Q ualche tempo prima di spararsi un colpo di rivoltella, Carlo Michelstaedter mise per iscritto un singolare elenco di “tesine da proporre in futuro”. Fra queste, troviamo una “Rivendicazione di Enrico Ibsen dalla rettorica dei letterati e attori moderni” e una altrettanto perentoria “Rivendicazione d’un passo dell’Ecclesiaste dalla rettorica delle traduzioni”. Ignoriamo a quale passo e a quali traduzioni si faccia riferimento, ma una cosa è certa: la rettorica (la finzione della comunicazione, l’apparato occultante, le parole che, come scrisse Michelstaedter nella tesi di laurea, “significano quanto [gli uomini] non sanno e di cui hanno bisogno per lenire il dolore – o rendersi insensibili al dolore”) ha finito per soffocare ciò che c’è di vitale e persino di necessario alla vita nella Scrittura, al punto da farne lingua morta.
È il rischio che sempre e da sempre corre la parola scritta: farsi geroglifico indecifrabile e dover attendere migliaia di anni l’avvento di un solerte Champollion. Tuttalpiù diventare un classico che prende polvere sugli scaffali, riverito, smerciato tramite categorie scolastiche e, in definitiva, ben poco capito. È un rischio che, di questi tempi in cui, per effetto domino della morte di Dio, si è esaurito anche l’anticristianesimo, le scritture un tempo sacre corrono più di altri testi. E lo sapeva bene Sergio Quinzio, il quale, nonostante fosse l’autore di un poderoso Commento alla Bibbia (1972-76), in Dalla gola del leone (1980) arrivava a dire: “Sebbene ami tanto le Scritture provo dinnanzi al Libro di Dio il fastidio che sia un libro, parole scritte”. “Littera enim occidit”, scriveva Paolo ai Corinzi, “Spiritus autem vivificat”: la lettera uccide, lo Spirito invece dà la vita. Ma come si può tentare di rianimare una carta sempre più stanca, una lettera sempre più moribonda?
Il dolce e il dilettevole
Ogni volta che esce una nuova edizione della Bibbia al di fuori dell’editoria confessionale, viene sempre commercializzata come un nuovo inizio, come se il testo tornasse a vivere per la prima volta dopo millenni di sonnolenza e false spoglie. Non si potrebbe far diversamente: come rinnovare altrimenti la facciata del libro più tradotto e più venduto al mondo? Difficile dare vesti nuove a ciò che, più di tutto, rappresenta il vecchio, e che peraltro, in certi contesti, sembra difendersi degnamente da solo (nel 2024, negli Stati Uniti, raggiungerà il traguardo di oltre 15 milioni di copie vendute).
Ogni volta che esce una nuova edizione della Bibbia al di fuori dell’editoria confessionale, viene sempre commercializzata come un nuovo inizio, come se il testo tornasse a vivere per la prima volta dopo millenni di sonnolenza e false spoglie.
Così, per esempio, la Bibbia pubblicata da Einaudi nel 2021, diretta da Enzo Bianchi e curata da Mario Cucca, Federico Giuntoli e Ludwig Monti, incarna lo spirito ecumenico e vuole pertanto essere, come informa la fascetta, “una grande traduzione per i credenti e per i laici”, oltre che per i fedeli di tutte le tradizioni religiose. Non è la prima versione interconfessionale in Italia: basti pensare alla Bibbia concordata, a cura della Società Biblica Italiana, pubblicata da Mondadori nel 1968. Ma erano tempi in cui l’entusiasmo, o se non altro la curiosità per il rinnovamento della Chiesa promosso dal Concilio Vaticano II, potevano giustificare un po’ di ottimismo, anche nel dialogo fra religioni. Oggi, a queste latitudini, si può tuttalpiù sperare che la Bibbia, al di fuori del suo tramontante uso liturgico e, in generale, religioso, resti l’imprescindibile “grande codice” dell’Occidente di cui parlava Northrop Frye, aperta a letture infinite, tanto di chi crede quanto di chi non crede, o crede in altro. Se, però, il suo valore storico e culturale è innegabile, gli stessi curatori sono costretti ad ammettere che il linguaggio e le categorie del “libro di tutti i libri”, come lo definiva Goethe, “risultano poco accessibili al lettore contemporaneo”.
Una risposta al problema è la storicizzazione. L’edizione dei Vangeli uscita per Quodlibet qualche mese fa con traduzione e commento di Giancarlo Gaeta nasce – così spiega la nota iniziale – “col proposito di offrire al lettore un accesso quanto più possibile diretto a testi che in massimo grado hanno nutrito la cultura europea in tutte le sue espressioni”, i quali però “proprio per questo sono stati sovraccaricati da comprensioni, spiegazioni, applicazioni varie in funzione del pensiero teologico o dell’istruzione religiosa o della riflessione morale, cosicché poca o nulla consapevolezza c’è della loro genesi e funzione originaria”. La voluminosa edizione, riccamente glossata, si propone quindi di “aggirare il sapere religioso accumulato secolarmente” per “apprezzare la specificità dei racconti” dei quattro evangelisti, privilegiando come metodo “l’indagine storica”.
