N ella Storia naturale della distruzione, W.G. Sebald constata l’incapacità della letteratura tedesca di restituire l’orrore dei bombardamenti subiti durante la Seconda guerra mondiale. I dati che possediamo al riguardo – tre milioni e mezzo di alloggi distrutti, seicentomila vittime, più di sette milioni di profughi – hanno la freddezza delle mere statistiche, perché non sono stati tradotti in una narrazione compiuta. Nelle parole di Sebald: «L’atto conclusivo della distruzione – quale fu vissuto dalla quasi totalità dei tedeschi – restò così, nei suoi aspetti più foschi, un infamante segreto di famiglia su cui gravava una sorta di tabù.» I pochi che lo affrontarono lo fecero spesso in modi discutibili, ricorrendo a stilemi che annebbiarono la vista invece di renderla più chiara. La causa di questa amnesia non è difficile da rintracciare: il gravoso senso di colpa per il passato nazista. Benché indiscriminati, inefficaci a fini bellici e con conseguenze devastanti, i bombardamenti furono accolti con muta accettazione da chi si era macchiato di crimini tanto infami. Poco importa, come ricorda Sebald, che l’uso dei bombardieri non avesse l’obiettivo di porre termine al conflitto, ma fosse un modo per intervenire in ogni caso – e più ancora, l’interpretazione radicale della guerra come annichilimento del nemico. Di fronte a tutto questo, gli autori tacquero: «Sembra proprio che in quegli anni – eccezion fatta per Nossack – nessuno fra gli scrittori tedeschi volesse o sapesse mettere per iscritto qualcosa di concreto sul decorso e le conseguenze di quella lunghissima, immane campagna di annientamento. E la realtà non cambiò nemmeno a guerra finita.»
Ma a guerra finita giunse uno straniero dal nord: lo scrittore svedese Stig Dagerman, di ventitré anni. Un giornalista in apparenza come molti altri, desideroso di indagare sulla situazione tedesca, ma dotato di alcune qualità uniche. Di fronte al corto circuito linguistico e morale che pervadeva i testimoni tedeschi, Dagerman compì un’operazione coraggiosa: si assunse la responsabilità dello sguardo. La responsabilità di raccontare ciò che per quasi tutti era meglio lasciare sepolto fra le macerie.
L’indifferenza è anche un modo per difendersi dalle colpe passate, ma Dagerman non soffriva di questo difetto: fra gli scrittori del Novecento è uno dei più puri, dei più partecipi. Chiunque abbia letto anche solo una sua pagina ne riconosce subito l’urgenza e la mancanza di compromissioni. In Autunno tedesco, tali qualità sono al servizio di domande che scuotono la buona coscienza del lettore. La colpevolezza deve escludere l’empatia? E fino a che punto possiamo spingere la nostra compassione nei confronti degli ignavi, di chi forse non partecipò attivamente all’orrore ma contribuì a perpetrarlo con il suo silenzio? Ed è lecito anche solo scriverne, invece di limitarsi alla più ferma condanna?
Osserva Alain Finkielkraut nel suo saggio Un cuore intelligente: «Non c’è bisogno della letteratura per imparare a leggere. C’è bisogno della letteratura per sottrarre il mondo reale alle letture sommarie, siano esse quelle del facile sentimentalismo o dell’intelligenza implacabile. La letteratura ci insegna a diffidare dei teoremi dell’intelletto e a sostituire al regno delle antinomie quello della sfumatura.» Ecco: il «cuore intelligente» di Dagerman gli consente di distinguere i gradi di responsabilità personale e collettiva, e la sproporzione del danno subito da alcuni: «la sofferenza tedesca è collettiva mentre le crudeltà tedesche, nonostante tutto, non lo furono. Inoltre la fame e il freddo non sono incluse tra le pene comminabili dalla giustizia per lo stesso motivo per cui non lo sono la tortura e il maltrattamento, e un verdetto morale che condanna gli accusati a un’esistenza disumana, ovvero a un’esistenza che riduce la dignità umana dei condannati invece di elevarla – giacché questo dovrebbe essere il fine implicito della giustizia terrena – ha già distrutto i fondamenti del proprio diritto a esistere.» Questa non è saggezza di comodo. Non giunge a Dagerman da riflessioni astratte, bensì da uno sforzo materiale di restituire la vita quotidiana durante quell’autunno. A differenza di molti intellettuali comodamente seduti in poltrona, lo scrittore svedese esercitò – per citare il titolo di un articolo della raccolta – «l’arte di scendere in basso». Solo toccando con mano le difficoltà reali del popolo tedesco egli poté elaborare il suo coraggioso umanismo universale: «le dichiarazioni di scontento e persino di diffidenza verso la buona volontà delle democrazie vincitrici non sono state pronunciate nel vuoto, o in un teatro dal repertorio ideologico, bensì in realissime cantine di Essen, Amburgo o Francoforte sul Meno.»
