N on sono un kinghiano della prima ora, né un conoscitore esperto della sua opera; in compenso sono un vero appassionato di It. Torno ripetutamente su questo romanzo, lo rileggo, lo sfoglio, ci sono pagine che conosco a memoria e altre che non ricordavo, eppure che aprendo a caso — dovremmo soffermarci anche su questo: aprire un libro a caso, scoprirne il fascino aleatorio, la bellezza di una scena non sottoposta alla trama — dicevo, pagine che aprendo a caso mi sorprendono e lanciano un bagliore.
La trama è abbastanza nota, ma proviamo a riassumerla per grandi linee. Siamo nel Maine, terra kinghiana per eccellenza: nel 1958 un gruppo di sette ragazzini piuttosto sfigati — il nome del loro gruppo è i Perdenti, ma Losers andrebbe tradotto proprio così: “Sfigati” — affronta un mostro di origini arcane che abita le fogne della loro cittadina, Derry. Questo mostro è It, e ognuno di loro l’ha incontrato in una veste diversa — ma molti l’hanno visto nella forma del clown Pennywise. Durante la battaglia lo feriscono gravemente, e credono di averlo ucciso. Poi ognuno se ne andrà per la sua strada, dopo una solenne promessa: se per caso dovesse tornare, ci ritroveremo e lo ammazzeremo una volta per tutte. E It torna. Nel 1985 si risveglia per fomentare violenza e nutrirsi di bambini — la sua pratica preferita — e nel contempo manda un richiamo ai Perdenti, ora adulti. Così loro tornano a Derry, seppur con una defezione di cui non vi dirò, e combattono il mostro per l’ultima volta — sconfiggendolo.
Naturalmente queste poche parole non danno affatto un’idea della complessità e della vastità dei temi presenti nel romanzo. Servono solo come inquadramento generale.
It è stato pubblicato nel 1986, e King l’ha scritto in quattro anni mentre sfornava altri romanzi — e mica robetta: penso solo a Pet Sematary, del 1983, forse il suo libro più dolente e terribile. Eppure è un capolavoro, indiscutibilmente il massimo risultato di King: qui raccoglie tutte le forze già mostrate nei libri precedenti e le libera con un’energia e una generosità dirompenti.
Secondo l’opinione autorevole di Luca Briasco (in Americana, minimum fax 2016), una ricerca del “Grande Romanzo Americano” senza pregiudizi dovrebbe rivolgersi anche a It. Concordo appieno: questo libro ha qualcosa di grande, qualcosa che tocca il cuore dell’America. E, proprio come il suo antagonista principale, si manifesta in forme e generi differenti: è racconto dell’orrore, thriller, Bildungsroman, riflessione sul male e sul potere delle storie, romanzo d’avventura, storia d’amore, storia d’amicizia, divagazione sulla famiglia (naturale e acquisita) e così via.
Ma soprattutto It fa paura, una paura tremenda, a differenza del film (ma non la serie tv con Tim Curry — quella fa paura). E far paura è cosa ben diversa dal fare spavento — provvisorio e banale, come un balzo sulla sedia: ha a che fare con qualcosa di ancestrale. È perturbante, ossessiva. Ci riguarda. Esattamente come altri grandi romanzi, come Alla ricerca del tempo perduto o Gita al faro o I demoni, parla direttamente alla parte più profonda del nostro animo. Usa parole e mezzi diversi, certo; e si rivolge a una zona differente dell’io. Ma viaggia nella stessa direzione.
A tal proposito: sappiamo che King è un artigiano consumato, un grande narratore; queste cose ve le può dire chiunque. Ormai siamo nel 2019 e King è stato accettato, ma spesso ancora turandosi il naso: Sì, la struttura. Sì, la forza della storia. Ma invece del piglio narrativo che tutti lodano — un piglio effettivamente unico — io vorrei brevemente parlare di quello che il critico severo evita, perché in fondo non apprezza affatto: lo stile.