Un’altra possibilità – ciò di cui ci si vuole occupare qui – è quella, variamente declinata a seconda dei Paesi, delle lingue e delle tradizioni, di affidare la resa stilistica del testo a letterati di professione, e non (o non solo) a esegeti e biblisti. Non si tratta, quindi, di misurare la distanza di chi legge dal tempo in cui il testo è stato scritto, né di calare quest’ultimo nel suo giusto contesto storico, linguistico e culturale, quanto di dare alle parole un abito nuovo, più adatto alla loro ricezione odierna, di offrirle alla lettura, più che allo studio o all’impiego nel culto, e dunque di mettere in risalto il loro carattere squisitamente letterario.
Oggi, a queste latitudini, si può tuttalpiù sperare che la Bibbia resti l’imprescindibile “grande codice” dell’Occidente di cui parlava Northrop Frye, aperta a letture infinite, tanto di chi crede quanto di chi non crede, o crede in altro.
Nel 1947, all’inizio della sua carriera di editore, Neri Pozza diede alle stampe un’opera straordinaria sotto molti aspetti, fra cui la lungimiranza: un’edizione del Vangelo affidata a quattro scrittori e poeti. Nicola Lisi, toscano di fede cattolica e autore di eccezionali racconti stralunati, aveva curato Matteo; il laico Corrado Alvaro si era preso Marco, con il suo stile scarno; al tardo crepuscolarismo del poeta veneto Diego Valeri era stato assegnato Luca; infine, Massimo Bontempelli, maestro della letteratura metafisica, aveva tradotto Giovanni. L’opera ottenne un considerevole successo, mettendo d’accordo tanto i lettori laici quanto L’Osservatore Romano. D’altronde, oltre alla sopraffina qualità della scrittura, elevata da Neri Pozza a valore fondante dell’operazione (Lisi e Bontempelli, per inciso, erano stati fra i selezionati per l’antologia continiana Italie magique del 1946), il suo Vangelo aveva ottenuto l’imprimatur dalle autorità ecclesiastiche.
Non bisogna dimenticare che, prima del Vaticano II, leggere e tantomeno tradurre la Bibbia in lingua moderna era pressoché impossibile nei Paesi di tradizione cattolica. E, quando tradurla liberamente fu possibile, ormai, di fatto, la Bibbia iniziava a interessare sempre di meno. Dopo il Concilio di Tours (813), che aveva decretato l’uso del latino per la liturgia e la Parola, concedendo il volgare per la predicazione, la prima traduzione completa del Nuovo Testamento in Italia aveva dovuto attendere la metà del Quattordicesimo secolo, mentre la prima Bibbia in volgare italiano a stampa era stata quella di Niccolò Malermi, prodotta a Venezia nel 1471 (una ventina di anni dopo la Vulgata di Girolamo stampata da Gutenberg). L’evento aveva generato un’ondata entusiastica proseguita nei decenni successivi, prima di spegnersi definitivamente con la Controriforma.
L’edizione dei Vangeli uscita per Quodlibet qualche mese fa nasce “col proposito di offrire al lettore un accesso quanto più possibile diretto a testi che in massimo grado hanno nutrito la cultura europea in tutte le sue espressioni”.
Le traduzioni parziali o complete dei secoli precedenti, quando lettura e scrittura erano patrimonio dei pochi che, in ogni caso, padroneggiavano il latino, non avevano goduto della stessa potenzialità sovversiva, o divisiva, mentre la religiosità popolare aveva sempre avuto poco o nulla a che fare con la Scrittura. Alla metà del Sedicesimo secolo, invece, con il Concilio di Trento e l’Index librorum prohibitorum, la diffusione, la stampa, la traduzione e la lettura stessa della Bibbia venivano severamente regolamentate per scongiurare ulteriori rotture in seno alla cristianità. Rigettare la traduzione dei libri sacri nelle lingue moderne stabiliva a tutti gli effetti una difesa della tradizione, dunque dell’autorità papale e del suo magistero, e stabiliva una volta per tutte il primato della Vulgata, tanto che, ancora a inizio Novecento, nel mondo cattolico era essenzialmente vietato leggere la Bibbia in volgare – e specialmente se c’era l’aggravante del traduttore non cattolico, come nel caso del valdese Giovanni Luzzi. Le cause storiche della scarsissima popolarità della Bibbia in Italia sorgono da qui, ulteriormente complicate dal fatto che, a differenza del castigliano, la lingua italiana nei secoli dopo la Controriforma non ha prodotto una grande letteratura religiosa per sopperire alla mancanza di un rapporto diretto con i testi sacri.
Certo, c’erano stati tentativi controcorrente e timide aperture: nel Settecento, per esempio, monsignor Antonio Martini aveva pubblicato una sua versione italiana con il latino a fronte, mentre il letterato Saverio Mattei aveva tradotto poeticamente i Salmi in lingua metastasiana al fine di metterli in musica (ottenendo, oltre alle numerose obiezioni, anche l’accusa di oltraggio alla religione). Bisognava attendere gli anni Sessanta, quando la Dei verbum (1965) promulgata da Paolo VI stabilì la necessità che i fedeli avessero accesso alla Scrittura e, dunque, che si promuovessero “aptae ac rectae […] in varias linguas versiones”, preferibilmente a partire dai testi originali. Si comprende allora quanto fosse stata coraggiosa e in anticipo sui tempi la scelta di Neri Pozza.
