L a razza umana non è più sufficientemente annoiata dalla vita per essere distratta da una forma d’arte noiosa come il romanzo” disse Toby Litt nel 2012, in un saggio pubblicato su Granta Magazine. Così, il romanzo ha provato ad avvicinarsi quanto più possibile a internet. Dopo una prima fase di totale rigetto, in cui gli scrittori retrodatavano i romanzi pur di non avere a che fare con le nuove tecnologie – e perché, obiettivamente, se il romanzo è già di per se noioso, cosa c’è di più noioso di un romanzo che ci racconta una persona seduta davanti a un computer, o su un divano ipnotizzata dalle storie di Instagram? – la sfera digitale è entrata a far parte dei romanzi come elemento della nostra quotidianità.
David Foster Wallace fu il primo a dire che non si poteva ignorare il ruolo della tecnologia (E Unibus Pluram: Television and US Fiction, in quel caso era la TV) nella vita degli statunitensi, per quanto kitsch e poco poetico. Il fatto è che la tecnologia è colpevole di un eccessivo effetto di realtà: piuttosto che consolidare il patto narrativo, queste intrusioni hanno l’effetto contrario, sbalzarti fuori dalla pagina perché troppo perturbanti. Gli inglesi direbbero, it’s too close to home.
Quando gli scrittori si sono resi conto che internet non era solo una fase ma parte integrante di un nostro nuovo modo di concepire il mondo, le relazioni, le nostre identità, hanno cominciato a porsi il problema. Rebecca Watson, autrice di Little Scratch, dice che trovandosi a raccontare una giornata nella mente di una ventenne al giorno d’oggi, ignorare questa “compulsione digitale […] avrebbe creato un buco nella trama”. E più avanti conferma che questa necessità l’ha ispirata “a movimentare la forma; le pressioni dell’era della distrazione mi hanno portato a spezzare la prosa, incolonnandola, frammentandola”.
Negli ultimi dieci anni hanno iniziato ad apparire romanzi che incorporano, appunto, queste compulsioni digitali. Patricia Lockwood ci ha scritto un libro sopra (Nessuno ne parla, in Italia per Mondadori, traduzione di Manuela Faimali); Lauren Oyler, pure, si è interrogata sulla duplicità dei social e l’effetto parcellizzante che hanno sul sé (Fake Accounts, Bompiani, traduzione di Marta Barone). Lo fanno in maniera diversa e per ragioni diverse, alcuni per una scelta di realismo, altri, elevano lo status di internet e dei social da agenti collaterali a protagonisti assoluti.
Nella maggior parte dei romanzi che si occupano delle nostre esistenze digitali, la tradizionale questione esistenziale (chi sono io?) viene portata all’estremo dal multiverso delle possibilità (chi potrei essere?).
“I stalk a woman on the internet who is sleeping with the same man as I am”. Così apre il romanzo d’esordio di Sheena Patel, I’m a Fan – uscito il mese scorso per Rough Trade Books, e di prossima pubblicazione in Italia per Atlantide. Questa proposizione confessionale raccoglie lo spirito di un romanzo che non solo è internet novel e non solo cattura lo zeitgeist millennial, ma che utilizza un particolare modo di abitare lo spazio digitale come tema fondante. Patel racconta l’ossessione di una giovane donna per un uomo (che lei chiama “the man I want to be with”) e per la sua amante (che lei chiama “the woman I’m obsessed with”). Se nel romanzo di Lockwood la protagonista è una donna che ha passato troppo tempo su Twitter – e per effetto la sua mente pensa in un misto di alto e basso, poetico e grottesco – nel romanzo di Patel la protagonista è una giovane donna di colore che vive a Londra e passa la vita su Instagram, monitorando il profilo di una influencer e dei suoi amici e parenti – e per effetto del quale sviluppa un progressivo scollamento dalla realtà.
