

F ra le tante carte venute alla luce dopo la morte di Lucia Rodocanachi, il 22 maggio 1978, un corposo gruppo di lettere conservate per decenni lasciava emergere la trama di una vicenda editoriale tanto interessante quanto desolante e, per alcuni, scandalosa. Eppure, non si sbaglierebbe affermando che la sua storia, pur a distanza di oltre quarant’anni, continui a rimanere perlopiù sconosciuta, benché Rodocanachi sia stata la ghost translator di importanti nomi del mondo letterario italiano fra gli anni Trenta e Quaranta, compresi Eugenio Montale, Carlo Emilio Gadda ed Elio Vittorini. Il suo nome non comparve quasi mai sui libri a cui lavorò; al suo posto, c’è la firma – sempre maschile – di chi con mirabolanti salamelecchi le commissionava quei lavori. “Si diverte tanto a tradurre?”, le scrisse una volta Vittorini con notevole mancanza di perspicacia, viene da pensare, o, peggio, con totale malafede.
Santa patrona di tutti coloro che svolgono lavori culturali senza riconoscimento, Lucia Rodocanachi (il cui cognome da nubile era Morpurgo) nacque a Trieste nel 1901. Per il lavoro del padre, commerciante di caffè, la famiglia si trasferì a Genova quando la ragazza era adolescente. A confronto della città d’origine, la Liguria di quegli anni non le offriva che ragioni per sentirsi irredimibilmente nostalgica (“Lucia che xe sempre triestina”, si firmava scrivendo a una compagna degli anni giuliani). Si formò quindi all’Accademia di Belle Arti a Genova, partecipando anche in un paio di occasioni alla Mostra internazionale di Arti decorative di Monza. Frattanto, stringeva amicizia con pittori e poeti. In un ritratto fattole da Oscar Saccorotti sul finire degli anni Venti è seduta davanti a una finestra; alle sue spalle, oltre i vetri, un giardino spoglio, invernale. Una mano regge la testa come in un emblema della malinconia, l’altra è nascosta nel grembo. L’espressione della bocca tradisce disappunto, gli occhi invece curiosità.
Dopo il matrimonio con Paolo Stamaty Rodocanachi, pittore di origini greche la cui famiglia da secoli svolgeva incarichi consolari nella città ligure, si trasferì con lui ad Arenzano. Una decisione da lei non voluta, almeno così pare, e sofferta anche ad anni di distanza: l’isolamento della vita in villa (“grondo solitudine”, scriveva) non si era addolcito con il tempo. Dopotutto, doveva trattarsi di una soluzione temporanea per consentire al marito di dipingere all’aria aperta e aveva invece finito per assumere i tratti di un destino. Se c’era stato mai il sogno di coltivare la vocazione artistica o letteraria, qui s’infranse: difficile scrivere romanzi se c’è qualcuno di cui prendersi cura totalmente – se si è, come lei stessa scrive, “alle prese con la dura realtà delle pentole e delle scope”. Per distrarsi, non le rimaneva che organizzare ricevimenti comme il faut e leggere, talvolta le due cose insieme (“lavavo i piatti leggendo James”, così lei). E ai ricevimenti e alla lettura dedicò infatti tutta sé stessa.
Ma Lucia Rodocanachi non è una Cenerentola né un personaggio di Buñuel, né tampoco una signora Bovary: la “Sévigné del nostro secolo”, la definì con più precisione Montale. Attorno a Villa Desinge, dove viveva con il marito, negli anni Trenta si formò un cenacolo artistico e letterario di cui lei era il centro di gravità, attorno al quale “i poeti si radunavano” (così disse Orsola Nemi). “Ci era apparsa all’ingresso delle Giubbe Rosse come una dea”, raccontò Sebastiano Timpanaro nel settembre del 1935. Ma erano anni infausti per un gruppo che coltivava con pari dedizione la xenofilia delle letture e il dialetto, entrambi apertamente osteggiati dal fascismo. Facile, in quelle circostanze, sentirsi “cittadini stranieri in un paese dittatoriale”, come anni dopo scrisse Lucia Rodocanachi ripensando a quel decennio. La vita in villa, nonostante i tanti ospiti, era venata di malinconia, si respirava un’“atmosfera di villeggiatura gozzaniana”, di Weltschmerz, con le ombre che si facevano più lunghe di giorno in giorno.