La mente dietro l’operazione era stata però quella di don Giuseppe De Luca, presbitero e intellettuale che, con questo Vangelo innovativo, magistralmente tradotto da quattro hommes de lettres, voleva tracciare le linee che convergevano nel punto di raccordo fra sacro e letteratura. Il mito del rapporto diretto con la Scrittura e la ricerca di comunicabilità nel presente non erano sottomessi alla presunzione di sbarazzarsi di millenni di tradizione per restituire un testo spacciato per “nuovo”. Nella sua introduzione, De Luca metteva anzi in rilievo l’impossibilità di appropriarsene del tutto, per qualsivoglia scopo, e la natura essenzialmente altra rispetto a qualunque opera soltanto letteraria, con cui i Vangeli non condividono che l’“aspetto esteriore”. Ma anche l’impossibilità di racchiuderli nella storicizzazione, come se la filologia e un metodo scientifico appropriato potessero contenerli e risolverli nella rassicurante indifferenza della teca museale che imprigiona antichi amuleti e lame sacrificali. Risalendo “dagli inizi gnostici sino ai nostri secoli agnostici”, De Luca mostrava come il testo sacro si fosse prestato alle più svariate letture e interpretazioni, senza per questo modificare alcunché della sua inscalfibile sostanza, rimasta chimicamente pura e inalterata, qualunque essa sia. I Vangeli, scriveva, restano “spada a doppio taglio, fanno divisione tra uomo e uomo e, nel cuore stesso dell’uomo, tra un sentimento dell’umanità e un altro sentimento”.
Nel Settecento il letterato Saverio Mattei aveva tradotto poeticamente i Salmi in lingua metastasiana al fine di metterli in musica.
La proposta di Neri Pozza, tuttora insuperata per bellezza ed equilibrio, voleva mettere d’accordo un po’ tutti. Non rinunciava al piacere e alla potenza della lingua, con l’ambizione, pressoché inaudita nel caso italiano per i motivi di cui si è detto, di elevare un idioma moderno al più arduo dei compiti letterari, quello di ammantare il sacro. D’altro canto, non nascondeva neppure il presupposto religioso dell’operazione, per quanto obbligato e non parimenti condiviso dai letterati che vi avevano preso parte. Era un servizio alla lingua italiana, che non ha mai avuto ciò che per il tedesco è stata la Bibbia di Lutero e per l’inglese la King James Version (KJV) nello stabilire un canone linguistico, e quindi letterario, poetico, filosofico, a partire dalla Scrittura resa in volgare, ma anche alla vitalità dei testi sacri.
Uno spirito per certi versi analogo animerà le versioni in metrica dei Salmi di David Maria Turoldo, uscite per la prima volta nel 1973 e pensate per coniugare preghiera e poesia dando all’italiano ciò che il salterio geronimiano aveva rappresentato per il latino, ma senza nulla togliere al testo CEI, dunque rinunciando al soggettivo come un “esercizio ascetico”, affinché la propria visione non si sostituisse alla preghiera del salmista (“La Parola zittì chiacchiere mie”, scriveva già Clemente Rebora). Anche Mattei, duecento anni prima, aveva giustificato il proprio magnum opus alle autorità ecclesiastiche e ai lettori del suo tempo, assetati di douceur, ribadendo l’autorità tridentina, i dogmi religiosi e la Vulgata. “Ma poiché s’è adempita questa parte […], tenteremo noi di adempir l’altra parte, cioè a far sentire il dolce, e il dilettevole, che volle ancora lo Spirito Santo destare negli animi de’ lettori colla poetica armonia, che non s’è curata da’ moderni interpreti, e dagli antichi”. La maggioranza delle edizioni e traduzioni “letterarie”, in Italia e fuori, ha scelto tuttavia un’altra strada.
La proposta di Neri Pozza non rinunciava al piacere e alla potenza della lingua, con l’ambizione, pressoché inaudita nel caso italiano, di elevare un idioma moderno al più arduo dei compiti letterari, quello di ammantare il sacro.
Il Dalai Lama introduce la Bibbia
Non sono ancora giunti i tempi in cui sapremo leggere i Vangeli come, oggi, i più leggono Omero, la Teogonia e i tragici, o addirittura Dante e Shakespeare. Non siamo ancora sufficientemente lontani da quei secoli in cui i libri di cui è composta la Bibbia erano tutto, ma non è ancora arrivato il futuro in cui non saranno che libri fra i libri. Né è detto che debba arrivare, se per questo. Nel mentre, tuttavia, c’è chi ci scommette.
A partire dal 1998, la casa editrice inglese Canongate pubblica i libri della Bibbia nella classica KJV uno alla volta o raggruppati per affinità tematiche o testuali. La novità dell’operazione editoriale è quella di assegnare l’introduzione di ciascun volume a una persona diversa, possibilmente celebre, producendo accostamenti se non del tutto incongrui quantomeno inconsueti. L’editore Jamie Byng, nella prefazione ai Four Gospels, spiega che le edizioni della Bibbia – già di per sé sufficientemente “inaccessibile” – tendono a essere “il meno invitanti possibile”; parla allora della necessità di stringere “unholy alliances”, come una strategia culturale per favorire la ricezione di un “vecchio testo” presso un “pubblico nuovo”. L’idea, per inciso, gli era venuta leggendo l’introduzione del rapper Ice-T alla ristampa dell’autobiografia del pappone Iceberg Slim.