E sono queste cantine allagate, abitate da vedove e bambini affamati, che Dagerman descrive, a costo di riportare a galla una sgradevole verità: ad esempio le parole di chi ritiene che stesse meglio sotto Hitler. Ma di nuovo: «è un ricatto analizzare l’atteggiamento politico dell’affamato senza contemporaneamente analizzare la fame.» Non era affatto scontato scriverlo, nel 1946. Avere fede in una giustizia non ciecamente retributiva, non mascherata da triviale vendetta; dire che «la fame è una pessima maestra» per educare i colpevoli; credere innanzitutto nella possibilità di recuperare i colpevoli del male più osceno che fosse mai apparso in Europa – no, davvero non era scontato. Beninteso, questo soffermarsi sul contesto non giustifica minimamente le atrocità naziste, né rimuove gli inquietanti spazi grigi diffusi tra la popolazione. Dagerman si indigna nel constatare come gli ex nazisti siano spesso quelli che se la cavano meglio; ed è molto severo con le persone prive di sensi di colpa, interessate solo alle proprie difficoltà. Ma riconosce che queste difficoltà, se spinte all’estremo, non servono a nessuno. In Autunno tedesco Dagerman professa dunque un’umiltà intellettuale rara, non per pietismo d’accatto bensì per sfiducia nei mezzi della ritorsione: «la sofferenza meritata non è meno difficile da sopportare di quella immeritata», e uno scrittore che si scorda della sofferenza è già affetto dal cinismo e dall’ansia di semplificare. Molti lo fecero; era facile, e spesso fondato su ragioni di ottima fede antinazista. Ma Dagerman era più coraggioso e radicale; non si accontentò di narrare lo sfacelo, né provò soddisfazione alcuna nel vederlo in atto.
Anche per questo il libro non propone pacificazioni ingenue. Nonostante abbia vissuto gli anni della guerra nella Svezia neutrale, Dagerman è cresciuto a contatto con l’ambiente anarchico e sindacalista; ed è difficile immaginare un antifascismo più sorgivo del suo. Critico sia del blocco sovietico che dell’unione atlantica, nemico di ogni autorità e difensore della «terra di nessuno» del partigiano, mostra inoltre di possedere il polso politico della situazione. Assiste a un comizio del socialdemocratico Schumacher a Monaco riconoscendo la sua scarsa presa, il disorientamento dei presenti. Registra la delusione per la mancata palingenesi antinazista del Paese, la pochezza e l’arbitrarietà dei Tribunali popolari, e l’indignazione nei confronti dei gerarchi impuniti. La giustizia e l’epurazione sono più messe in scena, in forma teatrale, di quanto siano realmente esercitate: gli ex nazisti più o meno la scampano, specie se hanno soldi da parte: acquistano case, salutano con garbo chi hanno aiutato a condannare; mentre le vittime – anche per una loro dignità personale – faticano a essere risarcite e sono condannate a una doppia solitudine. Penso all’agghiacciante finale del capitolo «Nel bosco degli impiccati»: mentre «un giurista nazista raccoglie la legna nel bosco dove appena due anni fa i nazisti hanno impiccato dei bambini», più in alto gli americani «sparano al cinghiale con le munizioni della vittoria».
