A nche se non li avrebbe potuti definire esattamente nomadi, Olga Tokarczuk dice dei genitori che avevano passato gran parte della loro giovinezza all’insegna del cambiamento: “non appartenevano propriamente a una tribù stanziale. Si erano trasferiti molte volte da un posto all’altro”, precisa, “appartenevano alla generazione che viaggiava con il carrello tenda, portandosi dietro un surrogato della casa”.
Ad un certo punto, però, forse perché erano diventati genitori, forse perché anche questo, in effetti, era un cambiamento, avevano deciso di fermarsi in un posto “lontano da qualsiasi strada che potesse definirsi tale”, ma abbastanza vicino a una scuola per mettere delle radici. Il nomadismo che li aveva caratterizzati fino a quel momento veniva confinato alle annuali vacanze estive, anche se, persino in quel caso, “si fermavano in luoghi stabiliti, nei campeggi, sempre in compagnia di loro simili e attaccavano bottone con i vicini, circondati da calze appese ad asciugare ai cavi delle tende”. Insieme alla figlia avevano visto Carcassonne, si erano inerpicati sull’Acropoli di Atene e si erano fermati nei mercatini dell’usato per comprare paccottiglia, bottoni e fotografie; ovunque si avventurassero, però, questi viaggi finivano sempre nello stesso modo: con il ritorno a casa e una marea di lavatrici da fare.
Certe cose però devono rimanere nel sangue e così, I vagabondi, il nuovo libro di Olga Tokarczuk edito da Bompiani (trad. Barbara Delfino), si apre proprio con un tentativo di fuga della protagonista dalla casa paterna: “questa vita non faceva per me,” lamenta Tokarczuk, “evidentemente mi mancava quel gene che fa sì che quando ti trattieni a lungo in un certo luogo ci metti le radici. Ci ho provato molte volte, ma le mie radici erano sempre troppo corte e bastava un soffio di vento per farmi ribaltare”.
“Traggo la mia energia dal movimento, dagli scossoni di un autobus, dal rombo di un aereo, dal dondolio dei traghetti e dei treni”, spiega più avanti la scrittrice polacca che ne I vagabondi si abbandona a una specie di fantasticanza felice, innervando il libro di una precarietà irrequieta, come se fosse stato scritto non a una scrivania, ma di fretta su pezzetti di carta, tra uno spostamento e l’altro. Lo dice lei stessa, del resto:
Ho imparato a scrivere in treno, negli hotel e nelle sale d’attesa. Sui tavolini pieghevoli degli aerei. Prendo appunti durante il pranzo sotto il tavolo o in bagno. Scrivo seduta sulle scale dei musei, nei caffè, in auto, parcheggiata sul ciglio della strada. Scrivo su pezzi di carta, bloc-notes, cartoline, sul palmo delle mani, sui tovaglioli, a margine dei libri. Di solito sono frasi brevi, immagini, ma qualche volta ricopio citazioni dalle riviste. Mi capita di venire sedotta da una figura che si allontana dalla folla e allora abbandono il mio marciapiede per seguirla per un po’ e partire dalla sua storia.
Guidato com’è da questo spirito quasi rabdomantico, I vagabondi ha una insolita capacità generativa: ogni pensiero che traccia Tokarczuk, ogni figura che segue anche solo per un attimo basterebbe a riempire un intero romanzo. C’è la storia dell’anatomia, c’è la storia del cuore di Chopin, c’è la storia di un uomo che arriva con un traghetto in Croazia con la moglie e il figlio e che li vede svanire sotto i suoi occhi, ci sono lunghe meditazioni sulla lingua, sui viaggi e gli aeroporti; ognuna di queste storie viene raccontata per qualche paragrafo e poi viene sostituita da un’altra. A volte non sappiamo neanche come finiscono e queste storie restano lì, ad aleggiare su di noi, interrotte bruscamente come le conversazioni che ci scambiamo sui mezzi di trasporto, in attesa delle coincidenze. A metà tra gli I-Ching e una guida per nessun luogo, I vagabondi è un libro che ognuno dovrebbe portare in viaggio, perché non si rischia mai di lasciarlo a metà, perché I vagabondi non ha nessuna metà, perché non ha neanche nessun centro.