Questi i criteri per le introduzioni: testi brevi e informali, dal taglio “personale, non prescrittivo”, firmati da “persone che non dovevano portare acqua al mulino religioso”, dunque nessun proselitismo, neanche velato. “La Bibbia è, dopotutto, un’opera letteraria”, continua Byng, “e ci siamo accostati a persone che secondo noi l’avrebbero letta in questo modo”. Così, Matteo è introdotto dallo scrittore Andrew Norman Wilson, Marco dal cantautore Nick Cave, Luca dall’ex vescovo della Chiesa Episcopale Scozzese di Edimburgo e ora saggista e attivista Richard Holloway, mentre Giovanni va al critico e poeta Blake Morrison. La serie è proseguita e ora vanta, fra gli altri, Genesi introdotto dal neuroscienziato Steven Rose, il Cantico dei Cantici presentato da Antonia Susan Byatt, l’Ecclesiaste da Doris Lessing, i Salmi da Bono, Giona, Michea e Nahum da Alasdair Gray, la Lettera ai Romani dalla giallista Ruth Rendell e le Lettere di Giacomo, Pietro e Giovanni commentate dal Dalai Lama. La banda è talmente eterogenea che lascia in effetti un po’ perplessi sull’opportunità e il reale significato di queste unholy alliances.
La novità dell’operazione editoriale di Canongate è quella di assegnare l’introduzione di ciascun volume a una persona diversa, possibilmente celebre, producendo accostamenti se non del tutto incongrui quantomeno inconsueti.
L’introduzione di Wilson al Vangelo secondo Matteo, in questo senso, è emblematica, in quanto si tratta di una consapevole dichiarazione di sconfitta nella quale l’autore ammette l’impossibilità di affrontare questi testi come se fosse ancora possibile credervi. Tuttavia, il solo fatto che per millenni ciò sia avvenuto, e che tale fede abbia prodotto i capolavori che costituiscono il meglio della cultura occidentale, lo costringe all’aporia. Resta, sì, il documento storico di una comunità, di una credenza, di una speranza, come restano gli interrogativi sulla verità fattuale del racconto. Non si nasce dalle vergini e non si risorge dai morti, scrive con tanta insofferenza quanta malcelata nostalgia Wilson (autore di un pamphlet intitolato Against Religion e di una storia dell’ateismo). Alla fine, di fronte all’indubbio fascino di queste pagine, ma anche all’inquietudine e al fastidio che nonostante tutto continuano a provocare, si riconosce – individualmente ma anche in quanto rappresentante del nostro tempo – nel giovane ricco che, incapace di rinunciare ai suoi tesori terreni, se ne va, deluso da ciò che ha trovato e rattristato per ciò che ha scoperto di non essere. Tra parentesi, nel 2009 Wilson ha scritto di aver ritrovato la fede.
Senza peccato
Altre volte, ad allontanare i lettori è proprio una nuova traduzione, operazione che, se già provoca l’orticaria agli integralisti nel caso della letteratura profana, non può che sconvolgere ulteriormente quando si tratta di libri sacri, considerato il loro uso liturgico. È il caso della cosiddetta Bibel 2011, prodotta da Bibelselskapet, la società biblica norvegese, che si è avvalsa della supervisione linguistica di Jon Fosse, Karl Ove Knausgård, la scrittrice Hanne Ørstavik e il poeta Håvard Rem, con i criteri già evidenziati nel caso del Vangelo di Neri Pozza: fedeltà al testo originale, comprensibilità per i lettori contemporanei e valore estetico e letterario.
E tuttavia, nonostante si parli di una nazione di cinque milioni di abitanti di cui appena il 2% frequenta regolarmente le funzioni, la Bibel 2011 si è meritata aspre critiche, da un lato per la lingua troppo corriva e semplificata, dall’altro per scelte che hanno turbato i lettori. In Giovanni 3,16, “ut omnis qui credit in eum non pereat” (così secondo Girolamo), dove l’ultimo predicato traduce una voce del verbo apóllymi (“distruggere completamente”), al posto di gå fortapt, che suggerisce più il perdersi che il morire, c’è ora il ben più esplicito gå til grunne. Qualcuno ha osservato come, seppure più vicino al senso originale, questo rischi di spaventare i già non numerosi fedeli della Chiesa di Norvegia, oltre che escludere chi non crede con toni inadatti ai tempi.
Ma ci sarebbe anche dell’altro. La Bibbia norvegese è dal principio debitrice della versione di Lutero, nella quale la parola in questione è in effetti resa con zu verlieren, “perdersi”. In norvegese, fortapelse, teologicamente connotato, è la perdizione, che mantiene lo smarrimento cui allude Lutero, ed è da considerarsi termine tecnico. La nuova traduzione si sbarazzerebbe dunque, secondo i suoi critici, del lessico specifico per rendere il presunto senso letterale, facendo piazza pulita di secoli di teologia senza i quali, come si sostiene, quelle parole perderebbero il loro vero significato.
La nuova traduzione norvegese si sbarazzerebbe dunque, secondo i suoi critici, del lessico specifico per rendere il presunto senso letterale, facendo piazza pulita di secoli di teologia.
Il medesimo dilemma si riscontra in molte traduzioni letterarie, fra cui la Bible Bayard, uscita in Francia nel 2001. Nato su iniziativa dello scrittore Frédéric Boyer, il progetto iniziò a metà degli anni Novanta, sostenuto dalla società editoriale cattolica Bayard, con l’idea di offrire una traduzione integrale della Bibbia in cui ciascun libro fosse affidato alla duplice cura di un biblista e uno scrittore o scrittrice diversi. Emmanuel Carrère, reduce dagli anni passati ad annotare i Vangeli di cui racconta in Il Regno (2014), accettò di occuparsi di Marco assieme all’esegeta Hugues Cousin. Senza quest’esperienza fondamentale nella sua formazione di scrittore, leggiamo in Il Regno, Carrère non avrebbe mai trovato la sua inconfondibile cifra letteraria, riconoscibile non a caso a partire da L’Avversario (2000).
