Q uando il New Yorker pubblicò “La lotteria” di Shirley Jackson, il 26 giugno del 1948, non si aspettava la reazione che avrebbe scatenato. Centinaia di lettori telefonarono in redazione per chiedere spiegazioni, minacciarono di disdire l’abbonamento alla rivista. La maggior parte, però, voleva capire cosa significasse davvero quel racconto.
La mattina del 27 giugno era limpida e assolata, con un bel caldo da piena estate; i fiori sbocciavano a profusione e l’erba era di un verde smagliante. La gente del paese cominciò a radunarsi in piazza, tra l’ufficio postale e la banca, verso le dieci. In certe città, dato il gran numero di abitanti, la lotteria durava due giorni e bisognava iniziarla il 26 giugno; ma in questo paese, di sole trecento anime all’incirca, bastavano meno di due ore, sicché si poteva cominciare alle dieci del mattino e finire in tempo perché i paesani fossero a casa per il pranzo di mezzogiorno.
In un villaggio senza nome del New England si tiene una lotteria annuale a cui tutti gli abitanti sono obbligati a partecipare: è una tradizione antica per propiziare il raccolto, ma nella descrizione del giorno di festa entrano a poco a poco degli elementi perturbanti: le famiglie si stringono tra loro, i vicini di casa si scambiano sorrisi tirati, i bambini vanno in cerca di sassi. Si delinea un rituale che incanala gli istinti conformisti e violenti della comunità combinandoli alla casualità della lotteria. La verosimiglianza, la violenza e l’atmosfera straniante del racconto scandalizzarono i lettori dell’epoca, e decretarono la fortuna de La lotteria (Adelphi, 2007, traduzione di Franco Salvatorelli), che nel frattempo è diventato uno dei racconti più noti della narrativa in lingua inglese, adattato per radio, cinema, televisione, balletto, teatro (e una puntata dei Simpson).
Shirley Jackson, nata nel 1916 a San Francisco, è oggi riconosciuta come una delle autrici più incisive del gotico americano: Stephen King la cita tra i suoi maestri, Joyce Carol Oates è una grande ammiratrice. Jackson scrisse gran parte dei suoi racconti dell’orrore negli anni Cinquanta e Sessanta, ma in vita conobbe una certa notorietà solo per gli articoli di economia domestica e i ritratti di vita famigliare pubblicati su riviste femminili, oltre che come moglie del critico letterario Stanley Edgar Hyman, professore al Bennigton College. La coppia viveva in Vermont assieme ai quattro figli, in una piccola comunità che guardava con sospetto un accademico ebreo e la sua stravagante moglie, che amava dire di essere una strega. Shirley Jackson beveva, fumava, era dipendente da antidepressivi e pillole dimagranti – morì nel sonno a quarantanove anni per un attacco di cuore.
Sortilegi e amuleti
A metà degli anni Novanta, al figlio Laurence fu recapitata anonimamente una scatola che conteneva dei racconti inediti della madre, articoli lasciati a metà, bozze, riflessioni. Dopo anni di ricerca e selezione, i testi sono stati raccolti in Paranoia (Adelphi, 2018, traduzione di Silvia Pareschi), un volume che è un dietro le quinte dei romanzi di Jackson, un diario della sua vita da casalinga sui generis e un libretto di istruzioni per decifrare l’origine di quell’inquietudine che aveva colto i lettori alla pubblicazione de La Lotteria. “Mi racconto storie tutto il giorno” ripete più volte nei testi della raccolta. “Mentre rifaccio i letti e lavo i piatti e vado in paese a cercare le scarpette da ballo, mi racconto delle storie. Storie su qualunque cosa. Semplici storie”.
Scopriamo così che nella sua vita quotidiana gli utensili della cucina hanno una personalità, problemi di gelosia e incomprensioni, le forchette sono invidiose, gli strofinacci sensibili e la cristalleria vanitosa: “sono riuscita a intessere una favola di infinita complessità intorno agli oggetti inanimati di casa mia”. Gli oggetti hanno una dimensione reale e una immaginaria, i mestieri domestici sono una serie di rituali non così diversi da quelli magici. A volte la gerarchia tra sogno e realtà entra in un cortocircuito, si annulla completamente e le due dimensioni si fondono sullo stesso piano: “Sono stanca di scrivere graziose storielle autobiografiche in cui mi fingo una linda casalinga con un grembiule a fiori, che rimescola appetitose cibarie sulla stufa a legna” scrive in “La vera me”, una sorta di manifesto femminista-stregonesco:
Vivo in una vecchia casa umida con un fantasma che cammina rumorosamente in quella stanza in soffitta dove noi non siamo mai entrati (credo che sia murata), e la prima cosa che ho fatto quando ci siamo trasferiti qui è stato disegnare simboli magici a carboncino sulle soglie e sui davanzali delle finestre per tenere fuori i demoni, e in generale ha funzionato.
La passione per simboli, sortilegi e amuleti si riversa nella costruzione dei suoi personaggi. “Ho uno scarabeo egizio e un netsuke giapponese raffigurante uno scheletro che legge un libro di poesie”, elenca ne “I fantasmi di Loiret”, un pezzo che percorre con onirico rigore i sortilegi che possono colpire una casa e i rispettivi rimedi, “e ho una sfera di cristallo e un mazzo di tarocchi e svariati tiki e undici gettoni di bische siamesi e un libro di Ludovico Sinistrari che elenca tutti i demoni per nome e sortilegio, e un coltello da lancio australiano e un incunabolo e un volume di Villon con illustrazioni sconvolgenti, e un libretto di Currer Bell e un’arpa a barca africana e un teschio proveniente dal palazzo dei Collyer, e un anello dei desideri e tre talismani magici – uno esclusivamente per il giovedì – e una collana congolese fatta di piccoli teschi intagliati nel legno”.