Olivia Sudjic descrive il suo romanzo Sympathy (2017) come “una love story per lo più inventata, con ricordi per lo più falsi, fra due persone per lo più assenti”. Lo stesso si potrebbe dire di I’m a Fan. In Sympathy, la protagonista, Alice, trasferitasi da poco a New York, sviluppa un’ossessione per la giovane scrittrice giapponese Mizuko Himura, il cui account Instagram non riesce a smettere di monitorare. Non si capisce mai, fino in fondo, se il desiderio di Alice per Mizuko sia carnale o mimetico. In I’m a Fan, invece, c’è un vero e proprio triangolo del desiderio, fra la protagonista e i due soggetti a cui non dà mai un nome proprio – “l’uomo con cui voglio stare” e “la donna di cui sono ossessionata”. L’uomo con cui vuole stare è un artista molto più vecchio di lei, narcisista ed emotivamente immaturo, sposato ma molto aperto nel parlare delle sue relazioni extraconiugali. “È ovunque è osannato e tutti lo vogliono,” dice di lui, “le persone pronunciano il suo nome come se stessero spendendo i soldi di qualcun altro”. La relazione tra denaro, desiderio e potere non è mai sottesa, Patel ce la sbatte in faccia – così come non c’è falso pudore nel far finta di non desiderare ciò che i privilegiati hanno. Dopo essersi incontrati per caso a una manifestazione, si scambiano un paio di email e non passa molto tempo prima che lei ceda alle sue avances: “la prossimità al potere è troppo forte per resistere. Stringo il mio patto e dico subito di sì”.
Una delle amanti di lui è, appunto, la donna di cui lei è ossessionata: “She has tens of thousands of followers, is verified, and is the daughter of someone famous in America”. Essere verified, avere quella spunta blu di fianco al proprio nome su Instagram, oggi è un po’ come dire ce l’hai fatta, e a determinare questo successo è “the endless stream of white people [who] fawn in the comments under her posts.” Fra le varie vittime che uno stalker potrebbe scegliere, l’influencer è forse la più semplice, ma la più pericolosa – non riesci mai a perderla di vista. L’ossessione per questa donna è simile a quella che Alice prova per Mizuko, diventando preponderante anche rispetto al sentimento per “l’uomo con cui vuole stare”.
Nella maggior parte dei romanzi che si occupano delle nostre esistenze digitali, la tradizionale questione esistenziale (chi sono io?) viene portata all’estremo dal multiverso delle possibilità (chi potrei essere?), generando da un lato una porosità nuova, uno stato in cui ci sentiamo capaci di assimilare le identità altrui come fossero nozioni da incorporare. In I’m a Fan, la protagonista ha crisi della personalità multiple. Pensa in continuazione alla donna da cui è ossessionata, oscillando fra il desiderio di essere come lei, e il disprezzo per ciò che questa donna rappresenta – non solo in quanto minaccia per la relazione con “l’uomo con cui vuole stare”, ma anche per tutto quello che il suo status di influencer comporta, per il privilegio che ha automaticamente ereditato perché bianca e “figlia di” e che lei invece – in quanto brown e working class – non avrà mai. “Faccio degli screenshot delle foto che si fa e studio il suo viso così intensamente che a volte temo di aver preso da lei qualche espressione facciale o inflessione tonale”, confessa nel primo capitolo la protagonista, “la ascolto parlare con suo padre su YouTube più e più volte prima di andare a dormire”.
I’m a Fan è l’internet novel per antonomasia, perché si articola nel segno di una iper-sviluppata percezione del sé, ma un’atrofizzata capacità all’ascolto, all’accoglienza di un punto di vista altrui.
