A
l numero 263 del canale Prinsengracht, ad Amsterdam, si allunga un edificio dalla facciata occhiuta, dove gli occhi sono i finestroni che punteggiano il palazzo. Qui, a partire dall’estate del 1942 – il sei luglio – Otto Frank, originario di Francoforte e già dirigente nella banca fondata dal padre, nonché ex sottotenente durante la prima guerra mondiale, riesce a nascondere la sua famiglia. Fuggiti dalla Germania all’Olanda nel 1933, in seguito all’ascesa al potere di Adolf Hitler, i Frank – Edith Holländer, la moglie di Otto; e Margot e Anne, le figlie, adolescenti – trovarono rifugio nel retro di quel palazzo sul Prinsengracht, mentre in Europa la persecuzione antisemita viveva la sua fase più nera.
Malgrado le ampie finestre, di luce, lì nella “Casa sul retro” dove i Frank avevano trovato rifugio, ne giungeva poca. La centralità di quell’appartamento nella storia del Novecento è dovuta a una manciata di quaderni, un brogliaccio di appunti e pagine scritte dalla più giovane delle sorelle Frank, Anne, rinvenuti da Miep Gies, la donna che aiutò i Frank durante la clandestinità. Miep Gies ritrovò gli scritti di Anne dopo l’arresto della famiglia Frank, il 4 agosto 1944, in seguito a una delazione; li custodì e li consegnò al padre Otto, unico sopravvissuto della famiglia ai campi di concentramento. Nel 1947, sotto la cura di Otto, le pagine di Anne vennero organizzate e raccolte con il titolo “Il retrocasa” (Het Achterhuis); nel 1954, per Einaudi, uscì la prima edizione italiana del Diario di Anna Frank, con la prefazione di Natalia Ginzburg. È uno dei testi più noti al mondo, un’importanza culturale ben più rilevante delle circa trenta milioni di copie vendute, o delle riduzioni teatrali e cinematografiche che ne sono state tratte. Come è accaduto ad altri testi redatti in clandestinità e sopravvissuti all’autore – basti pensare, in Italia, agli scritti dal carcere di Antonio Gramsci o alle pagine redatte da Aldo Moro durante il sequestro – la vicenda del Diario è anche la storia di un intreccio editoriale, di scelte, di tagli e rimaneggiamenti.
All’inizio del 2019 Mondadori ha pubblicato per la prima volta le due stesure originali del Diario così come vennero redatte da Anne: la prima, più confidenziale, e la seconda, più ragionata, la versione da destinare alle stampe. Della nuova traduzione italiana si è occupato Antonio De Sortis, traduttore e consulente editoriale, specializzato in letteratura nederlandese, e con lui abbiamo parlato di come ci si approccia a un testo così rilevante, e delle pieghe che conserva al suo interno, e dell’unicità di questo libro, di come restituisca il carattere e le speranze di una ragazza adolescente sul bordo dell’abisso.
Immagino che anche tu, come tantissimi, ti sia imbattuto per la prima volta nel Diario di Anne Frank da ragazzo, magari a scuola. Che ricordi avevi di questo libro, prima di affrontarlo come traduttore?
Ammetto che la convivenza di tanti mesi con questo testo ha modificato il ricordo che ne avevo in precedenza. So per certo di averne letto dei brani alle medie, e ho ben presente la facciata dello stabile di Prinsengracht 263, ma ti direi che no, non mi pare avessi particolare familiarità con questo libro prima di iniziare a leggerlo per poi tradurlo.
Quali difficoltà ti aspettavi quando ti è stato proposto un testo di questo genere? E quali sono invece quelle che hai scoperto mentre traducevi?