L’eco dell’orgoglio con cui Jackson passa in rassegna i suoi oggetti magici lo ritroviamo in Merricat Blackwood, la narratrice inaffidabile di Abbiamo sempre vissuto nel castello (Adelphi, 2009, traduzione di Monica Pareschi). È l’ultimo romanzo pubblicato prima della morte: Shirley Jackson presta la voce a una ragazza di diciotto anni, l’unica sopravvissuta insieme alla sorella Constance e allo zio Julian all’avvelenamento avvenuto nella sua famiglia sei anni prima. I tre superstiti vivono nella vecchia dimora dei Blackwood in totale isolamento, odiati e temuti dagli abitanti del villaggio. Per proteggere il delicato equilibro famigliare, Merricat ha ideato degli incantesimi personali, piccoli riti magici che mettono la casa al riparo dall’esterno: i suoi amuleti sono la cassetta di dollari d’argento sotterrata vicino al ruscello, la bambola sepolta nel campo, il libro inchiodato al pino. Quando l’arrivo del cugino Charles minaccia il suo mondo, Merricat cerca di difendersi inventando nuovi, più potenti incantesimi:
La domenica mattina mancava un giorno in meno al cambiamento. Ero ben decisa a non pensare alle mie tre parole magiche, anzi a cercare proprio di togliermele dalla testa, ma l’aria di cambiamento era così forte che non ci fu modo di evitarlo; il cambiamento incombeva sulle scale, in cucina e nel giardino come una nebbia. Non volevo dimenticarle, le mie parole magiche – MELODIA GLOUCESTER PEGASO –, ma non volevo averle in testa.
Parole come aglio
Shirley Jackson sceglie le parole come strumenti per catturare magneticamente l’attenzione del lettore. È quello che definisce “l’aglio del racconto”: dettagli da usare con parsimonia, senza bisogno di fuochi d’artificio linguistici: “parole e frasi che lo scrittore arricchisce artificialmente a beneficio di quel racconto, parole che hanno un peso solo in quella storia, parole, in breve, che vanno usate come l’aglio”.
L’incubo di Hill House, la sua più riuscita storia di fantasmi, lo mostra bene. Il professor Montague, antropologo dedito allo studio degli spiriti, sceglie Hill House, una vecchia casa circondata da cupe colline, per condurre una ricerca in stile ottocentesco: invita quattro ospiti con una predisposizione al soprannaturale a trascorrere un periodo nella villa stregata. Per Eleanor Vance, trentaduenne che “non ricordava di essere mai stata felice nella sua vita adulta”, quella è l’occasione di trovare uno spazio per sé. Il viaggio verso Hill House è l’inizio della sua discesa nell’irreale: guida da sola per 300 chilometri e alcuni dettagli di questo viaggio – una vecchietta che promette di pregare per lei, un portico con leoni di pietra, un gatto bianco che prende il sole in un giardino, una bambina che dice di avere una tazza di stelle – diventano per lei simboli a cui aggrapparsi una volta a contatto con la sfera di influenza malefica della casa.
Hill House è “un luogo di disperazione, tanto più spaventoso perché la facciata sembrava sveglia, con le finestre vuote e vigili a un tempo e un tocco di esultanza nel sopracciglio di un cornicione”, accoglie gli ospiti come si conviene a una casa stregata: porte che si chiudono improvvisamente, correnti d’aria gelide, strane risate che diventano urli agghiaccianti nel cuore della notte. Hill House confonde, disorienta, avviluppa i suoi ospiti fino a fargli perdere il senso della realtà.
Stanze che si aprono una sull’altra e porte che conducono in cento posti diversi allo stesso tempo e si chiudono appena arrivi, e scommetto che da qualche parte ci sono degli specchi dove ci si vede tutti deformati e uno sfiatatoio che solleva le gonne, e qualcosa che sbuca da un passaggio buio e ti scoppia a ridere in faccia.
Per una mente incline all’immaginazione, l’influenza della casa può sconvolgere completamente la distinzione tra ciò che è vero e ciò che non lo è, il confine tra le storie che ci raccontiamo e quelle che viviamo.
La porosità di questo confine si rivelerà drammatica per la protagonista de L’incubo di Hill House: per Shirley Jackson, invece, le fantasie irrefrenabili e la capacità di tessere una realtà alternativa a partire da piccoli oggetti quotidiani è stato l’aglio che ha condito le sue giornate casalinghe; un antidoto alla depressione strisciante che prende la forma della dipendenza da alcol e sigarette oppure le fattezze delle protagoniste dei suoi romanzi. “La cosa più bella dell’essere una scrittrice” dice ancora in Paranoia, “è che puoi permetterti di abbandonarti alla stranezza quanto vuoi”. L’importante è continuare a riversare in storie racconti e romanzi, il mondo di fantasia alternativo che si è fabbricata. “È un mondo felice, ricco e irrazionale, pieno di fate, fantasmi, elettricità libera e draghi, un mondo più divertente da esplorare di ogni altro”.