Vuoi per le origini nel continente in miniatura che era la Trieste di inizio Novecento, vuoi per il fatto che la tebaide di Villa Desinge sembrava accorciare le distanze con il vasto mondo da cui provenivano le sue letture, era inevitabile che la cosmopolita repubblica delle lettere diventasse nella sua vita interiore una pratica e non soltanto un ideale. Rodocanachi conosceva l’inglese, il francese, il tedesco, lo spagnolo. Per i poeti e gli scrittori che la frequentavano, il suo aiuto era prezioso. Da un certo momento in poi anche troppo.
La firma sul prodotto finale non era mai la sua. A loro la poesia, il genio, lo scarto dalla norma; a lei spettavano semmai un compenso economico – spesso in ritardo e fra grandi incertezze e imbarazzi –, riconoscenza, riverenze e promesse varie.
Con encomiabile concisione, ancora nel 1942 Montale spiegava in questo modo il loro protocollo a proposito di un romanzo: “Si potrebbe tradurlo insieme […]. Si potrebbe fare così: tradurlo per conto nostro, senza parlarne a nessuno, e a cose fatte vendere il ms a Einaudi o a qualche altro, s’intende col mio nome”. Più eloquenti le lettere speditele da Gadda (raccolte da Giuseppe Marcenaro in Lettere a una gentile signora, 1983), in cui l’ingegnere confessa all’amica angosce, rovinosi sensi di colpa e tutto il bestiario delle ipocondrie, oltre a offrire a noi oggi il romanzo tragicomico delle loro collaborazioni. Nel 1938, Gadda si domanda per via epistolare come frazionare il compenso per una traduzione papabile: “Se fosse un libro non letterario e se lei potesse farmi la traduzione quasi definitiva e io avessi davvero poco lavoro, potrei lasciare a lei il maggior utile: e contentarmi di un quasi parassitario prelievo, dovuto alla mia qualità di grand’uomo (semi-fesso). Del resto, scrive meglio Lei di me”. Quindi, chiarita la natura del libro, un testo di chimica industriale di taglio divulgativo:
potrei contare sulla sua collaborazione piena per la traduzione? Si tratta di chimica facilissima spiegata alle balie (scusi, era per dire che è facile) […]: l’importante per me è che, se accetto di tradurlo, ho assolutamente bisogno dell’opera Sua, essendo già molto impegnato […]. Credo che dovrò “rivedere” (per modo di dire) il suo testo, sia per fare onore alla firma, sia per quel po’ di magra scienza che vi fosse. Ma penso che se Lei mi prepara già una traduzione spigliata, la mia revisione si ridurrà a una semplice lettura. La divisione del magro bottino si avvantaggerà a suo favore: e sarò onestissimo nella valutazione della reciproca fatica: se la mia fosse nulla o quasi, mi considererò un volgare sub-appaltatore anche nel premio. Occorre però che del sub-appalto, nel quale non vedo niente di male di fronte alla legge divina, sia rigorosamente taciuto: anche per ragioni di mondana, editoriale opportunità.
Ma questi, appunto, sono fatti resi noti da decenni. Ciò che invece è mancato finora è la voce della diretta interessata, costretta, anche nel tentativo di riscoperta e riabilitazione della sua figura dimenticata, a comparire in qualità di muta vittima – di un sistema, di un’epoca, di una cultura o degli uomini, a seconda delle antipatie di ciascuno. Sono state pubblicate, nel corso degli anni, le lettere speditele da Vittorini, da Montale, da Gadda. Ma sono sempre state lettere a Lucia, non di Lucia. È ben diverso. Di fatto, ha significato mettere l’accento su di loro, mai su di lei. E la spiegazione è semplice e sconsolante: lei, “inguaribilmente fedele agli amici” come di sé scrisse, conservò per tutta la vita le lettere ricevute dai corrispondenti, i quali, di contro, quasi mai tennero le sue. Anche qui “ragioni di mondana, editoriale opportunità”?