“Faccio bene a raccontare delle storie?” si chiede Tokarczuk, “non farei meglio a bloccare la mente con una graffetta, tirare le redini ed esprimermi non tramite racconti ma con la semplicità di una lezione in cui, frase dopo frase, si chiarisce ogni singolo pensiero e altri vengono accodati nei paragrafi successivi?”. Scritto da una figlia di una generazione in cammino, I vagabondi è infatti un libro felicemente disorientante, che ignora le strade maestre per i percorsi secondari, che elude ogni possibile strategia di conservazione e contenimento: è un libro che riproduce nei temi e nelle forme le origini della scrittrice, fino a diventare un invito a considerare la precarietà come condizione permanente, a considerarci più come migranti senza fissa dimora, che come turisti stagionali. “Fluidità, mobilità e illusione: questo vuol dire essere civilizzati. I barbari non viaggiano, loro si spostano soltanto con uno scopo o compiono razzie”.
Non con una razzia, ma con una fuga, inizia anche Leica Format, l’ultimo libro di Daša Drndić, scrittrice croata scomparsa lo scorso anno. Pubblicato in Italia da La nave di Teseo (traduzione di Ljiljana Avirovic), il libro si apre con la ripetizione di questa parola: fuga, fuga, fuga, “distorsione della memoria perduta”, “amnesia di lunga data”, “composizione polifonica in cui si ripetono le partiture seguendo determinate regole”. Ambientato tra l’Ottocento e il Novecento tra i territori della ex Jugoslavia e la Germania nazista, nel libro la scrittrice croata mette insieme una polifonia di voci simile a quella de I vagabondi, ma se quella di Tokarczuk aveva il tono della fantasticheria, quella di Drndić assomiglia a un’interrogazione di fantasmi, a un memoriale, alla lettura dei nomi degli scomparsi. Leica Format è una meditazione sulle barbarie della storia e sulla loro rimozione del ricordo collettivo e, come un quaderno pieno di date e appunti, assomiglia a una mappa ricostruita da indizi sparsi. Drndić scrive che “le vite sono tessute di cose secondarie, simili alle reti da pescatore”, che “quello che ci circonda oggi è strapieno di abbagli” e che
a ogni contatto, sia esso voluto o no, la rete dei nostri giorni si deforma, scivola, scompare, nel palmo della mano si sposta a sinistra e destra, avanti e dietro, poi circola, senza ritmo, senza armonia, indomabile, simile a un volto gigantesco di uno strano uomo di gomma con la faccia stupita.
Quindi parte a costruire Leica Format da una storia insolita e qualsiasi, quella di una donna che inizia a fingersi un’altra fino a rubarle l’identità, ma poi la intreccia con storie di scrittori in esilio, con quella di un uomo che arriva in una città e cerca un hotel e poi le voci dei familiari dei bambini uccisi durante la seconda guerra mondiale all’Otto Wagner Spital: è come se Drndić iniziasse a tessere piano piano una rete e poi d’improvviso tirasse i fili e le maglie ci si stringessero addosso, lasciandoci in mezzo a storie terribili, di mutilazioni, esperimenti medici su bambini, crimini di guerra, rivelandoci come il Novecento sia una vasca piena di veleni e di storie che abbiamo voluto dimenticare “nella beatitudine dell’oblio generalizzato”.
“Senza sapere tocchiamo le centinaia, migliaia di vite a noi lontane, intere enciclopedie del genere umano che penetra nel nostro quotidiano senza causare il benché minimo terremoto, nemmeno un alito d’aria, nessun rumore, nulla” e allora tocca che qualcuno compili “una piccola cronologia della conduzione di esperimenti medici sugli esseri umani in nome della pace, della democrazia e del progresso dell’umanità”, che racconti la banalità del male e di come, citando Calvino, “l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui”.