Due, dice, erano le “idee-guida” che animavano il gruppo di lavoro. Da un lato, la constatazione dell’eterogeneità dei libri che compongono la Bibbia, la cui redazione ha richiesto “un migliaio di anni, risultato del lavoro di centinaia di redattori differenti nel quale confluiscono generi letterari diversissimi fra loro”. Eppure, le “grandi traduzioni”, da Girolamo a Lutero fino a quelle odierne, “tendono a sovrapporre a quel concerto di voci discordanti un’armonia artificiale: tutto finisce per assomigliarsi un po’”. L’idea di chiamare scrittori e scrittrici a cesellare ciascuno la propria lingua, il proprio stile, vorrebbe idealmente restituire la diversità dei testi e la loro polifonia, come aveva fatto Neri Pozza per i Vangeli.
Dall’altro lato, però, anche la “Bible des Écrivains” – com’è nota – cede all’“illusione di poter tornare alle origini, al tempo in cui le parole non erano ancora logorate da due millenni di uso religioso”, prosegue Carrère, evidenziando quelle “parole che splendevano luminose, ‘vangelo’, ‘apostolo’, ‘battesimo’, ‘conversione’, ‘eucaristia’”, ora “svuotate di senso o riempite di un senso diverso, banale e innocuo”. Sfogliamo le pagine della Bible Bayard: il pneûma, che a sua volta traduce l’ebraico ruah, non è più il catechistico Saint-Esprit ma le Souffle saint, Satana è l’Adversaire e non si parla più di péché, che evoca delitti, castighi e insopportabili sensi di colpa di cui nessuno sa più cosa fare, ma semplicemente di fautes.
Ecco Marco 1,4 nella traduzione della CEI (dall’editio princeps del 1971): “si presentò Giovanni a battezzare nel deserto, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati”. Questa, invece, è la versione di Carrère: “Jean parut dans le désert, baptisant. Il proclamait que par cette immersion on était retourné, libéré de ses fautes”. Così si giustifica l’autore:
Battesimo, conversione, pentimento, penitenza, remissione e, peggio ancora, peccato: a noi, che volevamo dare un senso più puro alle parole […], ciascuno di quei termini, con il suo carico di unzione ecclesiastica e di terroristico senso di colpa, ispirava una tremenda repulsione. Bisognava abbandonare quel vocabolario da sacrestia, trovare qualcos’altro. Ma cosa?
Il risultato, secondo il suo stesso autore, lascia a desiderare, nonostante l’immensa fatica richiesta. Per sua stessa ammissione, “dopo quindici anni questa modernizzazione è già vecchietta. Ho paura che il peccato e il pentimento ci seppelliranno tutti”.
Anche la “Bible des Écrivains” cede all’“illusione di poter tornare alle origini, al tempo in cui le parole non erano ancora logorate da due millenni di uso religioso”.
Si può comprendere meglio quanto c’è di insoddisfacente in questo genere di scelte studiando le versioni delle lettere paoline realizzate da Andrea Zanzotto. Dopo le numerose riedizioni del Vangelo, Neri Pozza voleva pubblicare l’intero Nuovo Testamento. Bontempelli, entusiasta, si era già prodigato per tradurre le Lettere di Giovanni e l’Apocalisse. Per le epistole rimanenti e gli Atti degli apostoli erano stati contattati anche Vittorio Sereni e Giovanni Giudici, oltre, appunto, a Zanzotto, incaricato nel maggio 1960 di occuparsi delle lettere ai Galati, agli Efesini, ai Filippesi e ai Colossesi. Un anno dopo, le traduzioni erano pronte, eccetto quella della Lettera ai Galati (“un affare veramente scuorante”, confessò il poeta, un “peso” da “affidare […] a qualche altro più ‘forte’ di me”). Il libro però non uscì mai, e le versioni di Zanzotto si possono leggere postume in Traduzioni trapianti imitazioni, a cura di Giuseppe Sandrini (2021).
Si tratta di testi forse non passati per un vaglio redazionale, da intendersi perciò come bozze, versioni preliminari. Ciò che comunque salta all’occhio è la scelta, certamente autoriale, di evitare qualsiasi connotazione religiosa nella traduzione. Apóstolos è “inviato”, Epafra, in Colossesi 1,7, non è “compagno nel ministero” (come tradurrebbe la CEI), ma, letteralmente, “compagno di schiavitù”, e via dicendo. Smarcarsi dalla tradizione e dal lessico cristiano per attenersi rigorosamente alla lettera del testo, questo è il senso: ma è una lettera che – di nuovo sorge il sospetto – fuori dalla tradizione e dal suo lessico specifico non è pienamente comprensibile, se Paolo rischia di sembrare un commesso viaggiatore.
