Q uando lo impiega mio padre, Florin lavora le sue solite 9 ore al giorno senza pausa pranzo, più il tempo della trasferta. Si fa pagare 15 euro in nero perché ha delle pendenze con l’INPS. Il suo posto di lavoro è ogni giorno dentro una casa diversa; lui entra e fa le sue magie concrete: tira su un muro di foratini, controlla il quadro elettrico, usa il frollino per aprire i pavimenti e fare le tracce. Lo fa in case diversissime tra di loro che hanno in comune solo il fatto di essere composte da muri e tetto, per questo dice di sé che ha conosciuto tutti, tutto il mondo: “Quando sarò in pensione scriverò un libro sulle cose che ho visto”.
Ride perché lo sa che “pensione”, per lui, sarà quel momento in cui non riuscirà più fisicamente a fare lavori usuranti e dovrà reinventarsi in qualche attività meno faticosa. Questa è ad oggi l’ipotesi più realistica, e chissà se troverà il tempo e le energie per scrivere un libro.
Come notano Tiziano Toracca ed Emanuele Zinato in “Letteratura e lavoro: Introduzione” (Allegoria 82): “A partire dagli anni Novanta il tema del lavoro ha assunto un rilievo notevole nella narrativa italiana contemporanea. Lo dimostrano una serie di concomitanze: la pubblicazione di numerosi testi di vario genere da parte di decine di scrittori di diversa generazione; l’uscita, soprattutto dalla metà degli anni Zero, di una nutrita serie di antologie di racconti e reportage dedicati esplicitamente a questo tema; l’attenzione crescente e sistematica da parte della critica letteraria (a partire soprattutto dalla fine degli anni Dieci) […]”.
In merito a questa variegata produzione sono possibili almeno due prospettive di indagine, proseguono gli autori: quella sociologica e quella più specificamente critico-letteraria. E – aggiungo io – mentre dal primo punto di vista si può affermare che la testimonianza va bene purché sia in comunicazione con il lettore, crei un rapporto o aiuti a capire uno specifico lavoro/settore, d’altro canto, restando su di un livello critico – che quindi interroga la qualità di un testo – non si può dire che va bene tutto purché di lavoro si parli.
In ogni caso, le scritture sul lavoro sono in gran forma; c’è chi di questo tema si occupa in modo seriale da anni, e da qualche tempo diversi editori si sono accodati dando spazio a racconti sul tema.
Quanti | Einaudi
Nel 2021, Einaudi avvia una nuova collana digitale, i “Quanti”, che vogliono essere testi “brevi, agili, leggibili in una sola seduta, che vanno dritti al punto”, perché “[…] Abbiamo bisogno di conoscere, scoprire e capire una realtà mai come oggi confusa e oscura. Abbiamo bisogno di smontarla e osservarla nei suoi elementi fondamentali”. Ci sono state diverse uscite – incentrate sulla speranza, le reti, etc. – e poi, alla fine del 2022, è toccato al lavoro. Ne sono usciti quattro oggetti molto diversi tra loro.
C’è bisogno di saper riconoscere la differenza tra un documento sociologico e un testo con estro letterario.
In Buoni a nulla – Fondamenti di una teoria dell’ozio, decidendo di non parlare di lavoro ma dell’età dell’oro dell’ozio pieno di infanzia e adolescenza, Matteo De Giuli riesce comunque a evocare in negativo il senso di quello che il lavoro rappresenta per l’età adulta: se esso è quel qualcosa che chiama in causa sia il regno della necessità sia il regno della libertà, è in questa ambivalenza che il gioco di specchi tra tempo lavorativo, tempo libero e tempo liberato diventa interessante da leggere, con quel passo laterale che credo faccia bene alla letteratura.
In Cameriera, come già si notava in questa lettura di Dinamopress, Sarah Gainsforth riporta in modo cosciente, politico, contestualizzato uno dei settori lavorativi contemporanei più drammatici, che spesso assurge agli onori della cronaca (salvo poi inabissarsi velocemente di nuovo nell’indifferenza generale): la ristorazione. L’esposizione continua al pubblico presuppone un certo grado di performance – “E adesso scopro che io e Sandra dovremmo divertirci lavorando, o lavorare divertendoci, insomma comunque lavorare e divertirci insieme” – che risulta insostenibile quando agli altri sfugge proprio la messinscena: “[…] Vorrei poter fare il mio lavoro senza essere costantemente sottoposta alle invasioni di persone che ignorano la fondamentale differenza, il confine, che ci separa. Io sto lavorando”.
La lingua di Mariachiara Montera in Non dipende da te è vistosamente facile, come se di fondo ci fosse la convinzione che, visto che la retorica della passione ci imprigiona nello sfruttamento, un linguaggio asciutto e paratattico possa redimerci e indicarci la liberazione. Inutili gli artifici e lo straniamento, inutile l’elemento esistenziale troppo vischioso?