In casi estremi, questa perdita del sé nel mare di possibilità digitali diventa una seducente scusa alla de-responsabilizzazione. Patricia Lockwood non a caso chiama internet il Portale – per accrescere nel lettore la sensazione straniante di un esistenza incorporea, per suggerire che si sta parlando di qualcosa di magico e anche sinistro, ultraterreno. Ma non meno vero della vita reale, tangibile. La protagonista di I’m a Fan nutre le sue ossessioni online voracemente, comportandosi come si fa quando sappiamo di non essere scrutati, cliccando refresh sul profilo della giovane donna in continuazione, avida di nuovi contenuti. Ma lo fa anche atrocemente consapevole che il Portale in fondo è stato creato per la sorveglianza, e ci sono modi per sapere esattamente cosa stai facendo. “A volte, quando sono troppo veloce nel guardare le sue storie”, dice, “la blocco temporaneamente in modo che non sappia che, distrattamente, aggiorno la sua pagina quindici volte al minuto mentre Netflix è in sottofondo sul mio portatile, con lo stomaco che si rivolta per la gioia quando la sua immagine del profilo si tinge di rosso”.
La protagonista non fa finta di essere ciò che non è, usa un linguaggio diretto, spudorato come quello online, quasi didascalico: “I am used to living inside of shame… It is toxic and familiar”. Mi viene in mente l’Eileen di Ottessa Moshfegh: “Didn’t she know I was a monster, a creep, a crone? How dare she mock me with courtesy when I deserved to be greeted with disgust and dismay?”. In entrambi i romanzi, la protagonista è un’outisder dalla moralità corrotta, o perlomeno ambigua, per questi personaggi la depravazione e lo squallore diventano una sorta di coperta di Linus. Ma ciò che dobbiamo sapere ce lo hanno già detto – non c’è bordo, o trasparenza, o sbavatura – soprattutto, non c’è punto di svolta, redenzione o rottura – le azioni che compiono fanno un rumore sordo, rivelando che di là c’è il vuoto. In Patel la prosa è costruita come un susseguirsi di blocchi di testo che ricordano le entries di un blog e si leggono con l’immediatezza con cui si scorre il testo online. Quando si arriva alla fine si ha l’impressione di esser stati fregati, perché il romanzo, per come è stato scritto, sarebbe potuto andare avanti altre 100 pagine, o finire 100 pagine prima – non siamo andati da nessuna parte.
Molti dei romanzi cosiddetti zeitgeisty e millennial o internet novels, appunto, si articolano attraverso una claustrofobica ma “voicey” prima persona e costruiscono un’interiorità lesa, scheggiata, ma piatta, in cui la storia è trainata principalmente dal carisma di un io narrante – Moshfegh, che è indubbiamente una scrittrice, questo lo sa fare benissimo. Nonostante ci siano diversi personaggi importanti in I’m a Fan (il fidanzato di lei, la madre, chiaramente l’uomo con cui vuole stare e la donna di cui è ossessionata), questi ci rimangono totalmente inconoscibili, soffocati, appunto, dalla prosa della protagonista. I’m a Fan è l’internet novel per antonomasia, perché si articola nel segno di una iper-sviluppata percezione del sé, ma un’atrofizzata capacità all’ascolto, all’accoglienza di un punto di vista altrui. Questi romanzi sono strutturati più come confessioni che come storie, dominati dall’illusione che l’iper connettività del mondo contemporaneo conferisca l’abilità di parlare di ciò che conosciamo solo per via virtuale come se lo conoscessimo “personalmente”. Toby Litt vedeva in questo la scrittura che si adatta non alla tecnologia, ma al modo in cui la tecnologia ci ha trasformato come lettori:
scandaglieranno la pagina a caccia di contenuti, piuttosto che viverla come un’esperienza lineare, da in alto a sinistra a in fondo a destra. E questo causerà maggiore velocità e minore specificità. […] I loro occhi fotograferanno campi invece di seguire binari, come fanno, o facevano, i nostri.
