L’ ultimo libro di Paul Mason, Il futuro migliore (Il Saggiatore, traduzione di Fabio Galimberti e Gaia Seller), presenta punti di vista interessanti e discutibili su buona parte delle questioni politiche fondamentali della nostra epoca e lo fa con il bagaglio di una vasta erudizione, una conoscenza accurata delle nuove forme della comunicazione, della cultura tecnologica, degli immaginari correnti, e soprattutto una decennale esperienza sul campo (Mason è da molti anni giornalista e reporter). La sezione più stimolante è a mio avviso quella che riguarda il nostro rapporto con le tecnologie: in questa lunga parte del libro Mason sostiene che “La nuova metafisica della scienza sia uno dei pilastri dell’antiumanismo che pervade le ideologie del XXI secolo”.
Facendo opera abbastanza serrata di critica dell’ideologia, Mason mostra come dietro la divulgazione di teorie scientifiche dal retrogusto tecnoentusiastico se non proprio misticheggiante (da certe estremizzazioni “idealistiche” della fisica quantistica secondo cui l’oggetto scientifico è “creato” dall’osservatore, fino a certe teorie alla moda sull’universo inteso come una simulazione realizzata da una intelligenza superiore), si nasconde una rimozione profonda della fiducia nelle potenzialità umane e nella possibilità delle società di determinare il proprio destino storico. Le speculazioni intorno all’intelligenza artificiale, alla robotica, alla bioingegneria, alla socialità virtuale, eccetera sono per lo più improntate a un fatalismo complice e compiacente verso la stato delle cose. Lasciamo che un potere superiore (che lo si chiami progresso, singolarità, dio, poco cambia) definisca le linee dello sviluppo e ci accodiamo sorridendo fiduciosi del futuro che ci aspetta.
Andando a ritroso Mason indica come questa acquiescenza teorica e psicologica affondi le radici in un pensiero tardonovecentesco che si voleva critico ma che ha finito col tagliare lo stesso ramo su cui posava, mettendosi al servizio del nemico: nel decostruzionismo, nel postmodernismo, nelle filosofie del trionfo dei simulacri, nel postumanesimo e fino alle più recenti e iperboliche correnti filosofiche come l’ontologia object oriented, Mason scorge una stessa linea di sviluppo e la diffusione di un tipo umano supinamente piegato alla forma dell’esistente perché “non c’è alternativa”. Cambia la tonalità emotiva (da una parte i depressi apocalittici orfani del socialismo, dall’altra i tecnofanatici annidati nelle start-up della Silicon Valley) ma il principio è lo stesso:
l’idea che siamo già diventati postumani, come risultato del progresso tecnologico, si allinea perfettamente con la più ampia architettura mentale reazionaria dell’era neoliberista.
Mason argomenta in maniera convincente e anche se un modello di pensiero dai nobili trascorsi come il relativismo culturale ne esce piuttosto male – poco più di un incubatrice per le attuali fake-news e pseudoscienze – Mason tuttavia non è Ratzinger. La linea che indica il saggista inglese è chiara e limpida nella sua stortura, come lo sono i correttivi che propone: non certo quelli di un conservatore dogmatico, ma di un militante schierato che predispone il pensiero all’azione senza andare troppo per il sottile.
Ted Chiang è un eccellente scrittore contemporaneo americano di fantascienza, nato da famiglia di origine cinese emigrata negli USA, dove lui nasce nel 1967: la sua produzione è parca e pesata, sempre profondamente meditata, lenta ed essenziale. Ogni tanto Chiang (“Solo quando mi viene un’idea” come spiega in un’intervista sul New Yorker: si considera uno scrittore occasionale, il suo mestiere ufficiale è quello di programmatore informatico, scrive quello che vuole quando vuole) solo ogni tanto, dunque, pubblica in sedi diverse un racconto di rara intelligenza e intensità e che di solito vince qualche importante premio dedicato alla letteratura fantastica e fantascientifica, il cui esito libresco succede anni dopo in una raccolta di novelle. Da uno dei racconti di Storie della tua vita, la sua prima raccolta,venne tratto Arrival, il film di Dennis Villeneuve del 2016. In questi giorni invece, sempre da Frassinelli (nella traduzione di Christian Pastore), è uscita la sua seconda raccolta, Respiro.