Ciò che è mancato finora è la voce della diretta interessata, costretta, anche nel tentativo di riscoperta e riabilitazione della sua figura dimenticata, a comparire in qualità di muta vittima.
Bianchi, “ospite inospitabile” come si presentava, incarna il perfetto dilettante dalle tendenze dandistiche: un po’ scrittore, un po’ poeta, un po’ pittore, in grossa parte svogliato e inconcludente. Ricco di famiglia, propugnatore di un sistema filosofico che pare una sintesi sorniona di stoicismo, taoismo e dolce far niente, poté permettersi sia di sprecare i suoi talenti, sia di farsi carico economico di riviste letterarie, come quando, con i soldi del padre, cercò di dare continuità a Circoli, un periodico genovese il cui comitato di redazione comprendeva Angelo Barile, Giacomo Debenedetti, Montale, Camillo Sbarbaro e Sergio Solmi, oltre allo stesso Bianchi. Nel 1932 ne divenne condirettore; tre anni dopo aveva abbandonato la nave. Intanto, si dava alla scrittura e alla pittura senza pressioni professionali, obblighi produttivi e imperativi di vendita. Era talmente libero, in questo senso, che poteva dare del venduto a Montale, cosa che fece. Ma la libertà ha un prezzo da pagare, notoriamente salatissimo anche per un ereditiero scioperato, e a maggior ragione se ossessionato dall’idea di meritarsi la gloria letteraria. Ma per scrivere serve disciplina, troppo alto è il rischio del rifiuto o di rimanere delusi da sé stessi e dal mondo. Come se non bastasse, intraprendere alcunché sembra sempre innaturale e inelegante a coloro in cui lo spirito è qualcosa.
C’è una tremenda ironia nel fatto che per rendersi conto di quale mancata scrittrice sia stata Lucia Rodocanachi sia necessario ripercorrere l’epistolario da lei tenuto con un altro scrittore fallito, il più improbabile, Guglielmo Bianchi.
Ma Bianchi non era il solo a credere nel proprio talento. Rodocanachi, la sua “dinamo”, lo incoraggiava a scrivere, a creare, e non perdeva occasione per ribadire il suo invito ad andare a trovare lei e il marito in villa, augurandosi di poter godere della sua squisita compagnia. D’altro canto, la solitudine per lei era lancinante e solo qualche volta veniva Roberto Bazlen a farle da consolatore o da analista: “vivo ormai di auguri e dell’affetto degli amici”, scrive lei a Bianchi, “tutti gli altri cibi più sostanziosi mi sono stati tolti”, e ancora: “a me i corvi invece di pane come al Santo nel deserto portano lettere”. Talvolta, per celia, Bianchi le rimproverava una certa frivolezza, che Rodocanachi indossava come il distintivo della padrona di casa. “Mio caro”, gli risponde lei,
è solo con le coeur triste et l’esprit gai che potremo sollevarci dalla nevrastenia e da tutto per essere pronti a sopravvivere non solo allo stato di relitti. Dopo una notte d’insonnia si vanno a cogliere i fiori per adornare la casa, si studia il menu, si fa la spesa, si prepara il pranzo. Non credere che la mia vita sia molle di ozii borghesi, lavoro nel vero senso della parola, ho appena una piccola selvaggia che mi aiuta nel lavoro di casa accresciuto e complicato dalle circostanze […]. Leggi Barbey d’Aurevilly e vi vedrai meglio di quanto io non possa farlo la lode della frivolezza e del dandysmo interpretato quale eroismo e massima di vita.