Non amo necessariamente le previsioni apocalittiche sulla fine del romanzo e i nostalgici “si stava meglio prima”, ma è vero che in tanta letteratura contemporanea si intravede quello che Ghosh chiamava “la grande cecità”, un fallimento dell’immaginazione. Il romanzo dovrebbe far di più che imitare il frammentario linguaggio di Twitter, dovrebbe riuscire a toccare qualcosa di vero nel modo in cui internet ha trasformato il nostro modo di pensare – non soltanto di leggere. Per quanto Patel sia coeva, e non ho dubbi sulla popolarità che questo testo susciterà tra i lettori della mia generazione e più giovani, lo trovo ancora troppo “dentro” internet – troppo sintomatico – per non invecchiare precocemente.
In Nessuno ne parla, perdoniamo a Lockwood le tendenze edgelord per lo scarto di genio che avviene nella seconda parte del romanzo. Nella prima parte l’intelligenza, humour e agilità poetica dell’autrice ci restituiscono una versione affettata dei feed intellettualoidi. Ma se uno è capace di sopportare, Lockwood porta il lettore dalla claustrofobica assurdità della vita nel portale, verso lo sconvolgente e tangibile dolore della vita fuori dal portale – la nipote che nasce affetta dalla sindrome di Proteo. Patel, invece, rimane al di dentro. Così al di dentro che, nonostante le escursioni della protagonista nella vita fuori da Instagram, tutto si appiattisce non solo senza bisogno di distinguere fra le due esistenze, ma anche senza soluzione di continuità.
Pensato per lettori costretti a incastrare pagine di romanzo fra una notifica e l’altra, il romanzo nell’era di internet ha iniziato a funzionare da ventriloquo per i social: deve accogliere l’interruzione, lo staccato, come forma.
Ciascun paragrafo, o “entry” – dal titolo semi-ironico, con forti riferimenti alla pop-culture contemporanea e ai meme – i might look innocent but i screenshot a lot – segue un ordine cronologico arbitrario, di cui forse l’evento più significativo è la rottura della protagonista col fidanzato quando, dopo mesi e mesi di tradimento, finalmente viene scoperta. Ed è la tecnologia a tradirla: dopo aver perso il cellulare, il ragazzo le presta un vecchio iPhone, ma lei non realizza che tutte le mail che manda, finiscono direttamente nella cloud di lui. Eppure poco cambia, non si costituisce un prima e dopo a partire da questa rottura, ogni frammento continua a seguire il successivo senza apparenti conseguenze, come succede nello stream ininterrotto delle timeline dei social, il dramma dell’evento di ieri non esiste più oggi. Il parossismo è che si parla costantemente di trauma, ma il meccanismo narrativo è direttamente avverso all’assorbimento dell’evento traumatico. Il trauma è stato rimpiazzato da un’altro evento, più o meno traumatico, più o meno degno di nota. E oggi si fanno i post su quello.
Pensato per lettori costretti a incastrare pagine di romanzo fra una notifica e l’altra, il romanzo nell’era di internet ha iniziato a funzionare da ventriloquo per i social – deve accogliere l’interruzione, lo staccato, come forma. Si domanda giustamente Lockwood in Nessuno ne parla, “perché adesso stavamo scrivendo tutti in questo modo? Perché bisognava creare un nuovo tipo di connessione e l’ammiccamento, la sinapsi, il piccolo spazio intermedio erano l’unico modo per farlo. Oppure perché, e questo era più spaventoso, era il modo in cui il Portale scriveva”.
La verità sta nel mezzo: esprimerci come il Portale effettivamente ci dà la possibilità di sintonizzarci con quelle connessioni sinaptiche altresì inaccessibili. Di per sé non sarebbe un problema, se questo tipo di espressione riuscisse a mantenere comunque una sua individualità, una sua originalità. Il dramma sta nel fatto che internet, da luogo in cui originariamente ci si esprimeva liberamente, “gradualmente era diventato il luogo in cui tutti si esprimevano nello stesso modo” – è abbastanza, quindi, dire che un romanzo è voicey, se la voce è la stessa? I’m a Fan non fa eccezione, piuttosto esaspera l’erosione del sé “non più solido come roccia” dimostrando come significhi anche erosione del confine fra sé e gli altri, e fra dentro e fuori. Insomma, non c’è movimento verso l’esterno, perché il fuori non esiste.