Ted Chiang e Paul Mason sono due autori che mi sembrano mossi da motivazioni molto simili. Ovvero elaborare, dal punto di vista di chi non nutre pregiudizi tecnofobici e anzi conosce e studia con passione le nuove e le vecchie tecnologie, uno sguardo e un pensiero capaci di rivalorizzare i principi umanistici laddove molti, da una parte e dall’altra, tendono a raccontarci che l’umanità, qualunque cosa essa sia (stata), a causa del progresso tecnologico è ormai mutata o del tutto finita, e dobbiamo iniziare a considerarci parte di qualcosa di completamente nuovo.
Mason lo fa da una prospettiva schiettamente politica, Chiang da una più morale e letteraria, ma i risultati convergono. Attraverso una serie di novelle dal forte sapore filosofico intorno a mondi immaginari al cui centro sono le modificazioni della vita indotte dagli apparati tecnologici, Chiang mette a fuoco una costante umana (che Mason, sulla scorta del primo Marx, definirebbe un po’ rischiosamente come appartenenza di specie) invariabile e intrascendibile. I racconti rappresentano tutti dilemmi etici calati in contesti altamente tecnologici: per esempio come potremmo rapportarci affettivamente a forme di coscienza artificiale, come si modificano la memoria e le relazioni interpersonali in un mondo di lifelogging costante e integrale, come sono conciliabili il libero arbitrio e una concezione quantistica o comunque altamente deterministica dell’universo. Spesso queste storie assomigliano (anche nel modo in cui sono presentate) a dei case study, altre volte a delle parabole anticheggianti con una piega marcatamente sapienziale.
Ma il tema di fondo è sempre lo stesso: non tanto la deumanizzazione degli individui indotta dalle tecnologie, quanto l’umanizzazione di queste ultime nonostante (e a maggior ragione) i salti e le discontinuità di sviluppo più drastici e accelerati. Più a fondo ancora, Chiang mostra come tra uomo e tecnologia non esista nessun tipo di esclusività essendo le due facce di uno stesso fenomeno o processo storico, come illustra bene il racconto intitolato “La verità del fatto, la verità della sensazione”, dove lo scrittore stabilisce un parallelismo tra una società distopica in cui l’uomo ha integrato proiezioni retiniche connesse a internet e una società tribale africana al tempo del colonialismo e del suo passaggio dall’oralità pura a una cultura alfabetica.
“Il mercante e il portale dell’alchimista” uno dei racconti più belli in assoluto di Chiang e dal sapore quasi buzzatiano, ambientato in un antico oriente da Mille e una notte dove si nasconde una sorta di portale temporale (che però trasporta solo nel passato e a una distanza cronologica fissa), diventa una riflessione narrativa di raro spessore sul tempo, il destino, gli anelli retroattivi che dominano la nostra esistenza senza che possiamo rendercene conto, i buchi interiori nei quali si nascondono le decisioni più importanti che non sappiamo di avere preso. Pensare di determinare la propria esistenza come un semplice prodotto delle nostre intenzioni è follia, “futuro e passato sono uguali. Nessuno dei due può essere cambiato, tuttavia possiamo conoscerli più a fondo.” Viaggiare nel tempo in questo racconto non ci permette di modificare il passato, non produce linee cronologiche parallele e i paradossi a cui siamo abituati da Ritorno al futuro in poi, ma quella conoscenza di cui parla la novella ci consente di approfondire e rendere più attivo il rapporto che abbiamo con il nostro passato e con il nostro destino.