Inizialmente ero intimorito. Il Diario è un testo con una storia editoriale lunga e assodata, ma non per questo scampata ad alcuni deragliamenti, un percorso che è stato più volte messo in discussione e perciò ulteriormente bisognoso di contributi seri e responsabili. Quello che percepivo di dover fare, insomma, era un rispettoso lavoro di traduzione sul più celebre dei memoriali. Col tempo, entrando nel libro, qualcosa è cambiato. La voce di Anne si è fatta sempre più invadente. Più procedevo e più la sfida consisteva nel dare ascolto alla prosa di una giovanissima, ostinatissima scrittrice con parecchie cose da dire. L’impatto non è stato privo di conseguenze, per cui molte delle mie forze ho dovuto dedicarle a tenere in equilibrio il peso dell’ufficialità, il compito editoriale e l’invito pressante di Anne ad andarle dietro. La natura assai multiforme della sua scrittura ha acuito la contraddizione.
Il Diario, in questa uscita, presenta per la prima volta in edizione economica le due stesure originali di Anne. Riporto qui i due rispettivi incipit “Spero che potrò confidarti tutto, come non ho fatto mai con nessuno, e spero che mi sarai di conforto”, nella versione A, confidenziale; e “Per una come me, tenere un diario è un’esperienza particolare. Non solo non ne ho mai avuto uno prima, ma mi sembra che alla fine né io né nessun altro darà valore agli sfoghi di una scolaretta di tredici anni. Ma lasciamo perdere, non è questo il punto, io ho voglia di scrivere e ancor di più di aprire finalmente il mio cuore, dirò tutto e fino in fondo” nella seconda stesura. Quali sono le differenze sostanziali tra le due versioni?
Il testo che tutti abbiamo imparato a conoscere in Italia è definito tecnicamente versione C. Si tratta della redazione curata da Otto Frank, padre di Anne e unico sopravvissuto alla deportazione in seguito all’arresto della sua famiglia – e degli altri membri della Casa sul retro – nell’agosto 1944. Quando Otto ritornò ad Amsterdam, Miep Gies, una delle benefattrici che avevano protetto gli otto clandestini durante la latitanza, gli consegnò i quaderni e le carte su cui Anne aveva prodotto il suo diario e i suoi esperimenti letterari. Otto si trovò a metter mano a un’opera manchevole, interrotta, di cui esistevano per giunta due stesure. Qui arriviamo a noi. I manoscritti contenevano una prima versione (successivamente definita come versione A) tenuta su dei quaderni, più irruenta, meno sistematica, di carattere puramente diaristico, del testo che conosciamo oggi, e una seconda versione (la cosiddetta B), una riscrittura parziale su “fogli sparsi”. Quest’ultima è il frutto di un episodio fortuito e nondimeno provvidenziale, che diede seguito a un intento già meditato: il 29 marzo 1944 Anne sta ascoltando Radio Oranje, emittente del governo olandese esule a Londra, quando sente il ministro Bolkestein invitare la popolazione a custodire i documenti privati prodotti durante la guerra; ciascuno di essi, in futuro, sarebbe stato prezioso. È qui che Anne si convince di poter scrivere diversamente, e matura l’idea di un romanzo vero e proprio. È un titolo che le ronza in mente,
La Casa sul Retro, a fungere da sprone. Il suo progetto si definirà presto in una scrittura che oggi diremmo “ibrida”, ovvero una riscrittura letteraria del
Diario tenuto fino ad allora, che si rivela ad un tratto in tutta la sua ingenuità: verboso e sgangherato.
Lo scarto tecnico fra le due stesure in alcuni casi è enorme; in altri, in particolare negli ultimi mesi di permanenza nell’alloggio segreto, meno sensibile, segno di una quadratura stilistica. Anne acquista col tempo, e ancor di più vestendo i panni della scrittrice, una consapevolezza della forma che ha adottato. Il lettore può saggiarla nella versione B, e operando un confronto si accorgerà dell’adattamento a una voce più coerente, in buona sostanza più adulta, che rifugge il frammento e ricerca una struttura. Ecco, la presenza del lettore è ciò che salta all’occhio. Anne ha il temperamento impetuoso della attaccabrighe, che le serve, come lei stessa racconta, a celare la profonda consapevolezza della sua condizione. Ci viene da pensare a orribili presagi. Tale consapevolezza, tale premonizione include però – prima o dopo la morte, che importa – un lettore, il destinatario della sua letteratura. La versione B nasce accompagnata da questa presenza.