Nella prima prefazione a On Writing, il suo libro sulla tecnica dello scrivere, King racconta che una volta chiese a Amy Tan quale fosse la domanda che nessuno le aveva mai rivolto. Risposta: “Nessuno mi chiede mai del linguaggio”. E King commenta: “Amy aveva ragione: nessuno chiede mai del linguaggio. Lo chiedono ai DeLillo e agli Updike e alle Styron, ma non lo chiedono agli autori popolari. Eppure anche noi proletari ci prendiamo a cuore il linguaggio, nei nostri modesti limiti, e ci preoccupiamo con passione dell’arte e delle tecniche con cui raccontare storie sulla carta.”
Molto ben detto, e quasi sempre evitato: per una certa accademia c’è solo un modo giusto di scrivere narrativa, e per reazione alla dolorosa pochezza linguistica di questi tempi sembra ancora più giusto: badare unicamente allo stile e nel modo più alto possibile. Non sono un partigiano di questa tesi, ma nemmeno di quella opposta. Io credo semplicemente — si fa per dire, è ovvio — che uno scrittore debba raccontare una bella storia con una bella lingua: ma più ancora, che questa lingua sia coerente al tema scelto. Che nasca insieme a esso, che lo vesta alla perfezione.
King non è Faulkner e non è Joyce Carol Oates o Alice Munro o Proust o Woolf, ma sentite qua, proprio da It, nella versione di Tullio Dobner:
Sopra la diga il Kenduskeag aveva assunto un aspetto di piena. Il chiacchericcio dell’acqua bassa sui sassi e la ghiaia non si udiva più; ora tutte le pietre a monte della diga erano sommerse. Di tanto in tanto giungevano i tonfi e gli scrosci di zolle più o meno grandi che cadevano nell’acqua, strappate alle sponde dall’ampliarsi della corrente.A valle della diga il greto si era quasi del tutto svuotato. Al centro scorrevano irrequieti rivoletti, ma l’immagine generale era quella di un fiume in secca. Pietre rimaste sommerse per tempi immemorabili si andavano asciugando al sole. Eddie contemplò questi sassi quasi asciutti con un senso di intima meraviglia… e quell’altro inspiegabile sentimento. L’avevano fatto loro. Loro.
Ecco. Semplice e dritto e pulito. Oppure qui, quando Ben Hanscombe passeggia in biblioteca:
Gli piaceva l’odore dei libri, un odore di spezie, che aveva del favoloso. Ogni tanto passava tra gli scaffali per gli adulti, rimirando migliaia di volumi e immaginando un mondo di vite dentro ciascuno di essi, come talvolta camminando per la sua via in un crepuscolo affocato e affumicato di un pomeriggio di tardo ottobre, il sole ridotto a una linea di arancione cupo all’orizzonte, immaginava le vite che si svolgevano dietro quelle finestre…
E così via. In generale c’è senz’altro qualcosa di un po’ grezzo nello stile di King, e forse l’immagine migliore per descriverlo è contenuta nel romanzo stesso, quando lo scrittore Bill Denbrough si accinge a scrivere il suo primo vero racconto. Allora sente di aver trovato il pulsante che accende “l’enorme bulldozer che gli occupa gran parte della testa. Si è messo in moto. E romba, romba. Questa macchina imponente non è un gran che graziosa. Non è stata costruita per portare le belle ragazze alle feste, non è uno status symbol. No, questa è una macchina che fa sul serio, serve per lavorare. È in grado di spianare di tutto. Se non sta attento, finisce spianato anche lui.”
La potenza narrativa è senz’altro una cifra essenziale della scrittura di King. Ma al contempo, come avete appena sentito, esistono sempre dei momenti — per lo più quando descrive i luoghi, o le facce della gente, o certi pomeriggi incantati di gioco e contemplazione — in cui la prosa si appiana, raggiunge un grado di ruvida e commossa semplicità. Non si limita a creare tensione magistralmente, a inventare personaggi bellissimi, a tenere in piedi una vastissima architettura di storie primarie e secondarie. Sa anche indugiare, dote primaria del grande scrittore. Sa chinarsi sopra il dettaglio.