Due sensibilità rare, le loro, passate senza lasciar traccia o quasi. Da un lato, uno che evita il riconoscimento e tuttavia lo brama; dall’altro, una che al riconoscimento rinuncia, e in ogni caso non potrebbe ottenerlo. Lui, che i compromessi li aveva sempre fuggiti o rifiutati, e lei, che non aveva fatto altro che accettarne. In questo senso, sono più simili di quanto si immagini. Spiegando come lo stesso tipo di lavoro potesse essere produttivo o improduttivo, Marx faceva l’esempio dello scrittore: chi sforna opere letterarie a ritmi e con modalità industriali per stare al passo con i dettami del mercato e le necessità dell’editore è un lavoratore produttivo a tutti gli effetti, mentre John Milton, che vendette il manoscritto del Paradise Lost per cinque sterline, è chiaramente improduttivo. Milton, così Marx, scrisse il suo capolavoro “per la stessa ragione per la quale il baco da seta produce la seta. L’attività era parte della sua natura”. Chi gliel’ha fatto fare? chiede il volgo profano. La risposta si trova forse in Kafka, quando scriveva a Felice di sentirsi un essere “incatenato con invisibili catene a una letteratura invisibile”, il quale “grida se qualcuno si avvicina, perché pensa che tocchi quella catena”.
Due sensibilità rare, passate senza lasciar traccia o quasi. Da un lato, uno che evita il riconoscimento e tuttavia lo brama; dall’altro, una che al riconoscimento rinuncia, e in ogni caso non potrebbe ottenerlo.
Ho sempre l’idea che la mia mancanza d’impegni quotidiani e quella di rapporti sociali ed umani mi permetterebbe di sparire senza lasciare traccia, come un oggetto di poco uso della cui scomparsa ci si accorge a volte dopo mesi o dopo anni, perché la sua funzione non era né definitiva né necessaria, né occupava uno spazio determinato in senso effettivo. Non credo cioè, e sta diventando una mania, alla realtà della mia esistenza.
Così, nel 1938, quando il vecchio continente pareva sull’orlo del suicidio, questo Peter Walsh in carne e ossa scelse per sé stesso “la parte dell’illustre scomparso” e raggiunse il fratello a Buenos Aires. Era il compimento di un’ambizione coltivata per tutta la vita, ciò che le curatrici del volume chiamano il suo “culto dell’assenza”, già prefigurato nelle continue sparizioni, nei silenzi per cui Rodocanachi lo rimproverava. A separarli, adesso, c’era un oceano; “il mio naufragio”, disse lui, era compiuto. Tornò in Europa dopo la guerra, ma allora, come di lui scrisse Carlo Bo, aveva perduto “quello spirito ironico che lo faceva ospite del mondo. Sentiva che il mondo aveva cambiato abiti e modi e probabilmente non si trovava più con le abitudini di un tempo”. Era riuscito a farsi dimenticare per davvero. Gli amici gli avevano voltato le spalle, eccetto Rodocanachi, come lui naufraga, benché anche fra di loro qualcosa sembrasse essersi rotto.
Le lettere di Rodocanachi dell’immediato dopoguerra ci offrono uno scorcio di quella terra di relitti che era all’epoca l’Italia e sono il saggio inconfutabile del romanzo che lei non scrisse mai.
Restano, sul finale, il “rammarico del poco compiuto” e “la convinzione che meno sarebbe stato ancor meglio”. E tuttavia, scrive Bianchi a Rodocanachi, “il poter credere che uno spirito gentile ha scoperto e apprezzato in noi qualche cosa di insolito e lo ha avvalorato e custodito è già una grazia fondamentale”. È vero, nessuno dei due ha avuto il successo che meritava, o che pensava di meritarsi. Anche per questo, però, entrambi hanno potuto coltivare qualcosa di ancora più raro, ancora più prezioso, qualcosa che cresce alla larga dal mercato e al di fuori delle logiche editoriali: sé stessi.