Sono libri diversi questi di Olga Tokarczuk e Daša Drndić, ma che si interrogano entrambi su come usare geografia e storia, su come mettere in relazione storia personale e nazionale, e che trasformano la lingua e la forma in strumenti di trasmissione, nella speranza di provocare una reazione duratura nel lettore. E c’è qualcosa di Sebald nel racconto di Drndić, nel fatto che continui a muoversi tra grandi eventi e storie minute, tra emigrati, uomini senza passato e tragedie nazionali. Leica format lavora per intersezioni, per inserimenti di testi di altri autori, colleziona testimonianze e documenti perduti, come se da questa giustapposizione si potesse ricavare una lezione; ed è quello che accade, perché Drndić riesce a portare la storia fuori dalle astrazioni, farne una somma di vite e di morti, di corpi e di crimini che gli uomini hanno perpetrato. Come il numero sul braccio di Sergio de Simone, 179614, un numero qualunque a che “va ricordato perché, come dice Wislawa Szymborska, il numero arrotondato è dimenticato della Storia è come se non fosse mai esistito”.
La storia arrotonda gli scheletri allo zero.Mille e uno fa sempre mille.
Quell’uno è come se non fosse mai esistito.
A questi due libri, così europei, se ne aggiunge un altro che arriva dall’altra parte del mondo: Falsa Calma di María Sonia Cristoff (La Nuova Frontiera, tradotto da Elisa Tramontin) “un viaggio tra i paesi fantasma della Patagonia”. Cristoff, nata in Patagonia, si interroga qui su come sia la vita nei paesi alla fine del mondo, in questi luoghi che sembrano perennemente sospesi nel tempo, in attesa di qualcosa che non arriva. Il racconto parte da una fotografia di gruppo:
L’hanno scattata quelli che hanno finito le elementari a metà degli anni Sessanta. Quindi hanno tutti, in questa foto, tra i quaranta e i cinquant’anni […] Molti dei partecipanti a quella serata, mi dice la donna che ha tirato fuori la foto da una scatola da scarpe foderata, non si vedevano da anni. Erano quasi tutti figli dei lavoratori più fortunati dell’industria petrolifera e, pertanto, durante l’adolescenza erano andati altrove a studiare o a cercare un buon partito.
“Ci ho messo un anno a rintracciarli, uno per uno. Come un detective, come un giustiziere”: Falsa Calma è una indagine sui singoli destini di una comunità, una raccolta di testimonianze che, trascritte e messe una accanto all’altra, raccontano la storia di questo paese e delle sue origini, dagli emigranti europei che tentano di rifondare la loro nazione di partenza (Cristoff dice che tutti intorno a suo padre parlavano in bulgaro, come se non se ne fossero mai andati dall’Europa, mentre sul Tascabile Graziano Graziani ripercorre la storia della nave Genova), alle industrie petrolifere, al senso per la religione e le maledizioni quando vivi in mezzo al niente. In uno spazio in cui il tempo sembra non scorrere, la narrazione non può far altro che seguire la geografia e contaminarsi con linguaggi e stili diversi, aprendosi a finali e scenari inediti. “Arriva sempre il momento, dicevo, in cui si spezza l’incantesimo, in cui si spegne il desiderio di raccontare mostrato all’inizio dagli autoctoni”, scrive Cristoff, che per supplire a questa storia mutilata, alle voci perdute di chi non c’è più, costella il suo libro con documenti e articoli di giornale. Il risultato è che in Falsa calma il racconto diventa un flusso unico, animato da illuminazioni improvvise e confessioni terribili.
“I racconti giungevano a me”, scrive nel primo capitolo, “l’atmosfera mi usava come ventriloqua. Da lì è nata la voce bifronte che racconta quanto segue: ho cercato costantemente di mantenere il controllo, ma, devo ammetterlo, ci sono momenti in cui è quell’atmosfera a parlare attraverso di me”.
In una nota finale al libro, Cristoff riflette sui motivi che l’hanno portata a scrivere questa breve storia della sua terra: riflette sulle forme del new journalism e su come questo sembri ridotto a utilizzare il rigore del giornalismo per poi edulcorarlo con un po’ di narrativa; ecco, si dice Cristoff, è quella parola, edulcorare, che non dovremmo usare. Falsa calma, come I vagabondi e Leica format, non è un reportage, né indagine, né manuale di viaggio, ma una meditazione sulla storia e sui suoi movimenti, su come assomigli a forza che abbassa, schiaccia e umilia sempre i soliti, sempre gli ultimi, che siano i nomadi, i perseguitati o gli ultimi abitanti di una terra spopolata. La scrittura così non è un’opera di consolazione, ma di disvelamento, capace di toglierci dall’astrazione e di raccontare storie nella loro interezza.