Cos’è It
Si potrebbe andare avanti a lungo sulle questioni tecniche del come, ma è meglio andare al cuore del problema: perché far paura? Perché leggiamo It? Come mai ci piace così tanto?
Quando King racconta le spaventose imprese di Pennywise il clown non vuole soltanto tenerci svegli la notte — sebbene sia un effetto tutt’altro che secondario del suo lavoro — bensì avvicinarsi alle ragioni primordiali della nostra paura — perché il mondo è una sfera magica, per dirla con Dylan Thomas — e del perché raccontiamo storie — per decifrare questa magia e dare un limite a terrori senza limite, per dirla con Chesterton.
Il mondo in effetti fa paura per diversi motivi. E It mostra in azione delle dinamiche che conosciamo perfettamente, non importa se siamo stati vittima o carnefice. Usando la paura, una paura molto concreta e terribile, King propone la sua personale ricognizione sul male. Un problema enorme: un problema da vero scrittore, affrontato con i mezzi del vero scrittore.
Per cominciare, It è un essere proveniente dallo spazio profondo, e che arriva sulla Terra in un tempo remoto e imprecisato, ma in cui già esistono gli esseri umani. E sono gli esseri umani, con le loro complesse emozioni, a fornirgli un nutrimento delizioso; tanto che It decide di non muoversi più da Derry, vivendo un comodo ciclo di veglie e sonni che si alternano ogni ventisette anni.
Il male si dice in molti modi, parafrasando Aristotele. Come vedremo, Pennywise sfrutta la sua capacità metamorfica per offendere nel modo più subdolo; ma la varietà e la ricchezza del male ci è offerta in primo luogo dallo spettacolo degli uomini. Un male stupido, reiterato, su cui nessuno si ferma a riflettere: e un’altra grandezza del romanzo sta nell’offrirci un catalogo di tutte le sue peggiori varianti, dalla violenza sulle donne al bullismo all’omofobia, spesso sottaciute e nascoste perché parte della vita di ogni giorno. Eccovi Ben Hanscombe torturato dai suoi bulli:
“Ciao, tettona”, lo salutò Henry.
“Che cosa vuoi?”, ribatté Ben cercando di mostrarsi coraggioso.
“Suonartele”, rispose Henry. Pareva che contemplasse quella prospettiva spassionatamente, quasi con solenne distacco. Ah, come gli brillavano gli occhi neri. “Ho qualcosa da insegnarti, tettona. Non ti dispiacerà. A te piace imparare cose nuove, no?”
Allungò una mano verso di lui. Ben si ritrasse.
“Tenetelo, ragazzi”.
Belch e Victor lo afferrarono per le braccia. Ben squittì. Fu un verso codardo, conigliesco e pavido, ma non seppe trattenersi. Ti prego Dio che non mi facciano piangere e non mi rompano l’orologio, pensò confusamente. Non sapeva se sarebbero arrivati a fracassargli l’orologio, ma era più che sicuro che avrebbe pianto. Era più che sicuro che avrebbe pianto copiose lacrime prima che avessero finito con lui.
“Puà, versacci da maiale”, commentò Vicotr. Gli torse il polso. Belch ridacchiò.
Poi gli sollevano la maglia, Henry tira fuori un coltello e comincia a torturarlo con delle domande mentre gli punta la lama contro la pancia. Non vi dico cosa succede dopo; vi dico cosa succede durante:
Sopraggiungeva lentamente un’automobile. Era una polverosa Ford del ’51 con una coppia di anziani installati sul sedile anteriore simili a un paio di manichini scappati da qualche grande magazzino. Ben vide l’uomo voltare adagio la testa verso di lui. Henry gli si avvicinò di più, nascondendo il coltello. Ben ne sentì la punta che gli premeva nelle carni appena sopra l’ombelico. Era ancora gelida. Non capiva come fosse possibile, ma era così.
“Avanti, grida”, lo esortò Henry. “Poi ti chini a tirarti su le budella alle scarpe.” Erano abbastanza vicini da baciarsi. Ben fiutava l’odore dolciastro della gomma alla frutta nell’alito di Henry. L’automobile passò oltre e continuò per Kansas Street, lenta e serena come quella che apriva il corteo del Torneo delle Rose.