Ciò che, dall’interno, questo romanzo però riesce a far bene è dimostrare la vivacità di internet. “Straight men are obsessed with sex, gay men are obsessed with form, and women are obsessed with themselves. The internet is an obsessive habit” scrive Natasha Stagg in Sleeveless. Non a caso, la bacheca dei social si chiama “feed” (“l’atto di dar da mangiare”), e richiede, o meglio, genera, un certo appetito che necessita di essere saziato più volte al giorno. Patel capisce che non si può guardare a internet solo con ironia, o con speculazione, bisogna ammetterne anche l’affascinante lato oscuro. E in maniera quasi liberatoria, la protagonista di I’m A Fan questo ce lo mostra, comportandosi seguendo la legge del taglione.
Non a caso, la bacheca dei social si chiama “feed” (“l’atto di dar da mangiare”), e genera un certo appetito che necessita di essere saziato più volte al giorno.
Patel scrive degli equilibri precari che pervadono le nostre relazioni sentimentali, dei rapporti di potere che vi sottendono, e lo fa spesso e volentieri in maniera moralmente ambigua. “Voglio stare con lui perché si occupi delle mie bollette. Anche se emotivamente è un bambino, è una risorsa”, dice dell’uomo con cui vuole stare. La protagonista sembra esprimersi attraverso il suo ID, da un luogo di energia psichica pura e primitiva – infantile. L’ovvia manipolazione e il rifiuto che subisce dall’uomo con cui vuole stare (e che lei chiama Dr Jeckyll & Mr Hyde per gli sbalzi d’umore) si riverbera sul fidanzato, contro cui lei scaglia violente fitte di rabbia, a cui lui dà il tenero nomignolo di The Hulk.
Critica il privilegio della donna di cui è ossessionata, ma il desiderio per l’uomo con cui vuole stare emana precisamente da quel privilegio. “Voglio potere e contatti e denaro e status e possibiltà e influenza”, dice, “voglio una stampa affamata, affamata di me, piuttosto che saltare per ottenere pezzetti di attenzione come un cane rabbioso che si arrampica nella fossa dello stomaco alla disperata ricerca di qualcuno che ascolti quello che ho da dire”.
Non è la prima volta che Patel ricorre al paragone con una bestia, in un altro momento del romanzo, quando l’attenzione dell’uomo con cui vuole stare viene attirata da un cagnolino al parco, dirà “è proprio in quel momento che dovreste pensare di andartene. Quando si inizia a essere gelosi di un cane”. Ritorna il tema della fame, della voracità – avevamo così bisogno di affetto anche prima, si chiede Patel? Forse sì, ma avevamo più dignità nell’elemosinare.
La protagonista di questa storia è apparentemente impotente: non è ricca, non è famosa, non ha potere decisionale nella relazione con l’uomo con cui vuole stare, e, in fondo, neppure con il fidanzato. Entrambi, in un modo o nell’altro, le negano di esprimere la sessualità come vorrebbe. “Voglio essere scopata e il mio ragazzo vuole fare l’amore”, dice. “Gli chiedo di chiamarmi troia a letto. Lui mi dice che non crede che il modo in cui voglio fare sesso sia quello che sono veramente”. E lei gli crede. L’uomo con cui vuole stare, invece, le nega il sesso tout court, perchè, spiega lui “it’s too intense between us” – e lei gli crede: la loro relazione va avanti cosi per tre anni, senza che lei chieda di più.