Non è affatto detto che la lettera sia tanto più chiara di come è stata veicolata nei secoli: così, un oscuro “sopracostruiti” dal sapore heideggeriano traduce epoikodomēthéntes (“edificati” per CEI, in Efesini 2,20). Come in Carrère, i paraptṓmata (Colossesi 2,13) non sono i peccati o le trasgressioni ma i più neutri “falli”, mentre, allo stesso versetto, l’akrobystía tês sarkós non è la figurata “incirconcisione della carne” ma, letteralmente, il “prepuzio”, con qualche effetto deleterio sulla leggibilità della frase. È chiaro come l’urgenza di restituire il senso crudo di questi testi emancipandoli dai fumi delle cucine religiose non offra necessariamente un servizio né al lettore né al testo stesso, che, anzi, senza quei sapori sembra ancora più indecifrabile.
L’impronta del traduttore
Il caso più singolare è quello delle traduzioni dall’ebraico dei Salmi, Isaia, Giobbe, Qohélet e del Cantico dei Cantici a cura di Guido Ceronetti. Di ciascun testo da lui tradotto esistono più versioni, modificate, riviste o integralmente rifatte nel corso della vita, tanto da rendere lo sforzo incessante di resa in italiano e di commento – come il titolo della sua introduzione all’edizione Adelphi di Qohélet del 2001 – “quasi un’autobiografia”.
Dalla sua, Ceronetti ha una passione smisurata per l’ebraico, l’orecchio per la poesia, una vocazione da sapiente e un indiscutibile gusto per la provocazione. Nessuno dei suoi epigoni è riuscito a fare altrettanto, e nessuno dei suoi detrattori potrebbe negare una certa genialità nelle sue soluzioni ai più ostici problemi testuali. Per prendere le debite distanze da ogni approdo consolatorio, dal tepore liturgico, dal ricordo delle messe la domenica mattina e dall’“odore di chiesa”, la scelta di Ceronetti non è però privilegiare una resa letterale che, come si è visto, risolve ben poco, quanto far pesare l’impronta del traduttore, che si fa mediatore fra la parola, il suo significato e i lettori del suo tempo.
Dalla sua, Ceronetti ha una passione smisurata per l’ebraico, l’orecchio per la poesia, una vocazione da sapiente e un indiscutibile gusto per la provocazione.
Ceronetti iniziò a studiare l’ebraico biblico presso la sinagoga di Torino nel 1955, mettendosi alla prova “con una stentata versione interlineare” del testo noto anche come Ecclesiaste sotto la supervisione del rabbino. Diede alle stampe il testo rifinito per Einaudi nel 1970 e fu, “dell’incantesimo antibiblico presso molti giovani di allora, efficace rottura”, come commenta. Tre anni prima, per il medesimo editore aveva pubblicato i Salmi. Nel 1972 uscì la prima versione del Libro di Giobbe, questa volta per Adelphi, seguita, tre anni dopo, dal Cantico. Da lì in poi non avrebbe più cessato di riprendere i testi e modificarli, come una forma letteraria della preghiera del cuore, fatta di meditazione perpetua e del continuo ruminare e polire versetti. “Qohélet è, tra gli stracci e la polvere”, scriveva a commento dell’edizione Einaudi del 1970, “qualche cosa che lava dal peccato di leggere e dal peccato di scrivere. Lettura, scrittura sono altro, se si legge o scrive Qohélet. Ecco il tradurlo salvezza”.
Ma sono traduzioni destinate a inquietare, specialmente chi questi testi li ha conosciuti nelle loro vesti tradizionali. Non che Ceronetti li spogli del religioso, al contrario; si tratta però di un religioso che, con il Guido Piovene di Le furie, rivela “la violenza bruta del sacro sulla ragione umana” e tutta la sua indecente amoralità. La sua pratica di traduzione “catarizzante”, come lui stesso la chiama, parte dall’idea che, più che dire troppo, le versioni religiose tradizionali non dicano abbastanza, e soprattutto tacciano l’essenziale. Anche la rosa dei testi veterotestamentari da tradurre è accuratamente studiata per consentirgli di dare forma a un grido gnostico, a un’accusa al dio malvagio, a un pessimismo senza frontiere.
Il ritratto divino che ne emerge rivela il profilo di un demiurgo che trae godimento dalla sofferenza degli innocenti, o ne abbisogna. Nel suo Giobbe (27,2), è scontro aperto con “Shaddai funesto alla mia vita” (si veda CEI: “l’Onnipotente che mi ha amareggiato l’animo”). I toni sono asprissimi, sconsolanti: “Ma più di loro beato / Chi mai sarà fra i nati / A lui la vista è tolta / Del male che è l’agire sotto il sole”, dice il suo Qohélet (4,3) del 2001 (mentre in CEI si legge: “Ma ancor più felice degli uni e degli altri chi ancora non è e non ha mai visto le azioni malvage che si commettono sotto il sole”). O, ancora, “Ogni cosa ha una legge fissa / Perciò il male dell’uomo è senza fine” (Qohélet 8,6; CEI: “per ogni cosa vi è tempo e giudizio e il male dell’uomo ricade gravemente su chi lo fa”).