Tutto Autunno tedesco è percorso da immagini simili, concrete e potentissime: è uno dei suoi molti pregi. «I medici che raccontano agli intervistatori stranieri le abitudini alimentari di queste famiglie», si legge nel primo pezzo della raccolta, «dicono che è indescrivibile quel che cucinano in tali pentole. In realtà non è indescrivibile, come non lo è tutto il loro modo di esistere.» Ma all’aggettivo indescrivibile – che implica solo il distogliere lo sguardo – Dagerman oppone quella che Greene chiamava una «meravigliosa oggettività», e procede a descrivere con una tale precisione da farci sentire accanto a lui in questo viaggio. Vediamo dunque la miseria dei profughi, costretti ad abitare treni scassati o a elemosinare qualche marco: «Gente vestita di stracci, affamata e indesiderata, si accalcava nei bunker bui e maleodoranti delle grandi stazioni ferroviarie o in quei bunker giganteschi, alti e senza finestre, simili a gassometri quadrangolari, che si innalzano come enormi monumenti alla sconfitta nelle città tedesche rase al suolo.» Vediamo le facce bianche di chi vive da anni nei bunker – «facce che assomigliano tanto ai pesci quando salgono verso la luce per prendere ossigeno». Nel bellissimo «Rovine» viaggiamo verso Amburgo, fra «singoli muri rimasti in piedi con finestre senza vetri che come occhi spalancati guardano giù verso le rotaie, indefinibili resti di case con ampie e nere tracce d’incendio, resti alti e arditamente scolpiti come monumenti alla vittoria, oppure piccoli come pietre tombali di media grandezza». Questa è l’opera di un artista, non di un reporter qualunque: così come opera d’artista è il commovente ritratto degli antifascisti tedeschi, delusi dalla mancata radicalità della liberazione. Essi sono «le rovine più belle della Germania, ma per il momento altrettanto inabitabili dei cumuli di case crollate tra Hasselbrook e Landwehr, dall’odore acre e amaro di incendi estinti nell’umido crepuscolo autunnale». Tocchiamo con mano come la differenza della distruzione è anche una differenza di classe: chi ha pagato di più è chi possiede di meno, perché i conti in banca non vengono bombardati come le case. Assistiamo alla lotta fra connazionali poveri; al balletto delle accuse reciproche; alla diffidenza verso gli anziani complici del regime. E osserviamo la mostra dell’export bavarese per l’America, dove «le madri senzatetto possono ammirare deliziosi piatti di porcellana da sogno nei quali non potranno mai mangiare». Riflettere su tanta esattezza linguistica è importante, e non solo per ragioni di stile. La precisione qui ha un valore morale. Ha scritto Colm Tóibín che lo stile «nordico», di cui Dagerman è un altissimo rappresentante – con Bergman e Dreyer – «non è né ornamento né esaltazione; è fermo e quasi desolato nel suo scopo. Il nostro tempo sulla terra non fornisce ragione o necessità di dire altro che quanto necessario; il linguaggio è quindi una forma di calma, di modesta conoscenza o forse anche di evasione».
Nell’articolo conclusivo, «Letteratura e sofferenza» – quasi un manifesto – il pensiero di Dagerman mentre torna in Svezia sull’aeroplano è uno solo: «come ci si sentirebbe se si fosse costretti a rimanere, se si dovesse patire la fame tutti i giorni, dormire in cantina, combattere continuamente contro la tentazione di rubare, tremare di freddo ogni minuto, se si dovesse sempre lottare per sopravvivere, anche nelle condizioni più difficili?». Questo non è certo il modo migliore per apprendere qualcosa e riflettere sui propri errori. La convinzione di Dagerman è semplice: il dolore è sempre indegno, perché produce solo una forma «di amarezza, di isteria, di stanchezza di vivere e di mancanza d’amore». Sotto di lui, mentre scrive nell’abitacolo dell’aereo, Brema è nascosta dalle nubi, «impenetrabilmente nascosta come la muta sofferenza tedesca». Eppure lo scrittore è riuscito a darle voce, con delicatezza e umiltà. E attraverso i dolori del popolo carnefice rileggiamo, in filigrana, quello inflitto alle vittime, cogliendo così un universale messaggio d’etica, fuori dalla logica della vendetta senza fine. Questo, di nuovo, non per perdonare o addurre conciliazioni che si limiterebbero a coprire l’orrore, ma per uscire nuovi da una tragedia che comportò abusi difficili da ammettere anche dalla parte dei «buoni».
Dopo l’assassinio dell’amato nonno, il giovane Dagerman cercò di scrivere una poesia per ricordarlo. Non riuscì che a buttare giù alcune «righe penose», come ricorderà in seguito, ma fu questo il suo atto di nascita come scrittore: lì desiderò essere in grado di dire «cosa significa provare un lutto, essere stati amati, essere abbandonati». Tutta la sua opera vibra di questo bisogno fondamentale: e in Autunno tedesco si eleva anche a bisogno politico, a monito futuro. In tempi dove altri conflitti e altre rovine si accumulano o si annunciano, e in tempi dove gli scrittori sono chiamati a risponderne con ardore e onestà, la parola di Dagerman appare quanto mai necessaria.
[L’estratto pubblicato è la postfazione a Autunno tedesco, in uscita per i tipi di Iperborea il 31 gennaio.]