Affrontando una nuova traduzione è inevitabile il confronto con le precedenti. Quanto hai tenuto presente il passato editoriale di Anne Frank in Italia, e cosa pensi che andasse rivisto principalmente?
Esistono due traduzioni italiane condotte sull’edizione critica dell’86 – poi più volte aggiornata – che per la prima volta permise di lavorare sulle stesure originali. La prima è quella di Frediano Sessi, presente in appendice al volume Tutti gli scritti edito da Einaudi. La seconda è quella di Dafna Fiano, apparsa per BUR più recentemente. Nessuna delle due, per ragioni diverse, presenta le due stesure nella loro interezza. Il confronto con entrambe le edizioni c’è stato, nel tentativo di chiarire i passaggi tuttora più oscuri del Diario, quanto per operare una taratura della mia voce, che come dicevo era, in certi casi, letteralmente trasportata, con esiti di cui non sempre ero convinto. Dopo una prima stesura “in solitaria” ho iniziato a visionare queste altre traduzioni. Mi sono accorto di aver lavorato diversamente sul registro. Più in sintonia, devo dire, con quello della Fiano. Impreziosire il lessico di Anne, correggere la sintassi che man mano e sempre meglio saprà anche lei padroneggiare, mi pareva la prima tentazione da rifuggire. Da un punto di vista espressivo ho provato a non trascurare nessuna delle esigenze che il testo presentava; nel concreto, la resa, nel 2019, di una voce femminile giovanissima, istruita e infervorata dalle letture private, ma ancora incerta, collocandola in un contesto storico-linguistico preciso.
Anne comincia a scrivere il suo diario – o “quaderno cartonato”, come lo definiva lei – all’età di tredici anni, nel 1942. Chi legge le sue pagine può toccare con mano quelle che erano le sue qualità di giovanissima scrittrice. Se dovessi indicare gli aspetti più interessanti di Anne come narratrice, quali indicheresti?
Questa edizione presenta il Diario come laboratorio di una scrittrice in erba. Proporre le due versioni permette di valutare con precisione ulteriore quanto Anne fosse maturata stilisticamente, lasciando intravedere – oltre che nei racconti non inclusi nel Diario, nelle lettere stesse – i frutti di due anni di esercizio. Anne è un’ottima umorista, le sue pagine nascondono una trama di trasognata comicità. Anche quando, al contrario, esprime disappunto, o rabbia, la sua penna rimane vivace e ironica. Mi viene da dire che in qualche anno, se avesse fatto letteratura, il suo sarebbe stato un affilato realismo sociologico. Al contempo è una quindicenne obbligata a convivere con la noia e la suscettibilità degli adulti. Chi non dispone delle energie per curare la propria disperazione, come può pensare di comprendere il suo cuore? Questo si domanda ossessivamente. La narrazione di sé, il monologo interiore diretto alla “Cara Kitty”, compongono il resoconto della Anne nascosta. Alcune pagine, più accorate, sono talvolta spiazzanti nella loro bellezza. Mi sento di dire che ciò prescinda dalla presenza di Kitty. Questo nome, col senno di poi, suona come un destinatario fantasma: è il nulla a cui Anne si rivolge, sul cui bordo si colloca, e che produce il fascino particolare del messaggio sopravvissuto al naufragio. Propongo una pagina, forse lugubre, che potrà essere apprezzata e non soltanto ex post:
Penso al Merry, alle mie amiche, alla scuola, ai divertimenti, a tutto questo penso come se lo avesse vissuto un altro al posto mio. Vedo noi 8, insieme con la Casa sul retro, come se fossimo un pezzetto di cielo azzurro accerchiato da nuvole nere, nere di pioggia. Quello spazietto, rotondo e circoscritto, è ancora al sicuro, ma le nuvole avanzano sempre di più verso di noi e il cerchio che ci separa dal pericolo imminente diventa sempre più stretto.
