porta a tre chilometri da Auschwitz. Siamo a Brzezinka, dove c’erano oltre trecento baracche. Siamo a Birkenau, dove finivano coloro che sarebbero stati gasati e cremati. Il fango della Slesia ci rallenta e ci segue nell’orizzonte che incontra ruderi sotto il cielo ovattato. L’umidità e il freddo crescono mentre la luce del sole si allontana. La visione è spettrale e ci porta claudicanti negli interni in cui le donne e gli uomini defecavano, nelle stanze in cui l’acqua gelida e sporca veniva usata per lavarsi gli occhi e strofinare la pelle mangiata dalle infezioni e dall’avitamonosi.
Lo spazio qui non ha punti di fuga. Il campo sembra cibarsi di altri campi, fino all’infinito. Difficile immaginare altro oltre le recinzioni elettrificate. Impossibile non immaginare l’effetto delle ciminiere dei crematori in funzione, l’odore dei corpi bruciati. Qui ognuno di noi esce dalla sua vita per incontrare la selezione finale. La guida ci implora, siamo in ritardo sulla tabella di marcia. Nessuno è in grado di distogliere lo sguardo dagli acquitrini in cui venivano gettate le ceneri. Nessuno parla davanti allo scalo ferroviario. Il crematorio distrutto dai detenuti il 7 ottobre del 1944 è il simbolo di una rivolta che fatico a dimenticare; gli altri crematori sono stati distrutti dalle SS per non lasciare tracce. Verso le quattro del pomeriggio il fango diventa solido e la neve ghiaccia appena caduta. Il vento entra nelle baracche in muratura e accarezza le cuccette in cui dormivano in otto. Le nostre posture sono cambiate, in queste ultime ore. Ci pieghiamo per vedere un lavatoio, per guardare meglio tra le ombre, nella paglia rancida, fino alla pelle dei malati di tifo, di consunzione, di fame che tira la pelle verso le ossa, di incubi che molti di noi faranno a lungo, nei letti caldi delle nostre notti serene.
Sono agnostico e provo rispetto per la fede, per la forza che ha infuso e che continua ad infondere in chi resiste alle torture, alle marce della morte, ai bombardamenti e all’annientamento. Tra i sopravvissuti ai campi di concentramento e di sterminio c’erano quelli come Charles Liblau, che non volevano morire senza resistere, che volevano resistere per sopravvivere ai carnefici. Dovevano vivere perché avevano milioni di prove da recapitare agli aguzzini. Altri sopravvivevano per la fede, grazie al calore delle loro preghiere. E quando andavano alle camere a gas sapendo di morire, non piangevano. Pregavano. I dirigenti impazzivano di rabbia e li umiliavano. In pochi cedevano.
“Nessuna forza poteva strappare ai condannati il loro credo profondo”.
Altri ancora pensarono quello che ha scritto Jean Améry:
Non si assiste a fatti e misfatti dell’uomo disumanizzato senza che vengano messe in discussione tutte le idee circa l’innata dignità dell’uomo. Dal lager uscimmo denudati, derubati, svuotati, disorientati e ci volle molto tempo prima che riapprendessimo il linguaggio quotidiano della libertà. Ancora oggi del resto nel parlarlo siamo a disagio e senza un’autentica fiducia nella sua validità.
La percezione di un luogo contaminato varia da persona a persona, da stagione a stagione, dal buio alla luce. Un amico mi ha raccontato di essere stato nei campi sette anni fa. Fece un giro inverso rispetto al nostro: vide prima Birkenau, al mattino, e soltanto nel pomeriggio riuscì ad entrare ad Auschwitz. La notte era ovunque e le luci dei lampioni tra le baracche lo spaventarono. Camminava da solo, il fiato denso e il polso accelerato. Nelle baracche, nei blocchi delle donne, nei padiglioni quasi deserti. Visse un’esperienza di lacrime, di pelle trapassata da brividi, il cuore impazzito. Da allora ricorda che Auschwitz è un luogo possibile in qualsiasi tempo.
Il giorno dopo riempiamo l’aula magna dell’Università di Cracovia. Più di cinquecento studenti, insegnanti, educatori e volontari riuniti per l’assemblea plenaria del Treno della memoria. Gli interventi alternano riflessioni sulla zona grigia, su chi sono i carnefici silenziosi, sulle deportazioni che avvengono nel nostro presente, che confermano le parole di Levi quando scrive “è avvenuto, quindi può accadere di nuovo”. Una studentessa gela l’aula: racconta di essere l’unica della sua classe ad aver intrapreso questo viaggio; i suoi compagni si salutano con il saluto fascista.
Il sedicesimo intervento è di un uomo che non avevo ancora visto. Racconta di aver rimandato per anni la decisione di venire. Racconta di aver viaggiato da ragazzo, quando aveva un paio di anni in più dei ragazzi presenti nell’aula. Dice di aver avuto paura per molto tempo. Quel viaggio lo ha portato in Argentina e il caso ha voluto che fosse il 1976. Il generale Videla capeggia il colpo di Stato e lui si ritrova in una cella perché ha dimenticato i documenti nell’ostello. Al buio, dietro le sbarre, in uno spazio sovraffollato, capisce che sta accadendo qualcosa di terribile. 30.000 persone scompaiono in tutto il paese. Torturati e morti.
In quella cella l’uomo che è ancora un ragazzo assiste a un evento che lo cambierà per il resto della sua vita: l’aula magna ascolta in silenzio le sue parole; in quei momenti oscuri, lui sa di aver scelto la zona grigia, sa che si porterà addosso quel peso per il resto della sua vita, sa che il silenzio di fronte all’ingiustizia scaverà un abisso che non riesce ancora a descrivere. Molti anni dopo ha scelto di superare la zona d’ombra e ha testimoniato in un processo di mafia. Aver fatto la cosa giusta non gli ha restituito il sonno sottratto, ma ha riacceso una luce che era spenta da anni.
Le foto pubblicate nell’articolo sono dell’autore.