Al di là della validità filologica delle sue scelte, che non so valutare, e dei passaggi molto belli (come l’inizio del suo Cantico, in endecasillabi: “Mi abbeveri di baci la tua bocca / Perché il tuo amore inebria più del vino”), di certo le sue versioni gli appartengono, parlano di lui. Anche ammesso che dicano qualcosa del testo ebraico, sicuramente gli permettono di sviluppare un discorso estremo e altamente originale sul sacro. D’altro canto, Ceronetti ammette apertamente di separare dal testo di Qohélet i versetti che sospetta “interpolazione pia usurpatrice”, tutto ciò in cui c’è il sentore della rassicurazione, ritenendoli interventi apocrifi di un chassid timorato di Dio: rimette al loro posto, per via congetturale, i versetti naufragati altrove, interpreta l’indecifrabile a proprio vantaggio, non si accontenta delle cruces interpretum, si prende rischi ermeneutici che nessun commentatore più avveduto oserebbe correre e dal testo espunge impunemente quel che, a senso, lo sconfessa.
Nel suo incessante agone con l’ebraico, Ceronetti cerca di offrire – più che di restituire – una “Scrittura che non sia cattedra, che non sia ectoplasma di Comitati Scientifici, ma che sia all’altezza della mole di rifiuti di una metropoli d’oggi”. I suoi testi erano pensati per una recitazione dal vivo, tanto che per Giobbe ha lasciato indicazioni sceniche e di Qohélet riuscì a realizzare una versione teatrale. La sua, d’altronde, è “l’esegesi di un a-teologo”, in cui si uniscono la passione insalubre del filologo dilettante “di quartiere malfamato, che lavora con pericolo e tenta un colpo ogni tanto, con risultati strani”, il talento di un poeta sconosciuto ai più e l’elucubrazione di un “filosofo ignoto”, come si firmava.
Ceronetti cerca di offrire – più che di restituire – una “Scrittura che non sia cattedra, che non sia ectoplasma di Comitati Scientifici, ma che sia all’altezza della mole di rifiuti di una metropoli d’oggi”.
Commentando i suoi Salmi e ribadendo la sua vocazione all’inclassificabilità, aggiungeva di essere “un artista che volle essere anche biblista e semitista”. I due criteri delle sue versioni sono infatti verità e poesia: il primo significa “approssimazione appassionata” al testo originale, il secondo implica invece l’“impadronirsene”. A proposito del suo primo Qohélet, sottolineava infatti “la sua intraducibilità da parte di chiunque non sia, o portatore di sacro autentico, o poeta”. Ma, come ammette nelle note al Cantico, a fare i poeti c’è sempre il rischio di “perdersi troppo dietro la propria visione”.
Tradurre Isaia, per esempio, si rivela “un lungo tormento, tra vere lacrime, lavoro dei più ostacolati, e incessantemente interrotti, e con la pena grave di non trovare il testo abbastanza decisivo e profondo da valere il mio sforzo”. I commenti ai testi gli sembrano “bugiardi e inutili”, l’elenco delle battaglie è estenuante, “finché cominciai a percepire qualche barlume”, scrive, qualche porta d’ingresso per farlo proprio. Così, ogni volta che s’intravede un palo su un’altura consacrato a Baal, che scorre il sangue del sacrificio, che nell’ombra si aggira una ierodula, che fra le righe si legge una visione di Astarte, un incantesimo, uno spirito che infesta i campi, Ceronetti infila le unghie e slabbra la ferita. La sua ‘almah – la “vergine” da cui in Isaia 7,14 nascerà l’Emmanuel – diventa una prostituta sacra e nulla vi sarebbe di messianico in suo figlio, il quale, anzi, si fa segno funesto di una corruzione inarrestabile: non “Dio-con-noi” ma “El-con-noi”, dove El sarebbe il nemico di Jahvè, l’antico dio di Ugarit e Canaan con i cui seguaci lottano i profeti di Israele. In questo senso, Ceronetti non fa che proseguire la linea, ben tracciata dal Freud di Mosè e il monoteismo (di cui è l’erede, volente o nolente), della riscrittura che punta allo sconvolgimento, allo smascheramento e, almeno per qualcuno, anche alla profanazione.
Sindrome di des Esseintes
Più che a turbare il sonno di qualche lettore devoto, Ceronetti sembra però ambire a épater le bourgeois secolarizzato. Una frase profetica di Rimbaud – “‘Rien n’est vanité; à la science, et en avant!’ crie l’Ecclésiaste moderne, c’est-à-dire Tout le monde” – si direbbe sottintesa in tutte le sue frecciate. Non per nulla, il suo Qohélet vuole essere “suono tra i pianti, pianto tra i suoni” che sgretola “la scienza mondana”, e al Salmo 26 fa dire: “Ho in odio i settari del Nulla / Non mi aggrego con chi ti nega”. Quando, nel 1996, introdusse la sua nuova versione di Giobbe, affermò che traduzioni “non ne mancano, ma non fanno mangiare il destino di Giobbe a nessuno, non lo gettano in un crogiuolo vero di conoscenza, il loro limite è culturale”. Nessuno, infatti, ha più “la forza di fare un processo a Dio, di trascinarlo in giudizio, di accusarlo di tutto […]. Perché nessuno accusa più, nessuno grida più. […] È morto Giobbe, non Dio”. Più esplicito il commento al Cantico: “C’è in atto, nella storia mondana, uno smidollamento universale, una corrosione del midollo umano, una tabe della forza, che sembra smentire ironicamente la credenza facile che non avendo più un Dio da temere la forza umana si accresca”.