…“lenta e serena come quella che apriva il corteo del Torneo delle Rose”. È così facile nascondere il male e la brutalità, vero? Ed è molto facile anche dire che è tutta colpa di It: è stato lui a spingere gli abitanti di Derry a fare ciò che fanno. Ma è una giustificazione che ci fa ricadere nell’irresponsabilità più totale e ci impedisce di riconoscere che a It, per quanto difficile, si può resistere. Derry non è una landa di belve tutte uguali che si azzannano a vicenda. Per quanto sfumata e sottoposta a influenze demoniache, nel mondo di King la colpa personale esiste: gli uomini non sono schiacciati e inermi, ma attivi collaboratori del male. È un marchio di fabbrica di King: pensate a Shining. L’Overlook Hotel agisce certamente sulla psiche di Jack Torrance, ma Jack Torrance non è affatto un innocente; il male è già dentro di sé, e l’albergo trova terreno fertile stimolandolo.
Insomma: ci sono prede e predatori; e ci sono coloro — i nostri eroi — che rifiutano di essere sia prede che predatori. Ma nel tempo It ha conquistato quella cittadina al punto di fondersi con essa; forse anche perché la gente gliene ha offerto la possibilità, lasciando che il proprio cuore si indurisse al punto da essere abitato dalla totale indifferenza:
quella sensazione che Derry fosse fredda, che Derry fosse insensibile, che a Derry non importasse un fico secco se qualcuno di loro avesse a morire e soprattutto non avrebbe minimamente gioito se avessero trionfato su Pennywise il clown. La gente di Derry aveva vissuto da sempre con Pennywise in tutte le sue molteplici manifestazioni… e forse, in qualche modo scervellato, era persino arrivata a comprenderlo. Ad averlo in simpatia, ad aver bisogno di lui. Ad amarlo? Può darsi. Sì, persino quello può darsi.
Così riflette Bill Denbrough, tornando a Derry da adulto e preparandosi ad affrontare per la seconda e ultima volta It. Il punto è che Pennywise non è un simbolo. È qualcosa di molto reale, nell’universo di King: e tuttavia ha comunque una forza simbolica non indifferente. Il male si dice in molti modi, dicevo; ma ha una radice comune, un modo fondamentale — un principio: e questo principio è It. Perché questo non-nome? Perché non chiamarlo altrimenti? Forse anche perché simboleggia il massimo dell’indifferenza e dell’ubiquità. Il mostro può essere ovunque, ed è così mostruoso da assumere ogni forma per sbranarti: ma nella sua vera natura è qualcosa di indistinto e privo di forma.
Come si sconfigge It?
Per andare a caccia It si serve di maschere e travestimenti, in primo luogo il celebre clown Pennywise. E qui King elabora un principio metafisico fondamentale, una legge cui nemmeno il mostro più mostruoso può sfuggire: tutti gli esseri viventi devono sottostare alle leggi della forma che abitano. It si incarna di volta in volta in forme differenti che corrispondono alle paure dei Perdenti — le paure che abbiamo noi da bambini. Gioca sporco, mettiamola così. Avevi paura delle mummie? Eccoti una mummia. Un corvo si è appollaiato sulla tua culla? It diventerà un enorme rapace pronto a darti la caccia.
I bambini sono la preda ideale perché credono e rendono più facile a It il processo di materializzazione. Ma nel contempo potrebbero essere anche il nemico più insidioso — perché credono, e dunque prendono It terribilmente sul serio: nel contempo, capiscono che una volta scelta una forma in cui incarnarsi, It deve obbedire alle sue leggi. Diventa più o meno debole, e certamente mortale, a seconda delle vesti che si sceglie. I Perdenti sfrutteranno questa intuizione per vincere, e ci torneremo su. Ma da sola non è sufficiente.