Il racconto che dà il titolo al libro mostra un cyborg che studia nel dettaglio il delicato funzionamento del proprio cervello. Si tratta di una specie di tour de force pseudo hard sci-fi (Chiang si diverte molto a descrivere minuziosamente macchinari irreali) sull’intelligenza potenziata ispirato a uno dei racconti più belli e famosi di Dick (“La formica elettrica”) con risvolti filosofici riguardo i processi mentali e le contraddizioni cui va incontro un soggetto (inteso come entità puramente cognitiva) nel tentativo di prendersi a oggetto. Tra Cartesio, Condillac e Husserl, per così dire. Allo stesso tempo si tratta di un racconto sull’entropia con sfumature di climate fiction – se non sono casuali le risonanze con certe ricerche volte a dimostrare come l’aumento di CO2 diminuisce le nostre capacità cognitive. Un requiem (poiché il mondo del cyborg, il suo ambiente, sta collassando) intonato da un organismo la cui natura e origine non è conosciuta, stupito nonostante tutto delle potenzialità infinite e delle combinazioni che possono assumere le forme della vita:
Gli edifici che abbiamo edificato, i quadri che abbiamo dipinto, la musica e i versi che abbiamo composto, le vite stesse che abbiamo vissuto: niente di tutto ciò avrebbe potuto essere predetto, perché niente di tutto ciò era inevitabile.
C’è qualcosa di Calvino in Ted Chiang, l’umanismo progressista delle Lezioni americane o dei molti racconti in cui lo scrittore ha fronteggiato i lati oscuri della modernità, il rischio dell’alienazione e della macchinizzazione. Come in Calvino, anche in Chang predomina la cifra di una intelligenza straordinaria, una grande erudizione e una curiosità vorace. Inoltre, come e più che nello scrittore ligure, risuona in Chiang – accanto alla speculazione filosofica – una nota patetica: la vibrazione emotiva di un bisogno sostanziale di rivolgersi all’altro, di costruire una dimensione comune, e di riporre in ciò un’aspirazione inestirpabile alla felicità.
Forse da un punto di vista puramente letterario mancano a Chiang le caratteristiche forti e specifiche che identificano i grandi autori, una riconoscibilità immediata: troppo neutro nello stile, troppo variabile nei suoi prodotti: troppo intelligente? C’è un vecchio saggio di Roland Barthes (“L’ovvio e l’ottuso”) dove lo studioso francese sostiene che nei veri artisti è sempre presente una dimensione di ottusità, una stupidità “strutturale” che fa corpo con la loro capacità di creare un mondo, uno stile, una visione d’autore. Credo che Chiang (come d’altronde, in un certo senso, anche Calvino) sia una significativa eccezione alla regola di Barthes: non c’è punto cieco, non c’è oscurità, ottusità: tutto è limpido, acuto, serio, illuminato.
Per avvicinarsi al nucleo emotivo dei suoi racconti bisogna sempre attraversare una densa e ossigenante atmosfera intellettuale: la sua fantascienza si muove sistematicamente oltre gli schemi narrativi correnti e spesso il lettore, al di là del carattere tendenzialmente “a tema” e dell’uso di motivi classici, è chiamato proprio a un lavoro di decodifica dell’oggetto scritto: sono i frame, le cornici nelle quali si dispiegano le storie che allora vanno decifrate e comprese, in questo risiede l’interesse di molti racconti: che mondo è, come funziona, cosa significa, cosa cambia e cosa dice del nostro. Ho l’impressione che il carattere un po’ stilisticamente anonimo, poco “ottuso”, di Chiang sia allo stesso tempo il punto debole e la sua grande risorsa, anche legata – probabilmente – al modo con cui lo scrittore non si allontana dalla forma eminentemente sperimentale della short story.
C’è infine, in questo visionario talentuoso e affabile, un pudico desiderio di sparire dietro le proprie creazioni, di non essere più, di lasciare agire l’altro, le idee, i pensieri e la vita degli uomini, come in una nuova forma di realismo futuristico. Compreso tutto questo, accettate le variazioni fantatecnologiche e l’interrogativo filosofico ostinato che per alcuni lettori potrebbero forse risultare impegnativi, si coglie la grandezza e l’essenza di una scrittura che già altri hanno definito “fantascienza umanistica”. Non una letteratura piegata alla traduzione di messaggi socialmente utili: ogni racconto di Chiang solleva questioni irrisolte e istiga all’interrogazione inesausta sul mondo. Ma pur senza rinunciare alla complessità e all’indagine smaliziata dei lati più ambigui del reale, lo scrittore infonde nelle sue storie qualcosa di simile a quell’ottimismo radicale di cui parla Mason: un calore emotivo e affettivo raro, inatteso e in qualche modo galvanizzante. Quasi nostro malgrado, chiudiamo molti dei suoi racconti sentendoci meno soli.