Siamo ormai talmente accerchiati dal pericolo e dal buio, che nel tentativo disperato di scamparla ci scontriamo l’uno con l’altro.
Guardiamo di sotto, dove gli uomini lottano l’uno contro l’altro, e guardiamo tutto dall’alto, qui ancora stiamo bene, tranquilli, e al contempo quella massa oscura ci taglia fuori, non ci fa uscire né da sotto né da sopra, ma ci sta davanti come un muro impenetrabile che vuole schiacciarci, senza però riuscirci.
Non posso fare altro che gridare e implorare: “Oh cerchio, cerchio, allargati, lasciaci uscire!”.
tua Anne
Lo studioso francese Philippe Lejeune inserisce gli scritti di Anne nella famiglia dei “brogliacci di sé”, e quindi conia un neologismo: “autobiocopie”. Cosa si intende con queste definizioni?
Queste definizioni di Philippe Lejeune, che è un grande studioso di autobiografie, compaiono nel saggio Come Anne Frank ha riscritto il “Diario” di Anne Frank. La difficoltà di collocazione del Diario deriva da due fattori. Da un lato, l’interruzione del passaggio da diario privato a narrazione, a fiction, che Anne stava in qualche misura effettuando; dall’altro, il punto assurdamente privilegiato da cui Anne guarda Auschwitz, e da cui parla a tutti noi. Se con “brogliacci di sé” si intende la fase di scrittura che porta il materiale grezzo, lo zibaldone ancora informe, a letteratura autobiografica – lo spazio in cui il filtro della narrazione sui fatti viene come regolato – con “autobiocopia” Lejeune riconosce ciò che anche Otto intravide, ovvero l’aura ambivalente di cui il diario si era come ammantato. Non prodotto dopo e a causa di Auschwitz, al pari degli scritti di Elie Wiesel, o di Primo Levi, ma scampato ad esso – a differenza, ad esempio, delle carte di Walter Benjamin, perdute in una valigia fra le mille altre – il Diario esprime una doppia natura di letteratura in fieri e documento, di trasformazione della vita e cristallizzazione d’archivio. È interessante che Anne avesse deciso di cambiare i nomi dei personaggi della sua Casa sul retro. Insieme ai suoi scritti venne trovato un elenco di pseudonimi, con cui intendeva sostituire i cognomi reali dei suoi coinquilini. Questo processo avrebbe forse avuto un seguito, un approfondimento, ma Anne è ancora intimorita dalla finzione, l’urgenza di raccontarsi prevale. Dal dire tutto di sé alla creazione di sé: questo il territorio, un passo prima della fine, da cui scrive Anne. Riporto una citazione tratta dai Frammenti di Franz Kafka in cui mi imbattei tempo fa, leggendo un libro di Valerio Magrelli intitolato La parola braccata. La trovo utile, per ribadire quanto ho detto: “Non riesco a scrivere. Perciò vado progettando delle ricerche di natura autobiografica. Non biografia, ma la ricerca e il rinvenimento di elementi il più possibile minuti. Con questo voglio poi costruire me stesso, come uno la cui casa sia pericolante decide di costruirsene un’altra più sicura, lì vicino, magari col materiale di quella precedente”.
Nel Diario Anne racconta di sé, della sua vita familiare, delle sue letture. Avendo lavorato sul testo originale, si percepisce un cambio di tono di Anne a seconda di quello di cui scrive, o a seconda dell’interlocutore a cui si rivolge?
Nella versione A è facile imbattersi in frequenti cambi di tono, dovuti all’umore della giornata, dunque alle frequenti scaramucce fra gli inquilini della casa, o al rapporto con Peter, che sarà il suo unico amore adolescenziale. Sarà fondamentale la decisione di sostituire, nella versione B, i diversi destinatari immaginari con il solo personaggio di Kitty, che Anne aveva incontrato nella saga Joop ter Heul di Cissy van Marxveldt. Il lavoro di riscrittura prevederà una decisa uniformazione dei toni, sempre nell’ottica di censurare le ingenuità della scrittura infantile. Al netto di questo, credo che la lettura incessante dei classici – spesso ricevuti clandestinamente – abbia stimolato a più riprese l’immaginazione di Anne, influenzandone anche gli esperimenti di scrittura.