Il vero ingrediente fondamentale, la vera arma con cui — è tempo di nominarli — Bill e Ben e Beverly e Mike e Stan e Rich ed Eddie riescono a battere il terribile clown, è che lo fanno insieme. Ognuno di loro sarebbe una preda facile per It. Ma tutti insieme? Riescono a ferirlo gravemente e poi a ucciderlo. In questo il romanzo ricorda Dracula di Bram Stoker, con cui King ha giocato in Le notti di Salem, e di cui ha parlato con dovizia in Danse macabre. Anche nel classico di Stoker i singoli individui sono per lo più indifesi e disarmati di fronte al non-morto. Ma quando si alleano, mettendo in comune le reciproche capacità, le loro possibilità di vittoria aumentano considerevolmente.
I Perdenti sono uniti ma ognuno con una propria personalità, che cercando di vivificare sostenendosi — anche litigando, certo — e comprendendosi — e comprendendo che It può essere battuto. Al Male si può resistere, attraverso il coraggio e l’amicizia. In questo mondo dove l’individualismo e la competizione sono la regola, è rinfrescante leggere di sette ragazzini che superano le proprie diversità e gelosie per combattere un nemico comune e assai più grande delle loro singole forze. Franz Kafka annotò una volta: “dal tuo vero avversario ti viene un coraggio illimitato”. La sventura e la grande occasione insieme dei Perdenti sta nell’aver trovato il proprio vero avversario, e di averne tratto — attraverso il terrore — un coraggio illimitato.
Come si sconfigge It, dunque? Innanzitutto provando una paura del diavolo. Poi credendoci. E infine facendosi forza a vicenda.
La fede nelle storie
Quando leggi King percepisci con chiarezza che scrive per puro amore della storia, come egli stesso ha più volte ricordato. Non ha alcuna sovrastruttura del genere “scrittore impegnato” o “scrittore intellettuale” o tutte quelle sciocchezze su cui molti scrittori fondano carriere e nevrosi.
Come si scrive una storia? Servono un po’ di talento, tantissimo lavoro e un grano di qualcosa di indefinibile, che io chiamerei fede. Alla fine dell’introduzione di una raccolta di racconti, Incubi e deliri, King recita la sua preghiera invitandoci a seguirlo:
Credo che una monetina possa far deragliare un treno merci.Credo che nelle fogne di New York ci siano alligatori, per non dire di topi grossi come pony Shetland. Credo che si possa strappar via l’ombra a una persona con un picchetto da tenda.
[…] Soprattutto, credo nei fantasmi, credo nei fantasmi, credo nei fantasmi.
Voi non ci credete? Ne riparliamo verso l’una di notte quando un rumore improvviso vi desterà nel buio. Poi domattina ci rideremo sopra; ma poi… Sarà nuovamente l’una di notte.
È chiaro che i mostri non esistono, ma è altrettanto chiaro che la nostra paura dei mostri è profondamente reale e non può essere respinta con alterigia. Non abbiamo paura per finta, e se non cominciamo ad ammetterlo non riusciremo nemmeno a capire come combattere queste paure e cosa esse rappresentano. E credo che non riusciremo a goderci nemmeno il più breve racconto realistico.
Leggendo un ponderoso saggio di antropologia, Provincializzare l’Europa di Dipesh Chakrabarty, sono incappato in un aneddoto stupendo:
Un giorno, durante il periodo delle sue approfondite ricerche sul folklore irlandese nel Connemara rurale, William Butler Yeats scoprì un tesoro. Il tesoro era una certa Mrs. Connolly, che possedeva il più magnifico repertorio di favole sulle fate in cui W. B. si fosse mai imbattuto. Sedette con lei nel suo piccolo cottage dal mattino al tramonto, ascoltando e registrando le sue storie, i proverbi e le tradizioni. Con l’avvicinarsi del crepuscolo, Yeats dovette accomiatarsi e si alzò, ancora emozionato per quanto aveva sentito. Mentre se ne andava Mrs. Connolly si mise sulla porta; arrivato al cancello, Yeats si voltò e le chiese tranquillamente: “Un’ultima domanda, Mrs. Connolly, se posso. Lei crede nelle fate?” Mrs. Connolly piegò la testa all’indietro e rise: “Oh, no, no davvero, Mr. Yeats, no davvero.” W. B. si fermò un attimo, si voltò e si avviò per il sentiero. Sentì allora la voce di Mrs. Connolly dietro di sé: “Ma ci sono, Mr. Yeats, ci sono.”