“Quello che leggerete nelle prossime pagine è il tentativo intellettuale, ed emotivo, di scaricare il peso. […] Mi sono alleggerita, e ho voluto scrivere queste parole per tutte le persone che hanno bisogno di questa leggerezza”: in fondo, quindi, questa è una cosa scritta da una persona che si definisce “grande fan della condivisione”; l’atto espressivo si inclina fino a diventare preminentemente comunicativo. Leggo e mi dico che, con la pantagruelica mole di contenuti autobiografici e testimoniali che abbiamo a disposizione nei blog, nelle newsletter, dappertutto, quando apro un libro o un libricino – come un “Quanto” Einaudi – non voglio leggere qualcosa che leggerei su Facebook.
Stare al mondo, di Chiara Sfregola, è la scusa per un ritratto del tipico uomo di successo e del gotha di relazioni tossiche che personaggi così carismatici riescono a crearsi tutt’intorno. Qui il protagonista è il rapporto con il datore di lavoro – non con il lavoro né col concetto di lavoro. Essendo caratterizzato da un certo (totale?, non lo so) grado di finzionalità, non ricade nella casistica della “coazione alla cronaca” di cui parla Pierluigi Pellini in Lo scrittore come intellettuale (Allegoria 63) riguardo a certe scritture testimoniali prodotte in serie.
Per alcuni, mettersi a raccontare il proprio lavoro ha un costo più elevato in termini di energie e risorse.
E tuttavia, questo odio-amore tragico con il capo, fatto di repulsione e identificazione, non esplode mai, il piede non preme mai sull’acceleratore della narrazione – il viaggio dell’eroina si compie in modo sbrigativo, il tutto si chiude in fretta e la vita va avanti. (E fin qui abbiamo una stringata recensione dei “Quanti” sul lavoro – mi ero ripromessa di farlo per incastonarla in qualcosa di più ampio).
Chi lavora, chi parla di lavoro, chi cerca di non lavorare per scrivere
Una delle due cose che voglio dire l’ho già messa sul tavolo: non c’è bisogno di oliare i meccanismi del circuito culturale con le narrazioni sul lavoro, ma di certo c’è bisogno di un certo tipo di narrazioni – ovvero, saper riconoscere la differenza tra un documento sociologico e un testo con estro letterario. La seconda è che se proprio dobbiamo stare nel perimetro della letteratura testimoniale dagli esiti lateralmente sociologici, la sua versione più onesta si rintraccia nei testi in cui il mondo del lavoro è narrato da chi non disporrebbe, almeno in linea teorica, del tempo per scriverne.
Per non essere ingiusta, a questo punto devo fare una precisazione: esiste un grosso tema che è quello della proletarizzazione della classe media, e non sto dicendo che chi fa parte della classe media non abbia diritto di testimoniare la propria sofferenza lavorativa, in modo più o meno fittivo. La gente nei lavori culturali non se la passa granché bene, e attraverso l’attivismo e le ricerche che faccio all’interno di Acta ne sono consapevole.
Ad esempio, nel report Io sono Cultura 2022 di Fondazione Symbola, si parla di 1.4 milioni di occupati In Italia nelle cosiddette ICC, Industrie Culturali Creative: la polemica che sollevo non è quindi sui numeri – il mondo della cultura non è una ristretta élite, anzi non è proprio un’élite – ma sull’indubbio privilegio di parola detenuto da certe categorie che lavorano nelle vicinanze del regno della parola. Per dirla in modo brutale, se rimaniamo al livello bolla-chiama-bolla, il tema del lavoro sembra subìre, nella cultura, una sorta di “insaporimento culturale” e basta.
Così in uno dei numerosi acutissimi passaggi di Works di Vitaliano Trevisan: l’“insaporimento culturale” è tipico delle operazioni di maquillage di chi si cimenta in una scrittura del lavoro il cui esito, forse non calcolato, è mandare avanti la “stracazzuta macchina comunicativa”.
Sempre edito da Einaudi, Works non ha bisogno di sinossi, e proprio per questo ne vorrei dare una definizione poco analitica: è la storia della volontà di scrivere della propria vita a partire dal centro nevralgico dei lavori svolti rosicchiando tempo utile per traslare proprio quella routine lavorativa nella scrittura. È un libro poderoso e ribollente sulla lotta per lo spazio metaforico da spartirsi tra nutrimento dell’anima e guadagno della pagnotta; non c’è nessun viaggio dell’eroe – in questo senso è pienamente non-fiction – ma solo la vita che si dipana attraverso (e verso) la consapevolezza di voler esistere secondo un unico dettame: poterne scrivere, poter disporre del tempo necessario affinché la vita minima nell’accadere diventi massima nell’accadere riscritta.