Il Diario è scritto “sul bordo di Auschwitz”. Anne vive in clandestinità. Un esempio: il 21 settembre del 1942 scrive: “Cara Kitty, oggi devo comunicarti le novità generali della Casa sul retro. Sopra il mio divano letto è stata montata una lucina, in modo che possa tirare una cordicella nel caso senta sparare. Tuttavia al momento non è ancora possibile, dato che la nostra finestra rimane socchiusa giorno e notte”. D’altro canto, lo sforzo di Anne è di affrontare il dramma in atto intorno a sé portando avanti un percorso di vita autonomo. In quali passaggi del Diario la tensione è più forte? E quali sono, invece, gli aspetti a cui Anne si aggrappa maggiormente – oltre alla scrittura – per restare in equilibrio?
Come già accennavo, Anne intrattiene un rapporto non pacificato con l’immagine che gli altri hanno di lei. I suoi modi un po’ giullareschi fanno sì che “nessuno la prenda sul serio”, o almeno tale è la sua impressione. È un dissidio raccontato in lungo e in largo nella seconda parte del Diario, e che, unitamente alla paura della guerra, trova sfogo al di fuori del rapporto con gli adulti. La scrittura, l’ambizione di “votarsi a qualcosa” diventa indispensabile, è la risposta all’oblio quotidiano, quello che la vita da clandestina già comporta; lo sarà, ironicamente, anche per quello futuro. Il dialogo con Peter è, per una breve fase, altrettanto importante, così come lo è, in un primo momento, quello con sua sorella Margot. Non smetto di meravigliarmi rileggendo il resoconto di Anne dello sbarco in Normandia e dell’avanzata russa sul fronte orientale. La speranza si alterna al timore dei bombardamenti, dei furti, delle delazioni. Sono passaggi in cui la giovane donna e la scrittrice in erba danno sé stesse interamente.
Il percorso editoriale del Diario è stato inevitabilmente complesso. Il padre di Anne, Otto Frank, sopravvisse ad Auschwitz e morì nel 1980. Fu il primo a pubblicare i quaderni della figlia. Qual è stato il suo ruolo, e i suoi interventi sugli scritti della figlia?
Il lavoro di Otto Frank è stato oggetto di numerose critiche che lo resero fra le altre cose bersaglio prediletto dei negazionisti. Il fatto che esistessero dei manoscritti di un testo diverso da quello in circolazione costituì motivo di imbarazzo fino alla diffusione delle due versioni originali nel 1986. Assodata l’originalità degli stessi, bisognava che anche l’operazione di Otto venisse legittimata. Non fu facile. Raccontato come mera “censura” – e in minima parte tale fu, quando si decise di espungere dal testo pubblicato alcuni passaggi ritenuti irrispettosi della memoria di Edith Frank, la madre di Anne, o di altri – il lavoro sulla versione C va letto alla luce di un esito drammatico. Otto decise di integrare le due stesure, inserendo nella sua redazione molto di ciò che Anne aveva tagliato nella B – le pagine sull’infatuazione per Peter, ad esempio – e provvedendo ad alcuni aggiustamenti, con l’intento di rispettare non soltanto le aspirazioni letterarie della figlia, ma la memoria sua e di Edith, di Margot, di Peter, della famiglia Van Pels, del dottor Pfeffer. Il libro di Anne assume da subito il carattere ulteriore di scrittura “sull’orlo dell’abisso”, di testimonianza alla luce della tragedia. Si tentò, diffondendo i passi di cui la Anne scrittrice si sarebbe vergognata, di risalire al valore dell’intera vicenda umana in Prinsengracht 263, includendo così ciò che fu il dopo. Leggendo il Diario nella versione C, il monito, il fantasma della Shoah vibra in ogni pagina. Ciò non ne esaurisce il significato, ed è la ragione per cui escono oggi le due stesure originali.