Sono convinto che il problema di questi tempi sia nel continuo ricorso a un lessico emozionale rispetto a un lessico razionale: al contempo, però, so bene che non tutto può essere spiegato in questo modo. Gran parte della mia attività di scrittore si basa su fondamenti che hanno a che fare con un altro regno, dominato da tutt’altre regole. Sono molto simili a quelle dei giochi dei bambini. Nessuna legge fisica o razionale stabilisce che nel gioco del rialzo, se salti su una superficie più alta, sarai salvo dal tocco di chi sta sotto. Ma è così. Devi crederci, altrimenti non giochi.
Ho compreso l’importanza di questo tema, relativamente a It, grazie a una connessione inattesa — una sorta di illuminazione.
Mentre rileggevo per l’ennesima volta It ho ricordato un passaggio, in realtà un brano abbastanza secondario, di quel capolavoro che è Underworld di DeLillo. Di primo acchito non si potrebbe pensare a un libro più diverso e a un autore più diverso da It. Eppure entrambi parlano a loro modo di paura, e di Stati Uniti, e di violenza, e di terrore: in modi diversissimi, con mezzi diversissimi, ma edificando due libri egualmente straordinari — due libri su cui mi chino di continuo e ogni volta trovo una sorpresa, un particolare non scontato, una misura di stupore.
Il passaggio a cui accennavo è nella penultima parte, a mio avviso la più bella, sicuramente la più appassionata e “calda”, di Underworld: Composizione in grigio e nero. Descrive dei bambini che giocano a “ce l’hai” per le strade di Brooklyn, nei primi anni Cinquanta. E come si dice che “ce l’hai” in americano? It. Lasciate che vi legga il brano:
Un altro giocatore ti dà una pacca e tu diventi it. Cosa significa esattamente? Al di là del fatto di essere neutri. Si è anche senza nome e senza possibilità di nuocere. It. Il maligno, il cui nome è troppo potente per essere pronunciato. Oppure il termine è solo la pronuncia cockney di hit, colpire? Quando acchiappi una compagna di giochi, la colpisci. Sei ‘it, bellezza. […]Nel termine c’è un potere che fa spavento, perché ti separa dagli altri. Si cerca di sfuggire al tocco, alla pacca rivelatrice. Ma una volta che diventi it, un senza-nome, né ragazzo né ragazza, sei tu quello da temere. Sei un’oscura forza lì in strada. E ti senti indemoniato, mentre rincorri i giocatori, cercando di toccarli con la tua mano da scheletro, per propagare il contagio, la maledizione. Pronuncia la sillaba lentamente se puoi. In un sussurro di morte, magari.
I bambini quando giocano credono fermamente a ciò che incarnano. E se sei it, sei “un’oscura forza lì in strada”. Ecco, il romanzo di King ci parla soprattutto di questo; e anche per questo King è uno dei più grandi scrittori dell’infanzia: come ha detto bene Nicola Lagioia, i suoi bambini “rilucono di quella magia (oscura e salvifica) di cui ognuno di noi conserva da qualche parte memoria, una magia alla quale tuttavia siamo sempre tentati di non credere perché ci sembra impossibile, da adulti, che il mondo lo si possa percepire e vivere come davvero facevamo senza sforzo in ogni singolo istante dei nostri otto, nove, dieci, undici, dodici, tredici e quattordici anni.” Eppure sono anche profondamente veri. Ruttano, scoreggiano, fanno sassaiole, ridono, scherzano, sono leali e coraggiosi e hanno paura e non vogliono andare a scuola. It è figlio del grande realismo americano — di Mark Twain, diciamo — ma anche della grande epica fantastica.