Ceronetti non fa che rendere i suoi personalissimi libri sacri ancor più indigeribili per il pubblico contemporaneo, e lo fa consapevolmente. Per chi sono le sue stupende traduzioni? Non certo per gli studiosi accreditati, che non lo riconoscerebbero come uno dei propri, né per i religiosi nel senso comune del termine, che non potrebbero mai sposare la sua interpretazione, ma nemmeno per i lettori atei e agnostici, che non sanno che farsene del Libro del Profeta Isaia o di Giobbe, pur in bella edizione, specie se così imbevuti, fino all’ubriachezza bacchica e molesta, di furor sacro. Nell’esplicazione del suo salterio dichiara: “io scrivo per chi dispera” – un manipolo scalcagnato di iniziati, dandy, nemici del secolo e simpatizzanti della gnosi.
Già il 15 marzo del 1969 in una lettera Quinzio spiegava a Ceronetti, in termini inequivocabili, il senso profondo di queste operazioni:
Nell’antico c’è un eccesso di significato (in ogni parola o gesto, eterni, infinitamente potenti, ambigui, rischiosi), e quindi un disperato tendere al chiuso, al puntuale, al definitivo, al facile, al chiaro, al certo, al semplice, al risolto. Nel moderno c’è un vuoto di significato (in ogni parola o gesto, evanescenti, penosamente deboli, risaputi, sterili), e quindi un disperato tendere all’aperto, all’esteso, al disponibile, al difficile, all’indefinito, all’oscuro, al complesso, all’irrisolto: un allargare per comprendere qualcosa, anziché uno stringere per lasciar fuori qualcosa. Quindi nell’antico l’abisso, che vuol essere colmato e non può, è veramente abisso; nel moderno l’abisso, che deve e vuole essere tale, non è abbastanza abisso. Come dire che vedo il tuo neo in un torbidismo, maledettismo, decadentismo.
Se, da un lato, fare di testi un tempo sacri oggetto di studi che si vogliono scientifici è il massimo segno di attenzione (per quanto de-sacralizzante) che quest’epoca sembra poter dedicare loro, l’alternativa – si è visto – è tentare qualche forma di strappo, di provocazione, di scandalo, di violenza: quello che André Gide chiamava l’“atto gratuito”. È qualcosa che non è avvenuto solo in ambito biblico, tutt’altro: è la tecnica che, dopo le avanguardie, ha caratterizzato pressoché qualunque fenomeno culturale nell’ultimo secolo. Si tratta di un meccanismo perfettamente compreso da Edgar Wind, il quale, in Arte e anarchia (1968), commentava così la causa e al contempo la conseguenza della diffusione e dell’accessibilità delle opere d’arte di ogni genere: l’“appetito sempre più insaziabile di arte è compensato da una progressiva atrofia degli organi ricettivi. Se l’arte moderna talvolta strilla, non è colpa soltanto dell’artista. Tutti tendiamo ad alzare la voce, quando ci rivolgiamo a persone che diventano sorde”.
Nell’esplicazione del suo salterio Ceronetti dichiara: “io scrivo per chi dispera” – un manipolo scalcagnato di iniziati, dandy, nemici del secolo e simpatizzanti della gnosi.
Come l’arte non scandalizza più, o, se lo fa, ciò non avviene che per un tempo infinitesimale, prima che scemi lo stimolo o si sostituisca il successivo, complice l’assuefazione degli spettatori, così anche questi testi sembrano subire lo stesso destino. È ciò che potremmo chiamare “sindrome di des Esseintes”, dal nome del protagonista di Controcorrente (1884) di Joris-Karl Huysmans: una volta esaurita la novità dello stimolo, esso deve intensificarsi, cioè diventare più volgare o violento, oppure, al contrario, farsi più sfuggente e raffinato. E non è detto che violenza e raffinatezza non possano talora coesistere, come nelle versioni di Ceronetti. “Ma questi effetti”, conclude Wind, “non hanno molte probabilità di dimostrarsi duraturi”. Tutto ciò che nasce come rottura e provocazione avrà presto o tardi un suo posto al museo.
Resta – ed è la parte più inquietante – la domanda sul futuro incerto dei libri della Bibbia, ormai estranei alla cultura generale e destinati a un imbrunire che nessuna nuova traduzione, nessun commento, nessuna nuova veste può frenare. La “presunzione di scoprire […] noi per primi” di cui parlava De Luca introducendo il Vangelo di Neri Pozza è, a ben vedere, l’altra faccia della medaglia. L’idea di poter leggere questi testi come se fosse la prima volta, come se non fossero mai stati tradotti o commentati, altro non è che il sogno febbrile di fare tabula rasa degli almeno due millenni intercorsi dalla loro stesura. Ma non per odio di ciò che quei millenni rappresentano, quanto per l’incapacità odierna di vivere fra le loro rovine.
Resta la domanda sul futuro incerto dei libri della Bibbia, ormai estranei alla cultura generale e destinati a un imbrunire che nessuna nuova traduzione, nessun commento, nessuna nuova veste può frenare.
Se oggi si scorgono i segni di una nuova età oscura, non è certo perché qualche alchimista digitale converte dati in dollari, o perché un ex ministro greco predica l’avvento del tecnofeudalesimo, ma perché è venuto meno il rapporto di continuità e leggibilità – letteralmente – con il passato. E gli antichi sono diventati muti nomi di stelle distanti. Resteranno, un tempo come oggi, qualche tebaide, qualche castello interiore o esteriore dove si conservano i libri antichi per chi saprà leggerli quando verrà la prossima rinascenza. Fino ad allora, in celle anguste e in eremi di provincia, si legge, si ricopia e si traduce in silenzio rituale.