Più avanti, in un altro capitolo, Trevisan inizia così: “[…] né consideravo quegli anni come buttati via, così sempre mia madre in riferimento a quel periodo. In fondo, pensavo, anche se non scrivevo una riga, né tenevo un diario o altro, ero pur sempre uno scrittore, e, in questo senso, niente di ciò che avevo fin lì vissuto era stato buttato via, semmai il contrario”. Il tempo liberato dal fardello del lavoro è quello per scrivere:
Non posso certo permettermi, tra un lavoro e un altro, di prendermi un anno, o perché no?, magari anche due, e andare a rifugiarmi in una casa (di famiglia) in Maremma che non ho, e lì dedicarmi alla lettura, e fare ogni tanto una passeggiata, o un’escursione a cavallo, poi magari guardare un film, insomma ricaricarmi, come mi disse un noto scrittore di successo più o meno della mia generazione.
Works non è l’unico esempio di sguardo dell’estraniato, quel modo di guardare dei non integrati nel complesso industriale della parola. Con una diversa messa a fuoco, un’urgenza simile è dentro Ipotesi di una sconfitta di Giorgio Falco: si vive cercando di scansare il lavoro che, almeno nell’immediato, è tempo di non-scrittura. Il libro di Falco è molto di più di questo perimetro: è l’ossessione di sapere che, nella percezione sociale, il lavoro è l’esperienza che dovrebbe dare senso all’esistenza e socializzarci come cittadini funzionali. L’ossessione di saperlo e, insieme, di non sentirsi minimamente aderenti a questo diktat:
Dopo giorni e settimane ormai mi ero adattato a Sgabuzzis, ogni mattina timbravo il cartellino con mezz’ora di anticipo, non volevo incontrare alcun collega. Poi mi infilavo nel loculo. Usavo il mio computer portatile, lavoravo a La gemella H, in quell’ambiente soffocante e insalubre avevo ideato il personaggio chiamato l’Uomo di Lenhart […] La mia permanenza dentro Sgabuzzis non era una parentesi? Quelle cinque ore mica rappresentavano la mia vita, servivano solo a rendermela più chiara. Vi facevo sempre più cose, scrivevo articoli poi apparsi sulle pagine culturali di cui vent’anni prima, avevo venduto porta a porta il servizio di consegna a domicilio. […] Scrivevo, mi dimenticavo dov’ero e chi ero, soltanto allora stavo bene.
Scrivere è dimenticarsi chi si è, non confermarselo di continuo: come se fosse in corso una conversazione tra i due libri, ancora Trevisan scrive della frenesia venutasi a creare intorno al verbo “realizzarsi”: “[…] E poi, una volta che mi sono realizzato, che dovrei fare, appendermi a una parete? […] Realizzare qualcosa fuori di sé è tutto un altro discorso. Non c’è da rifletterci sopra più di tanto: solo l’opera conta”.
O, ancora, l’esigenza della scrittura non è l’orpello che si appone alle peripezie, ma una vera e propria pena: in Alla linea di Joseph Pontus, il romanzo-poesia di un operaio interinale che lavora in Bretagna, prima nella conservazione del pesce e poi in un mattatoio, la scrittura è quel qualcosa che si mette di traverso rispetto alla capacità di lavorare, “come una lisca in gola”:
Entrando in fabbrica / Naturalmente immaginavo / L’odore / Il freddo / Il trasporto di carichi pesanti / Il disagio / Le condizioni di lavoro / La catena / La schiavitù moderna / Non ci andavo per fare un reportage / Men che meno per preparare la rivoluzione / No / La fabbrica / è per i soldi / […] / Non ci vado per scrivere / Ma per i soldi / […] / Con il passare delle ore e dei giorni il bisogno di scrivere si / ficca tenace come una lisca in gola.
In questi tre casi – almeno in questi tre, ma la lista non si esaurisce qua – il mordente letterario viene dal fatto che, per alcuni, mettersi a raccontare il proprio lavoro ha un costo più elevato in termini di energie e risorse, e almeno in questi tre casi la parete che divide la testimonianza sociologica dal testo letterario crolla perché incarnano il certo tipo di narrazione onesta di cui sopra.
L’esistenziale quotidiano del lavoro è posto al centro, la scrittura agisce a mo’ di ritenzione idrica nella sua capacità di trattenere il malessere nel testo senza liberarlo; non si tratta neanche di dividere tra chi sta meglio e chi sta peggio, tra chi fa lavori usuranti e chi è seduto in ufficio – si tratta di chi ha ancora qualcosa da dire.
Io non posso sapere, poi, se l’ipotetico libro di Florin sarebbe un buon prodotto letterario o solo un documento sociologico utile a illustrare la vita delle persone tuttofare nell’Italia del 2023, ma una cosa la so: sarebbe il risultato di una vita di non-scrittura e di “lavoro vero, uno di quelli proprio senza glamour”.