E tuttavia, a un certo punto noi smettiamo di essere bambini. La nostra capacità di credere si affievolisce, il luccichio negli occhi con cui guardavamo il mondo scompare. C’è un passo del romanzo in cui uno dei protagonisti, Mike Hanlon, riflette su questo fatto con grande arguzia. Mike è l’unico rimasto a Derry, l’unico a ricordare i fattacci della loro infanzia, e di mestiere fa il bibliotecario: è in tutti i sensi il custode della memoria.
che cosa mangia in realtà It? So che alcuni bambini sono stati parzialmente divorati; è certo in ogni caso che si sono riscontrati segni di morsicature. Ma forse siamo noi a spingere It a farlo. A noi tutti è stato insegnato fin dalla prima infanzia che quel che fa il mostro se ti acchiappa nel folto del bosco è appunto mangiarti. È forse la cosa più terribile che riusciamo a immaginare. Ma in verità i mostri vivono di fede, no? Mi sento trascinato irresistibilmente verso questa conclusione. Il cibo può essere la vita, ma la fonte del potere è la fede, non il cibo. E chi più di un bambino è capace di un atto di fede assoluta?Ma c’è un problema: i bambini crescono. In chiesa il potere viene perpetuato e rinnovato con atti rituali periodici. Sembra che a Derry il potere venga perpetuato e rinnovato nella stessa maniera, cioè con atti rituali periodici. È possibile che It trovi protezione nel semplice fatto che trasformandosi in adulti i bambini diventano incapaci di fede o comunque le loro intuizioni vengono impoverite da una sorta di artrite spirituale?
Sì. credo che qui sia il segreto. E se telefono, fino a che punto riusciranno a ricordare? Quanto saranno disposti a credere? […] E ora, ora che non crediamo più in Babbo Natale, nella fatina dei dentini, in Hansel e Gretel, o nel troll sotto il ponte, It è pronto a sfidarci. Tornate, ci dice. Tornate, finiamo quel che abbiamo lasciato in sospeso a Derry. Portate le vostre figurine e le vostre biglie e i vostri yo-yo! Giochiamo! Tornate e vediamo se ricordate la più semplice delle cose: com’è essere bambini, pronti a credere e perciò timorosi del buio.
“Pronti a credere e perciò timorosi del buio”. Già: come fai a credere, da adulto, che da bambino hai davvero affrontato un mostro soprannaturale che girava travestito da clown? Ma devi. Proviamo a giocarla sul lato del reale. Come fai a credere che un tipo di cancro molto aggressivo ed estremamente raro stia divorando una persona a te cara? Ma devi. Come fai a credere che due persone si rincontrino dopo cinquant’anni, per puro caso, su un volo da Milano a Madrid? Ma devi. O ancora: come fai a credere che fra non molto la nostra vita sulla terra sarà completamente diversa a causa del cambiamento climatico? Ma devi.
Una suggestione
Attraverso il terrore capiamo che il mondo non è fatto su misura per noi. Capiamo che il nostro dominio sulle cose è limitato, e per quanto vogliamo ritenerci sovrani del cosmo, il cosmo trova sempre modi per ribellarsi e sorprenderci. Ora, qual è il mostro più grande e ubiquo e difficile da combattere, inestricabilmente legato alla nostra attività, e che sembra pronto a divorarci tutti? Il riscaldamento globale. Non è un’emergenza: è già qui. È la nostra condizione comune. Ma non riusciamo a capirlo, perché è talmente vasto — il filosofo Timothy Morton lo chiama un “iperoggetto” — e sfida ogni capacità percettiva e razionale. Nulla di diverso, mi viene da pensare, all’essere persi nel buio con qualcosa che sta per assalirti.
Il problema è che questo qualcosa non prenderà i panni di un clown che ti mangia vivo: prenderà panni molto peggiori. Come raccontare qualcosa di simile? In un suo saggio, La grande cecità, lo scrittore indiano Amitav Ghosh chiede ai narratori uno sforzo immaginativo per superare la tradizione realistica e individualistica del romanzo. Che succede quando la Terra stessa diventa un protagonista? Come fare della letteratura sul riscaldamento globale?