Il tre febbraio 1944 Anne scrive: “Andrà come deve andare, ma se mi salveranno, e sopravvivrò alla rovina, non potrei sopportare di perdere i miei diari e i miei racconti”, quasi a voler mettere la scrittura davanti alla sua vita. Quando, in Anne, matura la convinzione di poter fare dei suoi quaderni un libro vero e proprio, e dunque bisognoso di cure differenti rispetto a un diario nato con scopi differenti?
La voglia di lasciare il segno, lo slancio contro l’oblio: questi sentimenti animano Anne Frank da molto presto, ma confluiscono definitivamente nella sua attività narrativa a partire dal 1944, a ridosso dello sbarco in Normandia, quando i suoi propositi si fanno più chiari e il sogno di diventare scrittrice o giornalista le si rivela in una particolare, fantomatica concretezza. Sogno non privo di un fervore generazionale: scrivere è l’unico rimedio contro un futuro destinato alla stasi e all’irrilevanza, sgonfiato di ogni entusiasmo, che assegna a ogni adulto il suo posto nella società. Anne sa di dover affilare gli strumenti. Non è certa di possedere talento, ma confida nella sua inventiva e nelle tante pagine già prodotte, che le fungeranno da materiale di partenza. Ecco una prima resa dei conti: risale al 5 Aprile 1944.
E se non avrò talento per scrivere sui giornali oppure dei libri, potrò pur sempre scrivere per me stessa. Ma voglio andare oltre, non posso pensare di fare la stessa vita della mamma, della signora v. P. e di tutte quelle donne che fanno il loro lavoro e poi vengono dimenticate, a me serve qualcosa a cui votarmi, oltre a un marito e dei figli! Con la scrittura mi isolo da tutto, la mia tristezza scompare, il mio coraggio rinasce! Ma è questa la vera domanda, sarò mai capace di scrivere qualcosa di grande, diventerò mai giornalista e scrittrice?
Nella postfazione pubblicata in appendice, Cynthia Ozick mette in guardia dal considerare il Diario con formule piuttosto retoriche, se non vuote, del genere “una testimonianza dell’indistruttibile nobiltà dello spirito umano”, o “un’inesauribile fonte di coraggio e ispirazione”; Ozick ricorda che a trionfare fu Bergen-Belsen, il campo dove Anne, che oggi avrebbe potuto avere novant’anni, morì. Ozick ha scritto quel testo all’inizio di questo millennio, preoccupata già allora dal clima di malcelata insofferenza intorno alla Shoah, al racconto dell’Olocausto. Oggi, alle soglie degli anni Venti, le preoccupazioni di Ozick suonano ancora più motivate. Che ruolo può avere, alla luce di tutto questo, un libro ancora così potente come il Diario di Anne Frank?
A più di settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, è ancora difficile comunicare l’unicità, la radicalità del male di cui il nazifascismo si è reso responsabile. L’antisemitismo trova inoltre nuova linfa nel tentativo di shoahizzazione di altri drammi, di comparazione confusa e inappropriata fra ciò che accadde nei lager nazisti ed episodi di violenza di tutt’altra natura. Assistiamo, a mio giudizio, a una corsa allo status di vittima, che chiunque desidera ottenere, magari usurpandolo a chi vittima è oggettivamente. Questa difficoltà a comprendere cos’è stato Auschwitz non ha forse rimedio. So al contempo che leggere Anne Frank aiuta a capire molto di ciò che fu. Basti pensare che non conosceremmo questa storia senza Johannes Kleiman, Victor Kugler, Miep Gies e Bep Voskuijl, i cosiddetti benefattori, che rischiarono la vita per proteggere otto ebrei sotto l’occupazione. Loro sono i buonisti del ’42.