Prima che smettessero di andare a letto insieme, dopo una “booty call” dell’uomo con cui vuole stare si trova seduta sul marciapiede dell’albergo in cui si sono incontrati, all’alba, aspettando un Uber che la riporti a casa. La sessualità vorrebbe essere per la protagonista di Patel un luogo di ribellione, ma appare troppo legato all’universo puerile per costituire veramente un riscatto – non ricerco il piacere per me, cerco il dolore perché tu possa sentirti di aver fallito (come padre, fidanzato, amante, eccetera).
Laddove i social ci fanno sentire i protagonisti della nostra storia, e dove la nostra storia acquisisce dignità di essere raccontata, Patel adotta la prospettiva di chi invece sta al di fuori.
C’è però qualcosa di liberatorio – anche se non necessariamente nuovo – in una giovane donna di colore che compie scelte sbagliate, e che suscita nel lettore non pietà o rabbia, ma un misto di tutti e due. C’è qualcosa di ancora più interessante – e forse questo è il vero potere di questo personaggio – nel fatto che lei non sia la protagonista della storia. Rispetto ad altri romanzi che si occupano di questioni simili, qui Patel compie una sterzata. Laddove i social ci fanno sentire i protagonisti della nostra storia, e dove la nostra storia acquisisce dignità di essere raccontata, Patel adotta la prospettiva di chi invece sta al di fuori, l’ammiratore che, grazie alla sua speciale funzione di osservatore e supporter, convalida quel claim alla fama. Al di là dell’attività di stalking, la protagonista di questo romanzo non ha una vera identità online. È una di quelle che su Twitter o IG si chiamerebbero “lurkers”.
“Non scriverai un libro su di me” dice l’uomo in Passione Semplice, “ma io non ho scritto un libro su di lui, e nemmeno su di me”, risponde Ernaux, “ho soltanto trasformato in parole – che certo non leggerà mai, che non gli sono destinate – quel che il suo semplice esistere mi ha arrecato. Una sorta di dono a mia volta elargito”. Questo è vero anche per il libro di Patel, che non parla di lui o di lei, ma di un modo di esistere ambiguo e marginale, diretto ai fan là fuori. “Probabilmente mi accuseranno di sfruttare questa relazione per ottenere lo status che voglio”, dice, “ma se non posso ottenerlo avendo lui, lo otterrò raccontandovi come non ci sono riuscita”.
E qui torno alla definizione di Sudjic – “una love story fra due persone che non esistono…”. Di cosa parla davvero questo libro? Di amore, di ossessione? Delle dinamiche di potere fra persone che dalla vita hanno ricevuto in maniera più o meno generosa? O forse, più semplicemente, di ambivalenza completa?
La protagonista passa la vita a osservare le vite degli altri, a leggere i segnali nascosti nella ruga d’espressione di una foto della donna di cui è ossessionata che tradisce un’emozione mai vista prima e che lei scambia per tristezza, nel braccio dell’uomo con cui vuole stare che non stringe a sé la moglie e che lei interpreta come la fine del loro matrimonio… È attenta, ma non necessariamente percettiva. Per via dell’abitudine a passare al vaglio una quantità d’informazioni disumana, è sempre all’erta, ma a livello profondo non entra in contatto con quello che vede in maniera critica, disimpara il momento dopo, apre un’altra finestra, e così facendo ignora il valore di ciò che vede, esimendosi dal dover trarre una conclusione, o una lezione.
Come dice nel titolo di uno dei suoi capitoli: “first of all i didn’t miss the red flags i looked at them and thought yeah that’s sexy” (per prima cosa non mi sono sfuggite le red flag le ho guardate e ho pensato “sexy”). In un’intervista, citando Sheila Heti, Patel dice che la nostra first draft è the only draft, e che la scrittura è il nostro tentativo di redigere una seconda bozza, di riprovarci. Credo che I’m a Fan catturi bene l’inesperienza, l’ansia, e il caos di questa prima bozza; non sono altrettanto convinta che questo tentativo possa chiamarsi “the second draft”, o romanzo…