La sfida è certo enorme, e io non ho risposte. Però It ci fornisce qualche spunto per affrontarla; così come le osservazioni sul weird e l’eerie di Mark Fisher. Esempi in cui il mondo non è soltanto lo sfondo, più o meno dettagliato, delle avventure di un singolo. È qualcosa che si rivela in tutta la sua potenza e oscurità. It è una specie di alterità radicale, assoluta, come il riscaldamento globale: che a sua volta si rende visibile incarnandosi di volta in volta, di luogo in luogo, con le paure peggiori che disponiamo. Nei paesi caldi, fa ancora più caldo. Le isole e le città sul mare vengono sommerse. E così via.
E proprio come il riscaldamento globale ci insegna la dura lezione di accettare i nostri limiti e ripensare la violenza che abbiamo esercitato di continuo. Ma al contempo ci spinge a trovare nuove idee per combatterlo.
Il punto è che l’horror — l’horror alla King, l’horror profondo e consapevole — va preso maledettamente sul serio: nessun altro genere ci può mettere in contatto con la diversità radicale. Ci ricorda nella maniera più puntuale ed efficace che il male esiste. Può non assumere la forma di un vampiro o di un licantropo, ma c’è; è lì fuori, in un mondo che soltanto all’apparenza risulta ordinato e stabile, ma dietro cui si agitano forze incontrollabili.
Telepatia, naturalmente
Alla domanda su che cosa sia scrivere, in On Writing King risponde con sovrana, lapidaria tranquillità: “Telepatia, naturalmente.” Leggendo riceviamo messaggi dal passato e da un altro spazio. “Ed ecco qui, autentica telepatia in azione”: io descrivo qualcosa e voi lo vedete, e le differenze fra le varie interpretazioni sono soltanto ciò che garantisce il fascino del testo. “Io non ho mai aperto bocca e voi non avete aperto la vostra. Non siamo nemmeno nello stesso anno insieme, meno che mai nella stessa stanza… eppure noi siamo insieme. Siamo vicini.”
Questa spiegazione è tipicamente kinghiana perché necessita, ancora una volta, di un atto di fede. Io posso benissimo sapere che la scrittura è anche una tecnica. Nessun bisogno di telepatia o di trucchi simili. Ma per King questo non è affatto un trucco: quando propone di pensare al testo come un luogo dove siamo insieme, lo dice con grande serietà. Sta cercando di riportare alla luce quella fiducia nella magia che abbiamo smarrito crescendo. Scrive in Danse macabre:
il significato che sta in tutti i buoni film dell’orrore è: Non ancora. Non questa volta. Perché, in fondo, il film dell’orrore è la celebrazione di quelli che sentono di poter esaminare la morte perché essa non risiede ancora nei loro cuori.
Quando tifiamo per Ben Hanscombe contro i bulli che lo tormentano. Quando ci commuoviamo per il destino terribile di Georgie, il fratellino di Bill sbranato da It. Quando vorremmo aiutare Beverly a liberarsi dal padre violento. Quando sorridiamo nel vedere i Perdenti giocare insieme. Quando ci emozioniamo mentre Bill affronta il mostro. In ognuno di questi momenti possiamo esaminare la morte perché non risiede ancora nei nostri cuori.
Il mondo di violenza di It è il nostro mondo. Il male è là fuori e dentro di noi insieme e spesso, purtroppo molto spesso, soccombiamo alla sua stupidità. Ma a volte no: a volte siamo in grado di unirci e reagire e sconfiggerlo. Non cerco morali o insegnamenti nei romanzi, sarebbe anzi un atteggiamento peccaminoso: eppure se c’è una cosa che leggendo It viene spontaneo fare, è proprio essere più dediti e amichevoli e buoni; perché l’oscurità è terribile e avanza ciecamente, ma a essa abbiamo sempre delle armi da opporre, per quanto fragili. Per dirla con una frase del romanzo: “Sii valoroso, sii coraggioso, resisti. Tutto il resto è buio”.
Questo è il testo della conferenza tenuta al 238 Hangar delle arti di Roma l’8 ottobre 2019, su invito di Christian Raimo, per Grande come una città.